A CIÒ CHE SIAMO ORA E ALL'AMORE CHE ERA ALLORA
FLAVIO
Ho aspettato questo momento in un patologico stato di ansia. Lei non chiamava e io non sapevo come interpretare il suo silenzio. Ieri era domenica e in preda a un raptus di insofferenza sono andato da Giù, ma non c'era. Ho aspettato davanti al suo cancello per l'intero pomeriggio, consumando il muretto con la suola delle mie scarpe; salivo sopra per guardare oltre la siepe, scendevo affranto dall'immutata consapevolezza. Salivo, scendevo. L'ho fatto, quanto, un centinaio di volte? Forse anche un po' di più. Alla fine, sono andato via per disperazione.
Ora che il telefono squilla ed è comparso sul display un numero sconosciuto, il cuore e la mente hanno spiccato il volo.
«Pronto?» rispondo con malcelata enfasi.
«Flavio, ciao. Sono io.»
È lei.
«Ehi, ciao...»
Vorrei dirle: dove sei stata? Perché non hai chiamato prima? Sei ancora arrabbiata? Hai dovuto riflettere prima di fare questa telefonata? E ieri, ieri eri con quello, col biondino slavato?
Ma non dico niente. Aspetto che parli lei.
Seguono quattro secondi di silenzio scanditi da un ticchettio di fondo che io riconosco in un lampo, Giuditta sta battendo la penna sopra una superficie.
Tic, tic, tic.
«Dovremmo parlare» mormora abbassando il tono di voce.
Ancora tic, tic, tic.
«Lo penso anche io.»
Tic, tic, tic.
«Facciamo stasera?» l'anticipo subito.
Tic, tic, tic.
«Stasera finisco un po' tardi. Ieri abbiamo avuto un congresso, a Palermo. Io e la mia collega abbiamo una relazione da preparare per una riunione.»
Tic, tic, tic.
«Facciamo... domani sera?» aggiunge poi. E il tic si arresta.
«Certo. Domani... andiamo a mangiarci una cosa fuori. Oppure a casa, se sei stanca.»
«No. Preferisco fuori. Ti porto in un ristorante dove vado spesso, una cosa tranquilla. Io... abbiamo tante cose di cui discutere.»
Ha usato un termine che non mi piace affatto. Discutere.
«Non dobbiamo discutere, Giù. Dobbiamo parlare... né litigare, né alzare la voce... solo parlare.»
«Né toccarci. Non dobbiamo toccarci, Flavio. O vanificheremo tutto.»
«Hai ragione, sono stato impulsivo l'altra volta. Scusami...»
Lo sono stato, e io di solito non agisco mai senza pensare; ma in questo anno ho perso un po' della fermezza che ho sempre avuto. Chissà se Giù ha interpretato il mio gesto come un capriccio del momento.
«Non preoccuparti» dice lei. «Ora devo andare, ci sentiamo domani, d'accordo?»
Tutto a un tratto domani mi sembra un tempo troppo lontano, un'attesa dilatata all'estremo.
«Va bene.»
Mi resta una sola cosa da fare per ingannare l'attesa. Prendere la moto ed evadere un po', alla scoperta di questa terra che spero, con tutto il cuore, possa restituire a me e a Giù la verità su di noi, la verità sull'amore.
***
Giuditta
Passo a prenderti alle sette e trenta, va bene? Dimmi in quale albergo alloggi.
Flavio
Alle otto va bene. Posso venire io da te, ho la moto.
Giuditta
Lo so che hai la moto, ma non andremo in moto. Fidati, passo a prenderti io.
Cedo, cosa che accade di rado.
È stato il suo "fidati" a farmi mollare la presa?
Detesto non avere il controllo della situazione, mi fa sentire come uno che potrebbe perdere la battaglia. Ma Giuditta non è una battaglia, né un trofeo di guerra. Le invio la posizione, poi torno con la testa sul cuscino, a guardare il soffitto.
