Capitolo 4.


Un suono metallico e ripetitivo riempì lo spazio di una lunga, e stretta, camera priva di finestre. Era grande abbastanza da ospitare sei letti a castello, accostati uno di seguito all’altro contro la parete di ferro, e un comodino per ciascuno fornito di lampada. In fondo vi era una mensola in legno di betulla, sulla quale erano stati piegati alcuni vestiti, e al di sotto un baule rettangolare contenente degli indumenti intimi. Del resto, oltre la bassa griglia di ventilazione avvitata in un angolo, era spoglia.
Nel letto più vicino alla mensola spuntò un braccio che andò a tastare sul piccolo comodino, in cerca della fonte di rumore.

La sveglia si spense al primo tentativo, non appena l’indice premette sul tasto in alto.
Spingendo le coperte estive di lato, Taylor si sollevò prudentemente, evitando di urtare con la testa le assi del letto superiore.

Stropicciandosi freneticamente gli occhi, aguzzò la vista nel letto a fianco, sperando vivamente che il suono della sveglia non avesse disturbato gli altri, che ormai iniziava a considerare come la sua nuova famiglia.
Anche se le sembrò strano, le sue pupille riuscirono a registrarle nella mente l’immagine della figura rilassata di Elan, ben visibile nonostante avesse tre strati di lenzuola addossati.
Un sorriso si allargò sulle sue labbra:  in quei due mesi Elan, insieme a Charlie, era stata l’unica a farla sentire a proprio agio, a farla sentire a casa e soprattutto a farla divertire. I due sprizzavano simpatia da tutti i pori.

Alzando lo sguardo, due letti inutilizzati le separavano dai ragazzi.
Le lenzuola stropicciate le fecero supporre che Jeff doveva essere in piedi da ore. Forse poteva attribuire questa sensazione all’idea di leader che si era fatta di lui, ma se avesse dovuto essere sincera non le importava il perché: era al sicuro, questo le bastava.
Jeff era sempre stato di poche parole, ma in ogni caso Taylor poteva stare certa che con lui nelle vicinanze non le sarebbe accaduto niente di male.

Tirando fuori le gambe dal letto, sapeva che le rimaneva da esaminare quello di Andrea e Charlie, il quale, avendo promesso al primo che non gli avrebbe dato noia, prediligeva il posto sopraelevato.

Fra tutti, il solo ad averla resa infelice e non all’altezza delle aspettative per sopravvivere in uno Stato gremito di zombie, era stato proprio Andrea Horwan.
A Taylor si spense il sorriso, incurvando invece la bocca in un’espressione abbattuta, ricordando tutte le volte in cui il ventunenne l’aveva ridicolizzata davanti al gruppo, prendendola in giro in ogni maniera possibile.

Le vennero in mente le battutine che le aveva rifilato la prima volta che aveva cercato di accendere il fuoco tramite i classici bastoncini - « Questo lo chiami sfregare? Se non fosse per le bombole, e quindi i fornelli, che abbiamo in cucina saremmo morti tutti di fame, a quest’ora » - , o su come non fosse veloce nella corsa - « Una lumaca ti batterebbe! » - ; dopotutto una persona che era abituata a marciare per servire i tavoli di una caffetteria, sotto l’irremovibile raccomandazione del datore di lavoro, come avrebbe potuto fare di meglio?
Andrea se la rideva in particolare per come Taylor passasse il tempo: amava leggere, i libri significavano molto per lei. Lui invece la riteneva una cosa da secchioni, da perfetti imbecilli.

Come se non bastasse, verso la fine del mese scorso, aveva cominciato a deridere i suoi gusti culinari, musicali e sportivi – probabilmente aveva finito gli argomenti -.
Aveva insistito per sei giorni sul fatto che lei odiasse i carciofi, che invece lui mangiava senza problemi, e aveva provato spesso a farglieli assaggiare a tradimento, beccandosi le smorfie disgustate e irritate della ragazza.
Le tornò in mente quando, una sera, ne aveva trovato uno sotto al cuscino del letto: l’aveva colta talmente alla sprovvista che aveva fatto un salto ed era andata a sbattere contro il letto sopra al suo. Ovviamente non erano mancate le risate sguaiate del ragazzo.

Se c’era un aggettivo che poteva descrivere in pieno il suo carattere, pensò Taylor levando una volta per tutte lo sguardo nella sua direzione, sarebbe stato antipatico.

Tuttavia, le si gelò il sangue nelle vene: un fascio di luce trapelava dalla porta socchiusa e una sagoma mingherlina stava immobile sullo stipite.
Ecco perché le era sembrato strano riuscire a vedere nel buio. Si parlava di un bunker militare, dopotutto.

