11: nastro n.5, 15 Giugno 1997.
L' A R T E
D I
U C C I D E R E
Oggi ho provato, per l'ennesima volta, a contattare mia moglie, per farle sapere che la amo ancora e per chiederle se lei, nonostante tutto, mi ama come ha sempre fatto. Ma non mi ha risposto.. non so se vive ancora nella stessa casa dove abbiamo vissuto così tanti momenti felici assieme ed io continuo a chiamare quel telefono con la speranza che lei sia ancora lì dentro e voglia sentire la mia voce, anche per soli cinque miseri minuti.
Non so se abbia lasciato la città ed è per questo che non ha mai risposto a nessuna delle mie lettere, perché non le ha mai ricevute. Non ho risposta a nessuna di queste domande e non cerco risposte, ma quando prego la sera prima di coricarmi e passare un'altra notte insonne, chiedo sempre a Dio perdono e di poter ricevere notizie da mia moglie.
Certo, magari Dio è furioso con me per quello che ne ho fatto della mia vita e perché quando chiedo perdono non ci credo veramente, perché non credo di aver fatto niente di cui necessito il perdono di Dio, però ecco... capisco perché non mi fa avere nessuna risposta da Rose. Però so che arriverà, ci voglio continuare a sperare. So che un giorno risponderà alla mia telefonata, anche solo per mandarmi all'inferno, ma lo farà e, a quel punto, sarò l'uomo più felice del mondo, perché mi manca così dannatamente tanto..
Scusami Harry, non volevo trasformare questo.. quel che è, in una seduta di terapia, già sono costretto a presentarmi almeno due volte alla settimana dallo psicologo della prigione. Non mi serve una terza seduta settimanale.
Sai, ci ho pensato. Anzi, devo dire che ci ho pensato molto. E ti voglio concedere l'esclusiva, come la chiamate voi. Quello che sto per dirti non lo sa nessuno, era un segreto che avrei voluto portarmi nella tomba.
E lo so che ti starai chiedendo per quale motivo lo sto per raccontare a te, ma non farlo. Non ho un motivo ben specifico, semplicemente ti ho preso in simpatia e, oramai, ti considero un amico e, da quel che ne so, è normale raccontare i propri segreti agli amici più stretti.
Sù, avvicina quel registratore per un secondo, hai bisogno di ascoltarti nuovamente questa cassetta una volta che sarai in condizioni di poterlo fare. Mio caro Harry, tu pensi di non darlo a vedere, ma ti si legge in faccia quanto tu sia sconvolto. Non so se tu lo sia perché ti ho definito mio amico - vorrei aggiungere, unico amico - o perché ho deciso di rivelarti uno dei miei tanti segreti.
Bando alle ciance, oggi siamo qui per discutere dello strano caso di Ian Carter.
Ian è stato la mia prima vittima, colui che mi ha aiutato a scoprire l'arte di uccidere. È grazie ad Ian se ho capito quale fosse la mia vocazione nella vita. Ian Carter è stato la mia primissima vittima e la polizia non l'ha mai collegato al mio caso. La polizia probabilmente non sa nemmeno che è morto, figuriamoci pensare che sia stato ucciso e proprio dal sottoscritto.. che goduria.
Conobbi Ian il ventidue settembre millenovecentottaquattro, ero stato da poco assunto nel più importante ospedale di New Orleans come psichiatra - anche se, per essere pignoli, dovrei dire che ero stato da poco promosso - e stavo eseguendo il mio primo giro di visite della mia carriera medica. Tutto sembrava filare liscio, potevano sembrare visite di routine per chiunque lavorasse in quell'ospedale. Durante i giri di visite mi assicuravo che chiunque avesse ciò di cui aveva bisogno e che tutte le sedute venissero fissate e comunicate.
Nulla di complicato, nulla di difficile.
Però, quando raggiunsi la camera di Ian e i nostri sguardi si incontrarono per la prima volta, non ebbi il coraggio di entrare. Rimasi sul ciglio della porta ad osservarlo, non riuscendo a muovermi. C'era qualcosa dentro di me che mi proibiva di entrare in quella camera, che sapeva di dovermi tenere a distanza di sicurezza.