Alle sette meno un quarto sono già pronto, seduto sul bordo del letto a muovere le gambe in preda a inarrestabili spasmi volontari. Non sono avvezzo al nervosismo, di solito sono le circostanze professionali a instillare in me un po' di concitazione, eppure anche in quelle occasioni riesco a gestire il tutto. Ora no, ho la sensazione che io possa non superare il test, che io possa scoprire verità troppo dolorose, che lei possa pormi domande a cui saprò rispondere solo dopo prolungati istanti di silenzio.
Mancano dieci minuti alle sette e mezza quando scendo nella hall; la testa rivolta all'esterno e gli occhi puntati sulla strada, per tutto il tempo.
Giuditta arriva con un po' di ritardo.
Apro la portiera, l'abitacolo è intriso di profumo da donna, una fragranza esotica che sa di vaniglia e cocco.
«Hai cambiato profumo?» le chiedo ancor prima di salutarla.
Ha gli occhi nascosti da un paio di lenti fumé e una montatura sottile, color oro.
«Sì», dice soltanto, ma il tono dolce tradisce l'esagerata compostezza che sembra ostentare.
Il mio sguardo scivola in basso, sopra la morbida camicetta bianca con le maniche a palloncino e il colletto marinaro. I capelli li porta legati in una coda. Scendo ancora più giù, sui pantaloncini cachi che le scoprono le gambe.
È orribile questa sensazione di disagio; io e lei abbiamo condiviso per anni tutto. Spazi, silenzi, parole, rabbia, pelle, odori. Tutto. Ora siamo qui, rintanati entrambi al proprio posto come due soprammobili troppo diversi per stare vicini.
Allungo la mano sulla manopola dello stereo, alzo il volume; allora lei si gira e anche se i suoi occhi sono indefiniti sotto le lenti colorate, ci sfioriamo con lo sguardo, le note di Ho Hey di The Lumineers in sottofondo.
«Dove andiamo?» le chiedo poi.
Lei accenna un sorriso compiaciuto, senza esagerare, senza aprire le labbra in maniera eccessiva.
«In un posto carino, dove si mangia una pizza fenomenale. Va bene la pizza per te?»
Ora sono io a sorridere. «Certo che va bene.»
***
Se qualcuno mi chiedesse dove siamo, risponderei che non lo so. Le mie uniche certezze sono Giuditta e un ristorante nascosto tra i vicoli di un paesino sul mare – che ovviamente non è Cefalù –.
Il locale è quasi vuoto, ma cinque minuti dopo il nostro arrivo qualcun altro inizia a riempirlo. Poche anime sedute a ordinare delle pizze che Giuditta giudica squisite. E io mi fido, ciecamente.
Ho bisogno di passare le mani tra i capelli un paio di volte ed emettere dei suoni gutturali, prima di articolare una frase di senso compiuto.
«Domenica sono passato a casa tua, mi sono sentito in colpa per quello che è successo la sera prima» ammetto.
Giuditta gioca con l'orecchino, umetta le labbra con la lingua, poi dice: «Ero a un congresso, a Palermo. Mi dispiace...».
Abbassa gli occhi, sposta la mano sui capelli e giocherella con l'estremità della coda. «Non volevo tirarti il piatto, l'altra sera» continua.
«Non volevo saltarti addosso... l'altra sera.» Poi mi viene da ridere perché non è corretto ciò che ho detto. «Cioè, io volevo quel contatto. Ne avevo bisogno. È come quando una cosa è proibita perché non è giusto farla, perché è prematura o è vietata, ma uno la fa lo stesso perché trattenersi fa più male. Capisci cosa intendo?»
Ha la pelle d'oca, non so se per il freddo o per le parole, le mie.
«Capisco. Soltanto... mi sfugge una cosa, perché?» Nel parlare muove le labbra color corallo, sembrano dipinte con gli acquerelli. Morbide, invitanti.
