CHI È SENZA PECCATO SCAGLI LA PRIMA PIETRA (parte prima)
Sono tornata in attività! Vi lascio a questo capitolo...
Buona lettura.
Il silenzio nell'auto è talmente denso che potrei quasi toccarlo. Gabriel non spiccica una parola da quando siamo rientrati in macchina e io mi sono rintanata in un mutismo che mi fa pensare a Flavio senza tregua; il senso di colpa è una pena che pesa sulla mia testa come una condanna a morte.
Cosa dovrei fare una volta tornata a casa? Comportarmi come se ciò che è accaduto prima fosse stato solo frutto di una fantasia perversa e irreale?
Oh, Giuditta, stai cercando in tutti i modi di contenere i danni, vero? Stai cercando di trovare un appiglio al quale appenderti pur di non scivolare nel baratro dei rimorsi, mi tormenta l'assillante vocina dentro di me.
Non potrò fuggire dalle mie responsabilità, questo è certo. Ciò che mi aspetta nelle prossime ore sarà una lenta e dettagliata analisi per capire cos'è che mi ha condotto fino a questo punto: il punto di non ritorno. È difficile scendere a patti con il pentimento, è complicato trovare una sola ragione che, in qualche maniera, giustifichi il mio comportamento. L'assenza di Flavio, la sua lontananza e il timore di non essere più al centro della sua attenzione sono delle motivazioni sufficienti per alleggerire il peso che grava sopra la mia coscienza?
No.
La realtà, forse, è che con le intime carezze sopra quel letto d'albergo, io non desideravo altro che colpire Flavio, vendicarmi nell'unica maniera che sapevo, e so, potrebbe ferirlo in profondità. Non ho punito solo lui, però. Ho punito soprattutto me e ora, di questo fardello carico di menzogne, non so cosa fare.
Il cellulare squilla, il mio cuore sussulta per la milionesima volta.
Do una sbirciata al display. È ancora Gaia, mi ha chiamata per l'intero pomeriggio, ma io ero davvero troppo impegnata nelle mie sporche effusioni con Gabriel per dare retta al cellulare. Porto le mani sopra testa e affondo le dita tra i capelli.
«Dovresti rispondere.» La voce di Gabriel è un suono rigido e imperscrutabile.
«È Gaia. Pensa che sono a Bellagio, cosa le dico?»
«Non sa nulla di te... di me?»
«No.»
«Dille che stai tornando a Milano. Dove hai parcheggiato la tua macchina?»
«Perché?»
«Perché se alla tua amica viene in mente di fare un salto a casa tua e trova la tua auto parcheggiata fuori, poi che le racconterai?»
Precipito nel terrore. Non avevo pensato a questa eventualità, si vede proprio che non sono un'adultera seriale, altrimenti avrei preso in considerazione ogni singola eventualità. Chiudo gli occhi, mi concentro. Dio, faccio fatica anche a ricordare dove ho posteggiato l'auto ieri. Poi rammento.
«In garage. È in garage» mormoro con voce tremante.
«Sicura?» continua a chiedere lui mantenendo lo sguardo fisso oltre il parabrezza.
«Sì, ne sono sicura.»
Il cellulare smette di squillare e il display torna in standby, la nostra automobile si accoda dietro una fila interminabile di macchine, un attimo dopo il mio telefono ricomincia a trillare. Sto odiando questo suono e anche la mia amica che si ostina a telefonarmi in un momento per me tanto critico. La Range Rover di Gabriel avanza qualche metro nel traffico congestionato per poi fermarsi nuovamente.
«Cristo! Rispondi!» pronuncia spazientito.
Ubbidisco.
«Pronto.»
«Finalmente! Ma dove ti eri cacciata?» La voce di Gaia è stranamente scocciata e questo mi rende ancora più nervosa.
«Scusami, avevo tolto la suoneria. Sto tornando a casa...» pronuncio tentennante e temo che dal mio tono si percepisca chiaramente che sono una sporca, misera bugiarda.
«Ah, e quanto ti manca?»
Sposto rapidamente gli occhi sul navigatore. «Più o meno quaranta minuti.»
«Confermata l'uscita per stasera?»
Oh, no. No! Non ho davvero nulla da festeggiare stasera.
Il volume alto del telefono e il silenzio tombale dell'auto permettono a Gabriel di ascoltare nitidamente la conversazione che sto intrattenendo con Gaia.
Sento la sua mano stringermi l'avambraccio e quando mi giro a guardarlo, lo vedo fare di sì con la testa. Resto in silenzio qualche secondo con il cellulare che preme energicamente contro il mio orecchio, l'espressione sul viso di Gabriel si fa più determinata mentre le sue dita affondano con vigore nella mia pelle.
«Giù, ci sei?» insiste Gaia.
«Sì, ci sono. Va bene.»
«Passo a prenderti io per le nove.»
«A dopo, allora» rispondo e riattacco subito dopo.
La tensione, che per un attimo sembrava essersi dissolta, torna a riempire l'abitacolo. Mi rannicchio contro lo sportello e per il resto del viaggio continuo con le mie lente ed estenuanti riflessioni, finché le associazioni nella mia testa mi conducono a mio padre. Ovunque lui sia, ora, so di averlo deluso. L'unico appiglio in grado di confortarmi risiede tutto nel mio agnosticismo e nella convinzione che dopo la morte non ci sia più nulla. Tuttavia, questa fredda consapevolezza non riesce comunque a lenire la mia angoscia. Durante le mie silenziose farneticazioni, mi si para dinanzi un'intuizione, un'illuminazione che mi spinge a cogliere la possibile ragione che ha spinto di nuovo Gabriel a cercarmi, a sedurmi e a desiderarmi.
