A CHE GIOCO VUOI GIOCARE?
FLAVIO
Alzo la mano per attirare l'attenzione della cameriera. Sono al secondo cocktail, brillo al punto giusto, nella piazzetta di Cefalù, alla disperata ricerca di Giuditta.
«Può portarmi un Gin Tonic?»
Credo di aver bisogno di una cospicua quantità di alcol per trascorrere la notte nella vana speranza di trovarla da qualche parte.
Stamattina, in preda a un raptus ingovernabile, ho prenotato un volo diretto a Palermo che, tra l'altro, mi è costato un occhio della testa. Ho buttato alla rinfusa qualche cambio nel bagaglio a mano, la mia permanenza qui terminerà domani. Lunedì ho il lavoro, a quello non posso rinunciare. Ho chiamato mia madre, sempre stamattina, annullando il pranzo che le avevo promesso. Al telefono, però, ha risposto Andrea, mio fratello, sottoponendomi a un terzo grado al quale non ero preparato.
Alla fine, gli ho raccontato tutto.
«Questa è la cosa migliore che tu abbia fatto in quarant'anni di vita» mi ha detto, mentre ero davanti al computer alla disperata ricerca di un servizio di noleggio auto a Palermo.
Gli ho promesso di tenerlo aggiornato sulle evoluzioni del caso, la mia speranza, più che altro, è che Giuditta mi dia modo di parlarle, a patto che io riesca a trovarla, ovviamente.
«Grazie» pronuncio alla zelante cameriera che posa sul tavolino il Gin Tonic e lo scontrino.
Sono atterrato in Sicilia che erano le otto e trenta, ho ricevuto conferma per il noleggio dell'auto mentre ero in fila al gate all'aeroporto di Linate. Ho pregato il tipo di aspettare il mio arrivo, e quando sono andato a ritirarla, c'era ad aspettarmi un tunisino a cui ho lasciato una lauta mancia per la pazienza.
Poi mi sono fiondato sulle strade di Palermo che pullulavano di auto più o meno come a Milano, con la sola differenza che, a Milano, se giri la testa da una parte non puoi vedere il mare.
Alle undici ero davanti casa di Giuditta.
Lei non c'era.
Maledizione, lei non c'era!
Non era neppure sul lungomare, né tra le viuzze del centro storico. E non è neppure qui, in piazzetta.
Mi stai punendo, Giù?
Santo cielo, vorrei poterglielo chiedere. Gaia, dopo la mia telefonata esplicativa sulla settimana trascorsa qui − e sulle numerose litigate che si sono alternate ai momenti di transitorio armistizio −, si è ostinata a non volermi aiutare.
«Te la devi cavare da solo, Flavio! Giuditta se l'è cavata da sola per un intero anno. Non credo che morirai» mi ha detto con un tono fastidiosamente acido.
La piazzetta brulica di gente come tante formiche impazzite, il sottofondo acustico è un brusio di chiacchiere e risate. Persone che bevono, qualche bambino che scorrazza tra i tavoli. Ragazze avvolte in lunghi abiti da gitana, altre costrette in vestitini che lasciano scoperti centimetri di pelle abbronzata e profumata con qualche costosa crema cosmetica. I camerieri si fanno spazio tra le sedie di metallo, sciorinando liste di cocktail dai nomi impronunciabili.
«Scusi, ci sono locali notturni qui a Cefalù?» domando quando la cameriera mi passa accanto col suo vassoio gonfio di ordinazioni destinate a qualche altro tavolo. La ragazza ammicca con un sorrisino malizioso.
«Intendo locali come discoteche, disco pub, lounge bar. Insomma, locali di questo genere» specifico io.
Le labbra sottili della tipa sorridono timidamente, mostrando una dentatura coperta da tante minuscole placchette di metallo. «Ci sono diversi locali, anche sulla spiaggia. Però c'è l'inaugurazione di uno in particolare, stasera. È un disco club, di quelli per tipi di un certo livello.»
Mi faccio indicare il nome del locale e la strada da fare per raggiungerlo. Termino il mio Gin Tonic, e prima di salire sulla mia Ford Fiesta noleggiata, prego di non incontrare qualche pattuglia, o mi ritireranno la patente. Il che sembra quasi una bestemmia per uno come me, scrupolosamente ossequioso delle regole di qualsivoglia natura.
Raggiungo il disco club. Accidenti, se è esclusivo. Ho la sensazione che dentro sia gonfio di ragazzi con il risvoltino dei pantaloni sopra la caviglia e i mocassini di pelle ai piedi; di uomini con i primi tre bottoni della camicia sbottonata, con i loro petti glabri e lucidi in bellavista; di donne seducenti, avvolte in abiti dal gusto eccentrico e alla moda, in equilibrio sopra sandali dal tacco vertiginoso.
Diciamo che le mie previsioni in merito non si discostano molto dalla realtà. Il mio abbigliamento casual di certo si distingue dalla massa che, in alcuni casi, sembra omologata, alla stregua di ricconi che non sanno come spendere i propri soldi. Il centro della sala accoglie già qualche ballerino improvvisato; dalle casse si diffonde musica anni Ottanta. Luci basse e aranciate sbattono sopra il top del bancone all'angolo della sala, mentre un paio di barman si dilettano in esperimenti acrobatici con le bottiglie di liquore. Attraverso la pista da ballo, attirando l'attenzione di qualche ragazza. Resto impassibile, senza scambiare sguardi che potrebbero essere fraintesi come banali tentativi di adescamento.
Raggiungo il piano superiore. Sala Vip, c'è scritto sopra una piccola insegna. Ho dei seri dubbi circa il fatto che Giuditta possa trovarsi in una sala vip. Tuttavia, questo è l'ultimo punto del locale nel quale io possa sperare di trovarla.