«Perché c'è una differenza sostanziale tra desiderare qualcosa e avere bisogno di quella stessa cosa.»
Arriva il cameriere. Io ordino una Caprese, Giuditta una Margherita.
«Perché sei tornato?» continua con una freddezza nel tono che mi destabilizza.
«Per capire se il mio è un desiderio o un bisogno.»
«Che cosa hai capito?»
Eccola qui la mia piccola, precipitosa Giù.
«Poco. Tu cos'hai capito?»
«Io non ho bisogno di capire. Non ho mai smesso di amarti. È la mia vita a essere cambiata, però.»
«Con questo che vuoi dire?» Mi metto sulla difensiva che, a essere sincero, è la cosa che mi viene meglio.
«Voglio dire che non sono la persona di prima. Che in questo anno sono successe tante cose che hanno fatto di me una persona diversa. Ora bisogna capire se l'amore, quello di prima, è compatibile con la persona che sono adesso. E credo che la stessa cosa valga per te.»
Arrivano le bevande, una birra a testa. La beviamo, non prima di un cin in cui mi è inevitabile pronunciare: «A ciò che siamo ora e all'amore che era allora».
«Raccontami chi sei diventato. Cosa ti ha fatto tornare sui tuoi passi? Perché, francamente, questa tua nuova predisposizione mi spaventa» aggiunge poi.
Adesso mi sembra cambiata tanto. Nei gesti controllati, nel tono trattenuto. Giù non era così prima, la Giuditta che conosco io se ne sarebbe fregata dei perché.
«Non alzeremo la voce, proveremo a contenere la rabbia, saremo onesti e leali anche se dovesse farci male. Queste le condizioni. Questo ce lo dobbiamo a vicenda» dico senza la minima esitazione.
Lei annuisce.
«Ti sei innamorato di lei?» mormora piano.
«Se mi fossi innamorato non sarei qui. Però ci ho sperato, sai? Avevo bisogno di credere che esistesse ancora qualcuno su cui investire. Sono stato arrabbiato per tanti mesi, sfiorando la misoginia certe volte.»
«E poi? Continua, dimmi di lei. Chloe, vero?»
«Sì, Chloe. Dopo che mi ha dato quel bacio a tradimento, l'ho presa di punta. Volevo fargliela pagare, ho letto nel suo gesto quasi un affronto.»
Giù aspetta curiosa che continui, ma nel suo sguardo leggo una mescolanza di interesse e fastidio.
«Perché volevi fargliela pagare?»
«Perché mi sentivo in colpa verso di te. Poi, però, quando tu mi hai detto quello che era successo, il senso di colpa è diventato odio nei confronti della categoria femminile. Tu mi avevi tradito, lei mi aveva manipolato.»
«Manipolato per un bacio?» Cerca di sminuire.
«Se io ti avessi raccontato del bacio in questi termini, e tu non mi avessi tradito, come avresti considerato la faccenda?» chiedo con acredine.
«Mi sarei incazzata, ti avrei odiato, forse picchiato ma ti avrei dato il tempo di spiegare. E mi sarei data il tempo di riflettere e sbollire. Sì, è vero, non siamo tutti uguali. Ma tu sei scappato, e non sei più tornato.»
«Ora sono qui.»
«Ora non è un anno fa.» Adesso quella col tono acre e spietato è lei. Le ribolle dentro qualcosa, che non è rabbia, né delusione, ma è sufficiente a infondere in me un certo grado di ansia.
«Ognuno ha bisogno dei suoi tempi. Non recriminare adesso, non ha senso. Lo sai che il Flavio che conosci tu non perdona, non torna indietro e non offre seconde possibilità, né a sé stesso né agli altri. Perché ti ostini a non capire che qualcosa è cambiato? Lentamente, ma è cambiato.»
«Perché questo qualcosa, come lo chiami tu, mi fa paura. Perché quando saprai il resto mi odierai ancora, e forse ti resterà difficile vedermi in termini diversi.»