Circa quaranta minuti dopo raggiungiamo l'indirizzo di casa, recupero la borsa poggiata accanto ai piedi e afferro il giubbino di jeans sul sedile posteriore.
«Tra un paio di settimane terminerò il mio lavoro a Milano. Tornerò a Roma» ammette Gabriel con la sua voce rauca e baritonale. Posa le mani sopra le mie e come un'alta marea, vengo inondata da una sensazione mista tra sollievo e nostalgia.
«Sarà meglio per tutti» rispondo, cercando di esibire indifferenza.
«Tornerò a trovarti, Giù. Non rinuncerò a te ancora una volta. Non voglio che vada a finire così.»
Lo guardo pregando che lui non possa leggere nei miei occhi tutto lo smarrimento che queste parole mi stanno generando.
Abbasso lo sguardo, concentrando la mia attenzione su un angolo del sedile sopra il quale è seduto. Osservo le cuciture chiare che attraversano il cuoio beige, la curva delle gambe di Gabriel e i jeans sbiaditi che indossa.
Lo sento avvicinarsi al mio viso, allora blocco i miei occhi nei suoi, così scuri, così terribilmente invitanti.
«Gabriel, non è una buona idea. Io ho la mia vita, tu hai la tua. Io ho Flavio e tu hai Nicole. Le nostre esistenze non sono fatte per camminare sullo stesso binario, le nostre necessità sono agli antipodi.»
Le sue mani stringono ancora le mie, sono calde, e per un istante sembra possano davvero rassicurarmi e proteggermi dallo tsunami che sta per abbattermisi addosso.
«No, Giù. Noi siamo molto più simili di quanto tu possa immaginare.»
Ripenso a mio padre e poi a sua madre. Ripenso a cinque anni fa, al dolore che aveva provato, alla metamorfosi che aveva subito il nostro rapporto immediatamente dopo.
«Gabriel, tu sei alla ricerca di un'oasi di pace. Cinque anni fa quell'oasi te l'aveva offerta Nicole, dopo la morte di tua madre. Tu non sei in grado di affrontare i problemi. Sei alla ricerca di qualcuno che lo faccia con te, che ti rassicuri, che ti sorregga, anche se cerchi di mostrare il contrario. All'epoca io non andavo bene, ti conoscevo poco e, come hai detto tu, il nostro rapporto era troppo acerbo. Ora, però è la tua Nicole a stare male, ora è lei a creare dei problemi nella tua vita e tu quei problemi non riesci a dominarli, a controllarli, ad accettarli. I problemi vanno affrontati, e non puoi sempre appoggiarti a qualcuno. Ora tua moglie è fuori dal tuo controllo mentre io sono qui, ti sembro disponibile, ti appaio come una buona amica, un'amante e una confidente. Se un giorno fossi io a creare dei problemi o a condividere con te un momento difficile della tua vita, allora, Gabriel, che cosa faresti? Cercheresti un'altra Giuditta o un'altra Nicole.»
Resta a fissarmi senza proferire parola, limitandosi a stringere ancora di più le mie mani nelle sue, forse per provare a dissuadermi dalle convinzioni che gli ho appena sparato addosso.
Si avvicina, mi abbraccia. Il corpo di Gabriel si piega sopra il mio; stento ad ammetterlo, ma mi piace. Il contatto fisico mi manda in estasi, mi strappa dalla realtà trasportandomi in un posto che è solo mio e suo. Rimarrà per sempre mio e suo. Ma la vita cambia, le relazioni evolvono e le necessità anche. Non si può restare attaccati alla passione, al batticuore di un istante, al ricordo di un amore. Non si può. Allungo la mano sul suo bel viso e l'avvolgo sopra la guancia morbida, scosto il mio busto dal suo petto.
«Posso baciarti?» sussurra.
Scuoto la testa.
«Un'ultima volta...»
Mi sembra tenero, mi sembra gentile e infinitamente nostalgico. Sfioro il suo naso con la punta del mio, gli concedo un ultimo fugace contatto con le mie labbra, baciandolo delicatamente e dimenticando tutto il resto: ogni paura, ogni domanda, ogni menzogna.
«Non mi arrenderò.» dice un attimo prima che io apra lo sportello.
Gli regalo un sorriso, consapevole che le promesse di Gabriel sono parole lanciate al vento e che, velocemente, verranno trascinate via e dimenticate. Gli faccio ciao con la mano e quando raggiungo il portone di casa sento la sua macchina ripartire.
Ora sono di nuovo sola. Colpevole. Confusa. Nei guai.
Prendo l'ascensore, raggiungo il quarto piano, infilo la chiave nella serratura. Quando apro la porta di casa mi accorgo che il soggiorno è immerso in un insolito buio, un buio esagerato per quest'ora della sera. Cerco con la mano l'interruttore della luce e una volta premuto, sento urlare all'unisono: «Tanti auguri, Giù!»
Davanti a me ci sono una decina di persone tra le quali mia sorella, mio cognato, Arianna, Sveva e qualche collega. Gli occhi indugiano sull'uomo al centro del salone.
È il mio uomo. È Flavio.
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