Sembravo quasi in.. trance. L'infermiera che mi era stata affiancata quella mattina dovette richiamarmi un paio di volte per farmi tornare sul pianeta terra e, con la sua cartella clinica tra le mani, mi forzai di muovere il primo passo e poi il secondo e poi il terzo verso Ian Carter.
Ian aveva venticinque anni. Ricoverato da tre anni. Ed aveva perso il totale interesse nel vivere la vita. Sembrava fosse solo una comparsa nel film della sua vita.
Non aveva il benché minimo interesse verso ciò che accadeva intorno a lui e nel mondo esterno.
Quasi non mi notò quando entrai nella stanza. E posso confermare che non mi ascoltò nemmeno; il suo sguardo era perso, spento, vuoto. Annuiva di tanto in tanto solo per farci sapere che gli funzionava ancora il cervello - nel limite della sanità mentale, ovviamente.
Come avevo già detto in passato, Harry, io odio le persone che hanno smesso di combattere per la propria vita, coloro che si sono date per vinte, che hanno accettato la morte. Dal primo secondo che il mio naso è entrato nella sua stanza, ho odiato Ian Carter. Come poteva una persona così giovane aver perso il totale interesse nel vivere la propria vita? Come poteva un venticinquenne smettere di lottare per sconfiggere la malattia e tornare a vivere respirando a pieni polmoni l'aria fresca? Come poteva non voler provare tutte le gioie che la vita ha da regalarti?
Quel giorno me ne sono tornato a casa da mia moglie, corrugato e pensando a Ian Carter e a quanto cazzo lo odiavo. Ed ho iniziato a sentire dentro di me questa strana e - soprattuto nuova - sensazione che ad oggi - nonostante siano passati tredici anni - ancora non so spiegare.
Avevo il fuoco dentro. Un fuoco così forte e che si alimentava d'odio. D'odio che provavo per Ian. E non sapevo come domarlo. Non sapevo come comportamenti e come sopprimerlo. Era tutto così.. nuovo per me.
Vorrei dirti che quella sera stessa pianificai nei minimi dettagli l'omicidio di Ian Carter, ma direi solo una bugia. Quella sera mia moglie mi disse che saremmo presto diventati genitori, perché era incinta di mio figlio Leonard. Così smisi di pensare ad Ian e all'odio che provavo per lui e quella strana sensazione che mi sentivo proprio nelle viscere. Non ci feci molto caso a quelli che ad oggi vengono chiamati pensieri intrusivi, era come s'avessi spento il cervello.
I giorni successivi cercavo di evitare la stanza numero 3057, quella di Ian. Mi fingevo occupato con altri pazienti, o fingevo chiamate d'emergenza che richiedevano immediatamente la mia attenzione, mi cimentavo in consulti per il resto dei miei colleghi nell'intero ospedale, o guardavo con aria preoccupata il cercapersone e me ne andavo dopo un paio di secondi senza una scusa. Insomma, qualsiasi cosa pur di non visitare Ian.
Eppure, non funzionò. Come medico curante di Ian Carter, ero obbligato ad avere colloqui sporadici con il paziente per discutere della cura, dei suoi stupidi ed inutili sentimenti e - in parole povere - di ciò che gli passava per la testa. Eh, a quelli non potevo certo scampare.
Rammento uno dei nostri incontri come fosse ieri. L'infermiera l'aveva appena accompagnato nel mio studio e lui s'era seduto sulla sedia senza emettere nessun tipo di suono. Io stavo leggendo una rivista medica di attualità, e mi ero concentrato su questo articolo molto interessante sull'iniezione letale che, come converrai, era da poco stata legalizzata come sentenza di morte per i detenuti del braccio.
Lui se ne stava lì, a guardarmi leggere la mia rivista medica preferita, finché non fece una cosa alquanto insolita.. si mise.. a ridere.
