CORAGGIO

La verità è che senza nessuno vicino siamo solo pezzi di carne ambulante, zombi senza slanci, individui mossi solo ed esclusivamente da un egoistico amor proprio. Questa consapevolezza è di grande aiuto, ma non basta, soprattutto quando guardi la vita degli altri e ti accorgi del loro lieto fine.

Gaia e Donato sono felicemente in attesa del loro bimbo. Mia sorella Alice è incinta. Sì, anche lei.

Ora, mi potete spiegare come accidenti sia possibile che il destino ci prenda tanto gusto con me? Sembra quasi che stia lì, con un ghigno malefico, a giocare con le mie sventure mentre io troneggio sul cucuzzolo di una montagna fatta di merda. Sono felice per tutti, davvero. Ma non consideratemi un'egoista se non riesco a dimostrarlo come dovrei.

Milano mi sta sempre più stretta, il Dipartimento di Genetica è un luogo che non considero più parte di me e credo, a questo punto, che sia il mio stesso istinto di autoconservazione a urlarmi di andare via. Il più lontano possibile.

Così, in una fresca domenica di inizio settembre, nel bel mezzo di una pausa caffè nella mia casa d'infanzia, a Bellagio, sparo l'infausta novella: «Ho chiesto il trasferimento in un altro istituto.»

«Il Niguarda?» propone mia sorella senza cogliere il senso preciso della mia affermazione.

«No, non voglio restare a Milano.»

Addenta un Nascondino e mastica, mastica, mastica come un criceto. «Mi hanno parlato molto bene di Padova, è forse lì che vuoi andare?»

Che poi, mi chiedo cosa ne sappia mia sorella dei Dipartimenti di Genetica sparsi nel nord Italia.

«Alice, io voglio andare via. Cambiare aria, trasferirmi in un posto a chilometri di distanza da qui.»

Nella cucina cala una cappa di soffocante angoscia.

Mia madre resta impassibile, ma se il suo cervello potesse urlare a voce alta i pensieri che vibrano dentro, lancerebbe una serie infinita di improperi.

«Ma sei fuori di testa? Ti rendi conto che ci lasceresti qui, da sole? E la mamma? Sei sempre la solita egoista!»

«La smetti di fare la stronza? Ma neanche la maternità ti ha smussato gli spigoli?»

«Giù, fidati che con gli ormoni alle stelle, gli spigoli diventano aguzzi.» Mio cognato entra nella stanza – e nel discorso − proprio nel momento giusto e si becca subito un'occhiataccia.

«Giuditta, se pensi che possa essere la scelta migliore per te, sentiti libera di farla.» Questa sentenza, da parte di mia madre, arriva inaspettata.

«Dici sul serio?» chiedo in ansia all'idea che possa rimangiarsi tutto.

«Ma mamma!» Alice insiste.

«Alice, smettila! È la vita di tua sorella, mi sembra che ne abbia passate tante ultimamente, no? Spetta a lei decidere.»


***


Stabilisco in maniera definitiva di andare via da Milano una notte, una notte in cui non riesco a dormire a causa di un senso di soffocamento che mi fa girare la testa e battere forte il cuore. Le ombre scure nella stanza stanno a guardarmi mentre mi siedo, porto la mano sulla gola e inspiro di più, sempre di più perché ho paura che l'aria non mi basti. I ricordi mi stanno strangolando. Butto il capo all'indietro sulla testata del letto, gli occhi puntati in alto a cercare il controllo che mi serve per riprendere il contatto del corpo. La debolezza esce fuori a tradimento, si trasforma in panico e non riesco a gestirla.

Occorrono interminabili minuti prima che il battito si regolarizzi e che la gola smetta di inghiottire impazzita un groppo che non c'è, che è frutto della suggestione, della paura, della solitudine.

In questa notte crudele, mi convinco che partire è davvero l'unica chance per ricominciare daccapo.


***


Una bella copertina rossa in similpelle, il titolo è dorato e sotto spicca il mio nome. La mia tesi specialistica scivola sulla scrivania del professore come il trofeo di chiusura di una lunghissima gara.

«Complimenti Giuditta.» Il viso liscio nonostante l'età, i capelli più sale che pepe e gli occhi appagati da chi la gratificazione riesce a viverla anche attraverso i successi degli altri, dei suoi alunni. Mi mancherà anche lui, il professor Emilio Cesari e la sua disponibilità. «Ho delle novità in merito alla tua proposta di trasferimento» continua con gli occhi grigi fissi su di me.

Sembra proprio che sia la stessa vita a indicare la via da seguire, certe volte. E ora eccola qui, la mia vita, che apre davanti a me una possibile alternativa. Una salvezza.

Un sospiro prima di proseguire. C'è un collega, un vecchio amico, che ho sentito qualche giorno fa, sta cercando dei medici genetisti per un progetto. Il dipartimento di cui è a capo, però, è molto lontano da qui...»

«Non è un problema. Se lei mi ritiene all'altezza del compito, io sono disposta a partire anche domani.»

Lui si umetta le labbra con la lingua, un altro sospiro. «In Sicilia, a Palermo.»

Bang! Un pugno dritto sul naso.

Una meta lontanissima, persino più distante di quanto immaginassi.

«Va bene» dico istintivamente. «Voglio andarci. Ci vado io.»