Spalanco gli occhi mentre lei si porta una mano sulla bocca. Sembra che abbia confessato molto più di quanto avrebbe voluto.
«Quale resto? Cosa devi dirmi di così grave?»
Giuditta si guarda intorno, sospira, sbatte gli occhi.
«Prima finisci tu. L'altro giorno ho parlato io, ora tocca a te.»
«Che vuoi sapere?»
«Di lei, perché ti ha chiamato... che relazione avete avuto...»
«Giù, a che ti serve sapere i particolari?»
«A capire quello che facevi tu, mentre io rincollavo i pezzi.»
Arrivano le pizze, ma lo stomaco sembra essersi ridotto a una fessura. Il profumo è invitante e prima di mangiare, buttiamo giù un altro sorso di birra.
«Voglio molto bene a Chloe. Il nostro rapporto era particolare, lei non è una ragazza convenzionale. Nell'impulsività, certe volte, mi ricordava te, anche se per il resto siete profondamente diverse. Giù, io e lei abbiamo avuto una relazione che per me si è evoluta fino a un certo punto.»
«E lei?»
«Si è innamorata, è stata lei a spronarmi. Aveva capito che c'era qualcosa di strano in me, che ero in continua lotta con me stesso.»
La pizza è deliziosa, a poco a poco mi ritrovo a divorarla come se non mangiassi da settimane.
Giù la gusta lentamente, in un'ordinata alternanza di domande e bocconi. Mi chiede ancora di Chloe, cerca di entrare nello specifico, ponendomi sotto altre forme la stessa domanda: «L'amavi?».
Io mi ritrovo a darle sempre la stessa risposta: «No. Altrimenti non sarei qui».
Arrivati a metà pizza, la richiesta maliziosa: «Se tra noi non funzionasse. Se io fossi troppo diversa da ciò che credevi di trovare, o scoprissi di non provare più niente per me, torneresti da lei?».
La guardo dritto negli occhi mentre dico: «No». La fisso come se questa fosse la domanda in grado di salvarmi dalle fiamme dell'inferno.
No, io non tornerei da Chloe. E comunque andrà, la mia vita continuerà a Milano, senza Chloe. Senza appigli alternativi. Non ho bisogno di aggrapparmi a qualcosa per sopravvivere. Io devo e voglio bastare a me stesso.
Lei ride e la cosa non mi piace affatto, sembra che mi stia prendendo in giro.
«Non ci credi?» domando con un velo di disappunto.
«Concedimi il beneficio del dubbio.»
«Il tempo ti ha resa più stronza.» La frase mi sguscia fuori senza darmi il tempo di valutare le possibili conseguenze.
«Ho i miei buoni motivi per esserlo diventata.»
Sull'ultimo triangolo di pizza pronuncio: «Perché Gabriel? Cosa ti ha offerto di tanto invitante?»
Ride ancora, una smorfia strana, sarcastica, lievemente perversa. «Le sue attenzioni, il suo tempo. Qualcosa di più incostante dell'amore, che però gli somigliava e mi ha confusa. Nel mio attimo di smarrimento tu ti sei sottratto. Non è una giustificazione, lo so. È stata una mia debolezza, ma ho espiato la mia colpa pagando un prezzo ben più alto della perdita dell'amore.» Nel dire questo gli occhi le diventano lucidi, sembrano persino più grandi, e smisuratamente addolorati.
Allungo la mano sulla sua, lei la ritrae appena ma poi si ferma e lascia che il mio tocco la consoli.
«Io non volevo ferirti.» Le trema la voce e copre la bocca con la mano libera, guardando in alto, in basso, ovunque intorno a lei.
«Giù, è passato. Non mi interessa più quello che è stato con lui. Posso chiederti solo una cosa?»
Lei annuisce senza spostare la mano dalla bocca.
«Dopo... dopo che sono andato via, siete stati insieme?»
«Che cambierebbe?»
«Rispondimi.»
Temo il suo sì.
«No.»