Oh, sì, Harry, si mise a ridere ed era insolito specialmente per lui. Così chiusi la mia rivista medica - preoccupandomi di tenermi il segno - e lo guardai negli occhi vuoti. La gente usa questo termine troppo leggermente al giorno d'oggi, basti vedere come l'aveva descritto chi era sopravvissuto a Bundy - un mare di cazzate!- , ma lo sguardo di Ian era veramente vuoto. Un buco nero.
Mi ricordo di aver pensato: perché non lo faccio? Infondo è quel che vuole. Che cambia da morto suicida a morto per opera mia? Non cambia niente, mi dicevo. Non cambia assolutamente niente.
Ian, però, non smetteva di ridere e tutto quel ridere di gusto mi stava facendo venir il mal di testa. Così gli iniettai un sedativo e chiamai qualche tirocinante che lo riportasse alla 3057.
Avrei ben voluto cacciarlo in isolamento con la camicia di forza per il semplice fatto che mi aveva riso in faccia, ma sapevo benissimo che non ero autorizzato a farlo senza una ragionevole motivazione, altrimenti mi sarebbe costata la licenza. Certo, potevo inventarmela una giusta causa, ma non ne valeva la pena, probabilmente gli sarebbe piaciuto sentirsi la camicia di forza addosso.
Quel pomeriggio Ian era il mio ultimo paziente, il mio ultimo colloquio. I tirocinanti si occupavano dei miei giri di visita se mi sapevano occupato in ufficio. Così rimasi solo, seduto alla mia scrivania che improvvisamente mi sembrava troppo grande, in un ufficio che era troppo vuoto, dove i miei pensieri risuonavano troppo forti.
Quel pomeriggio, seduto a quella scrivania troppo grande, nel mio ufficio troppo vuoto, con la testa troppo piena di pensieri, decisi che avrei ucciso Ian Carter. E l'avrei fatto senza lasciare un segno e che avrei agito la sera stessa.
Certo, può sembrare una decisione presa su due piedi, ma quando presi questa decisione, oramai provavo un odio così forte per Ian da fin troppo tempo e - per quantificarti questo tempo così che ti possa sembrare più reale - ormai odiavo Ian Carter da un anno e mezzo ed era giunto il momento di agire.
Aspettai che i miei tirocinanti se ne tornassero a casa, che le infermiere cambiassero turno e preparai la mia pozione magica.
Mi aggiravo per i corridoi come un ladro, con in tasca una siringa con una miscela mortale e il cuore mi martellava nel petto quasi stesse per saltare fuori.
Tenevo la mano in tasca per non dare troppo nell'occhio e mi controllavo le spalle ogni secondo.
Quando arrivai alla 3057 mi guardai attorno, non c'era nessuno.
Mossi un passo, poi due e mi fermai. Dietrofront. Un passo di nuovo in avanti, un altro ancora e stop. Andò avanti così per qualche minuto, sentivo le gocce di sudore imperlarmi la fronte.
Un passo, due, dietrofront. Un passo, due, tre, stop. Vedevo il monitor che segnava i battiti del suo cuore. Il mio cuore, invece, continuava a battere all'impazzata come avessi corso la maratona.
Quando mi decisi finalmente ad entrare nella stanza, per prima cosa spensi il monitor. Non doveva avvisare le infermiere che Ian Carter stava per avere un arresto cardiaco, e se fosse entrato qualcuno avrei usato come scusa quella di star rianimandolo e che non era per niente andato a buon fine. E gli iniettai la pozione magica nel catetere venoso centrale. Mi tremavano le mani. Anzi, mi tremavano e mi sudavano. Sudavo in parti del corpo che non sapevo potessero sudare. E, prima che potessi avere un ripensamento, abbassai lo sguardo e la siringa, ormai, era vuota.
Avevo ucciso Ian Carter e stavo per tornarmene a casa da mia moglie senza battere ciglio. Non me ne pentivo. Avevo ucciso Ian Carter, finalmente.
Sai, Harry, non è facile lavorare con i pazzi, e tantomeno non è facile lavorare con i pazzi se alcuni dei suddetti pazzi li odi da morire, così finisci per ucciderli.
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