Quattro giorni dopo discuto la specialistica. Tempo qualche settimana e inizio la ricerca di una casa, poi, tramite i contatti del professor Cesari, trovo un appartamento a un prezzo decisamente stracciato per una che è abituata agli affitti dalle cifre indecenti di Milano. Che qui, se riesci a risparmiare qualcosa, ti ritrovi in un bugigattolo ammuffito.

Blocco la casa di cui non riesco ad avere neppure una foto, pare appartenga a una vecchia signora del paese, in compenso per telefono la donna mi elenca ogni particolare con un intercalare che talvolta faccio fatica a comprendere. Dice che l'appartamento affaccia sul lungomare, che il sole quando entra dalle finestre sembra di stare in un giardino, che è a due piani ma «lei è na nicaredda, dottoressa» ripete temendo che le scale possano trattenermi dal concludere l'affare. 

Alla fine, accetto, alla cieca, sperando di non pentirmene una volta arrivata lì.

Il giorno prima della partenza lo trascorro barricata in casa a chiudere scatoloni. Mi hanno destinata a Cefalù, in una sede distaccata del Dipartimento di Genetica di Palermo, il che mi va anche meglio, preferisco una realtà più piccina da cui ricominciare.

«Il nastro adesivo?»

Carlo si è offerto di aiutarmi e io l'ho lasciato fare.

«È sul tavolo.»

«Perché vai così lontano, Giù?»

Crollo seduta a terra, queste ultime giornate sono state infernali.

«Perché voglio tanti chilometri di distanza tra la vecchia vita e la nuova.» Passo una mano sui capelli e li tiro indietro con un elastico.

«Posso partire con te, se vuoi, per accompagnarti. Il viaggio è lungo e farlo in macchina da sola...»

Scuoto la testa decisa. «Non se ne parla.»

«Cazzo, quanto sei testarda!» Corruccia lo sguardo, poi ride come ridono gli amici rivolgendosi a una tipa con la testa dura come il marmo.

Stiracchio il collo prima a desta, poi a sinistra. «Non è che non voglio il tuo aiuto... Ma questa è la mia battaglia. Il viaggio sarà un rito di iniziazione, devo farlo da sola per raccogliere coraggio.»

Sulla parola coraggio, non so perché, mi trema la voce.

Lui si siede accanto a me, allunga il braccio e mi costringe a franare sul suo petto.

«Carlo, ho paura. Ma tu fai finta che io non te l'abbia detto» sussurro in un momento di sconforto.

Mi molla un bacio sulla testa.

«Gli scatoloni che non riesci a caricare in macchina, te li porto io, però.»

Mi scanso, alzo la testa, Carlo e la sua fisicità mi sovrastano. «Non se ne parla. Hai fatto fin troppo per me. La Sicilia è lontana. Sai com'è... esistono i corrieri.» Gli strizzo l'occhio e mi sdraio a terra, chiudo gli occhi e ripeto in testa come una nenia: ce la farò. Ce la farò. Ce la farò.


***


Io, Giuditta Piras, ho aspettato questo giorno come una liberazione. L'attesa è stata estenuante a tal punto che poi non vedevo l'ora che arrivasse il momento della partenza. Mi sembra di essere la protagonista del film di Zalone quando dalla Puglia parte per Milano. Mia madre ha riempito diverse buste con le provviste indispensabili, teme che io possa lasciarmi morire di fame. In questo non sbaglia, considerando la mia poca praticità ai fornelli. Mia sorella è tutta stretta nelle braccia consolatorie di mio cognato e trattiene a stento la commozione. Marco mi sorride con la faccia di chi sa che ce la farò.

Io ce la farò.

Gaia e Arianna mi guardano con gli occhi gonfi, sembra che io stia partendo per qualche desolata landa della terra. Carlo non fa che sistemare i bagagli per evitare che facendo retromarcia io vada a spiaccicarmi contro qualche palo.

Sono tutti qui, avvolti nell'ultima – e vana – speranza che io ci ripensi e non parta più. Ma la decisione è presa, non tornerò indietro.

«Giù, se hai bisogno chiamami anche di notte.» Gaia mi stringe forte mentre io le poso la mano sul ventre gonfio, mi abbasso e con un bacio saluto anche la piccola Matilde promettendole che tornerò per la sua nascita. La mia mica aveva ragione, è una femmina.

Poi è il turno di Arianna, che scoppia in lacrime. Il che mi smuove nella pancia tutta una serie di malinconie. In un attimo ripenso a questi ultimi anni trascorsi con loro. Ai cambiamenti, alle serate, alle litigate, al vicendevole supporto che può offrirti un'amicizia decennale. È un po' come quando dicono che in punto di morte uno riveda la propria vita come in un film. Io credo che questo film lo rivedrò in loop per l'intero viaggio, con un magone sulla bocca dello stomaco.

Carlo è l'ultimo a salutarmi e il suo abbraccio mi lascia un retrogusto amaro in bocca, un attaccamento amichevole e straordinariamente rassicurante. 

«Sei stato un ancora di salvezza in questi mesi per me. Grazie» gli sussurro aggrappandomi alle sue spalle.

«Ti voglio bene, Giù» mi dice.

Salgo in auto. Un'ultima occhiata dallo specchietto alla mia vecchia vita.

«Cara vita, ti lascio indietro, senza dimenticare, però, che sei stata fondamentale per farmi diventare ciò che sarò domani» dico tra me e me.

Un ultimo ciao con la mano fuori dal finestrino.


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