Mi guardo intorno, controllando con minuzia ogni singolo divanetto della sala. Di tanto in tanto il mio olfatto viene solleticato da pungenti fragranze femminili.
Prendo posto sullo sgabello del bancone, il palmo della mia mano scivola sopra lo splendente materiale di cui è ricoperto.
«Un prosecco» ordino al ragazzo vestito di tutto punto dietro alla consolle.
Estrae una bottiglia immersa nel secchiello in acciaio. Le goccioline scivolano sopra la fredda superficie di vetro; una cascata di bollicine si riversano nella flûte di cristallo, terminando con una soffice scia di schiuma bianca. Pago la mia ordinazione e proseguo nella mia certosina ispezione del locale.
La scorgo. Improvvisamente.
La vista di Giuditta è una stilettata sullo sterno.
Accidenti, se è bella!
I capelli sciolti, leggermente ondulati, le ricadono al centro della schiena scoperta, tra le due scapole. Il mio sguardo indugia qualche secondo in più sulle dita che si muovono sotto di essi, giocherellando con la sua chioma. È la mano del biondino. Potrei spezzargli una falange dopo l'altra in questo preciso istante.
Con un balzo scendo dallo sgabello e, in maniera cauta e disinvolta, raggiungo la ringhiera della balconata.
Dinanzi a me il mare. Nero, luccicante per effetto del riverbero proveniente dal locale e dal porto turistico che si staglia in lontananza. Giro su me stesso, posando i fianchi sulla ringhiera, e resto ad aspettare che Giuditta sollevi la testa. Lei poggia le lucide labbra sul bordo di un calice Bach, all'interno del quale galleggia un'invitante ciliegia.
Alza gli occhi, finalmente, e incontra i miei.
Leggo nei suoi un grado di compiacimento estremo. Restiamo incollati a scrutarci, curiosi di capire quale sarà la prossima mossa di entrambi. Giù intinge le dita nel calice, afferra la ciliegia e la porta in bocca. La sua mossa è vergognosamente sleale e maliziosa; mi accende un fuoco nello stomaco.
Giù, sei dannatamente subdola, vorrei dirgli. Il biondino la guarda, il biondino allunga ancora le sue mani sulla mia Giù. E mi fa incazzare. E mi fa incazzare ancora di più lei, che ostenta una calma inappropriata.
A che gioco vuoi giocare, Giù?
Distoglie per un attimo i suoi occhi dai miei, subito dopo incrocio quelli del suo amichetto. Ci studiamo con circospezione e sono certo che lui abbia captato al volo il mio messaggio di sfida.
È il gioco sporco quello che cerchi, Giù?
Lo avrai, tesoro. Eccome se lo avrai.
Scolo il prosecco fino all'ultima goccia e mi allontano in direzione del bancone.
«Un altro» ordino al barman. Mi appoggio con il gomito sulla consolle e volgo lo sguardo verso Giuditta.
Lei gira la testa tutt'intorno, cercandomi con gli occhi. Mi intercetta, un sorrisino sardonico le increspa le labbra, poi la sua attenzione dirotta su un'amica. Giuditta ride. Giuditta muove le labbra immergendosi in qualche conversazione divertente. Mi viene servito il prosecco. Mi attacco alla flûte come fosse un'oasi nel deserto, ingurgitando in un sorso metà del pallido liquido che lo riempie. Afferro la lista dei cocktail, riconosco tra le immagini stampate sulla carta il drink scelto da Giuditta.
«Scusi, può portare un Manhattan alla ragazza seduta a quel tavolo? Quella col vestito rosso» dico al tipo dietro al bancone. «Non voglio che sappia chi è stato ad offrirglielo, però.»
Il barman sgrana gli occhi. «Non amiamo le risse in questo locale.»
«Non ci sarà una rissa.»
«La donna è fidanzata, a quanto sembra. Non voglio rischiare di creare situazioni pericolose.»
«Quello non è il suo fidanzato. Di questo può starne certo. Comunque è un drink, non credo di scatenare una rissa offrendo un drink in completo anonimato.»
Il ragazzo si arrende alla mia richiesta. Prepara al volo il Manhattan e dà ordine al cameriere di servirlo.
Giuditta si oppone alla consegna della bevanda. Posso quasi giurare di sentirla mentre dice al cameriere che quella non è la sua ordinazione. Poi si volta verso di me, capisce. Afferra il calice e beve. Porta alle labbra la ciliegia e mi viene voglia di andare da lei e strappargliela dalla bocca. Credo di desiderarla come mai prima d'ora.
Forse perché mi sembra sfuggente.
Forse perché il rischio di perderla è reale e insopportabile.
Il biondino ha capito tutto. Mi trova con lo sguardo e mi fulmina, ma quegli occhietti stretti e leggermente allungati non sortiscono su di me l'effetto da lui desiderato. Di certo non mi fa paura. Lo vedo che sfiora con le labbra la guancia di Giuditta e lei risponde a quel gesto con un sorriso.
Stronza, penso.
Un fremito di gelosia mi attraversa il corpo e arriva fin sulla punta delle dita. Stringo forte il gambo del bicchiere, talmente forte da farmi bruciare il palmo della mano.
«Se continui così lo spezzerai in due.» Una voce femminile mi raggiunge. Sposto l'attenzione sulla donna che si è seduta al bancone accanto a me. La sua pelle è soda, e le labbra rigonfie sono il chiaro esempio di quanto le donne amino trasfigurare la propria naturale bellezza in qualcosa di volgare e artificioso. Però potrebbe fare al caso mio.
«Mi chiamo Alissa. Piacere.» La sua mano affusolata risplende per effetto degli anelli che le adornano le dita. E dall'accento capisco che non è della zona.
«Piacere mio. Flavio.»
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