Il cuore, troppo pesante, si alleggerisce.
«L'ho rivisto una volta per dirgli di non cercarmi più. Perché dopo che sei andato via, lui continuava a starmi addosso. Se non lo ricordassi, te lo ripeto ancora: io e Gabriel non siamo stati a letto insieme. Questo perché tu lo sappia. Non è un'attenuante, lo so, ma per me fa la differenza.»
«Me lo ricordo, anche se poi è stato il gesto in sé a distruggermi, il fatto di sapere che tu abbia smesso, anche solo un attimo, di appartenere a me, mi ha mandato fuori di testa. E non sto qui a spiegarti perché. Dovresti saperlo, giusto?»
Ordiniamo un tiramisù, quando siamo davanti alla coppetta strabordante di mascarpone e cacao, Giuditta inspira profondamente, chiude gli occhi, pronuncia: «Io non so come dirtelo...».
«Cosa non sai dirmi? Che ci può essere di più grave rispetto a tutto quello che è successo? Dimmelo e basta.»
«Era maggio,» mormora piano mentre porta alla bocca il cucchiaino con il dolce, «ero in laboratorio con Michele Lodovici...»
La sua estenuante lentezza nel parlare mi allarma in maniera esagerata.
«Ho perso il mio bambino. Il nostro bambino.»
Blackout.
Il cucchiaino rimane affogato nella crema, le mani allentano la presa sull'acciaio, nel petto un crepitio simile alla legna quando si accende un fuoco. Temo di non aver capito bene.
«Che cosa stai dicendo?» Il mio è un sussurro lieve e contenuto.
«Ero incinta. Di dodici settimane, all'incirca. Ho avuto un aborto spontaneo.»
Quando alza lo sguardo e i nostri occhi si intercettano, restano immobili a scambiarsi il dolore. I suoi sono grandi, lucidi e smarriti. I miei, oh, i miei non lo so. Vorrei cavarmeli per non vedere i suoi.
«Perché non me lo hai detto?» sputo freddo, e distante, e arrabbiato. Non si può non essere arrabbiati con sé stessi, con la natura, col mondo e con la donna che ti ha nascosto la verità.
Giuditta allenta un sorriso intriso di sarcasmo, la bocca indefinita nei contorni ora che la pelle si è arrossata. «Che cosa ti avrei potuto dire, eh, Flavio? Che avevo perso un bambino e magari farti pena così saresti tornato. Saresti tornato dalla tua ex fidanzata stronza che ti ha tradito e ha perso un bambino, eh? Io non ti volevo in quel modo. Io non ti rivolevo per il senso di colpa o per la pena. Io ti volevo per amore.»
«Quel bambino era anche mio!» Il tono mi si alza un po', la mano aperta sbatte sul tavolo. Qualche cliente si gira dalla nostra parte.
«Quel bambino era dentro di me, non dentro di te. L'hanno strappato dal mio ventre, non dal tuo. Io... io ho dovuto riattaccare pezzo dopo pezzo tutto. Ho dovuto lottare contro il senso di colpa per te e per quel bambino. Io ho dovuto superare tutto, da sola, mentre tu eri a vivere la tua stupida vita a Londra, con la tua Chloe, il tuo team e i tuoi successi. E ora tu vieni a dire a me che avevi il diritto di sapere? Sapere cosa, eh?»
Ora sono certo che tutti ci stiano guardando. Che anche se la voce non ha gridato in modo eclatante, il cuore ha fatto lo stesso baccano di un esercito in marcia.
Sbatto il tovagliolo sul tavolo. «Scusami.» Mi alzo e vado alla toilette.
Non c'è nessuno dentro e non mi importa di passare per lo svitato che non sono mai stato; tiro un calcio, poi un altro e un altro ancora. Sento tremare qualcosa, non so se la parete o quello che ho nel petto. Sfinito abbandono il capo sul freddo muro, sussulto un po' prima di piangere, poi mi lascio andare.
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