Quella, con un cenno della mano, le fece segno di fare silenzio.
Taylor aggrottò le sopracciglia, provando a capire che intenzioni avesse Charlie.

“Da quando si sveglia così presto?” rifletté confusa, abbassando poi gli occhi su ciò che il ragazzino teneva stretto tra le mani.

“E quello cos’è?” pensò agitata, pur riconoscendo che si trattava di un telecomando con un solo pulsante.

Seguendo l’occhiata furbetta del riccio, Taylor scoprì con orrore che Andrea non avrebbe avuto un piacevole risveglio, quella mattina: a pochi centimetri dalla sua testa, un guantone da box era tirato dalla molla che lo teneva fissato al congegno, il quale era attaccato alla parete da delle piccole ventose.

Charlie, sin dal principio, le aveva spiegato che la sua passione era legata a qualsiasi cosa si affacciasse alla robotica. Frequentava il secondo anno di liceo, studiando ogni corso di meccanica esistente, sebbene avesse solo quattordici anni. Si definiva un genio in quel campo, un ragazzo prodigio.
Lei, in passato, lo aveva visto spesso nascondere pezzi di motori di auto, di macchinine radiotelecomandate e computer sotto il letto, ma non ci aveva dato importanza.

« No! » sussurrò seria, muovendo le braccia come un bambino che nega alla madre di dargli le verdure.

Charlie scosse la testa e, testardo,  schiacciò subito il pulsante rosso, pronto a gustarsi la reazione del biondo che dormiva profondamente.
Taylor si portò le mani alla bocca, udendo il rumore sonoro che il guantone provocò sulla sua testa: simile a un tuc.

« Ma che cazzo! » urlò lui in tono rauco, toccandosi la fronte dolente.

Charlie iniziò a ridere a crepapelle, cosa che influenzò Taylor, la quale però si trattenne a stento.

« Tu! » esclamò Andrea voltandosi verso Charlie, una volta aver distinto l’oggetto che gli dondolava sugli occhi.

Con una pernacchia, Charlie saettò via.

« Dove credi di andare? » gridò Andrea, staccando il guantone e tirandolo con forza alla porta che il castano aveva varcato.

Taylor lo vide balzare in un istante sul pavimento, per poi cadere inspiegabilmente a gambe all’aria, rivelando un paio di boxer celesti.

« Il Magrissimo, se ti prendo ti uccido! » minacciò con voce alterata, come se avesse pestato un escremento di un animale, rimettendosi in piedi maldestramente.

Taylor, sbalordita, che si era accovacciata in avanti per scoprire la cosa che lo aveva fatto scivolare, soffocò una risata avvistando una centinaia di minuscole palline sparse sul suo lato di pavimento: biglie.

Andrea, tenendosi per un fianco, le scoccò uno sguardo infiammato prima di correre fuori.

Non riuscì a trattenersi ancora per molto: Taylor scoppiò a ridere. Un evento del genere non sarebbe mai accaduto una seconda volta nella vita, e lei voleva stamparlo bene nella memoria.
“Horwan che cade come un sacco di patate!” pensò, poggiando i palmi delle mani sulla pancia.

Con quel chiasso era impossibile che Elan non si destasse dal sonno: si stiracchiò e guardò Taylor con un occhio chiuso come per dire “che mi sono persa?”.

« Charlie ha costruito un guantone da box a molla, che si aziona con un telecomando. Ti lascio immaginare il resto » spiegò lei, smettendo di ridere.

« Qualcosa mi dice che il bersaglio era Andrea » suggerì Elan, alzandosi dal letto e mostrandosi in un pigiama rosa pastello.

« Indovinato » annuì Taylor, per poi allungarsi sul comodino e afferrare l’elastico per capelli.

Mentre si faceva la solita coda alta, escludendo le ciocche sopra le orecchie per farle ricadere ai lati del viso, Elan l’attese pazientemente abbandonandosi al palo del letto.

« Dai, andiamo a prenderci un caffè » disse quando Taylor finì di stringere il nodo.

« Vai pure, mi cambio e ti raggiungo » rispose lei, cercando una t-shirt bianca pulita sulla mensola.

« Perché ogni volta fai così? » si lagnò Elan.

« Sai, abitudine » si limitò a dire l’altra. Era vero, l’organizzazione era uno dei suoi pregi. Aveva imparato a stare in piedi alle sei e mezza di mattina, così da sbrigare velocemente le faccende di casa, per poi fare colazione e avviarsi al Laint’s Café con tutta la comodità del mondo.

Elan sospirò, probabilmente esasperata, e disse: « Se fossi in te dormirei di più »
Poi, come se fino a quel momento fosse stata su un altro pianeta, esclamò: « Ma che ore sono? ».

Taylor, agguantando gli scarponcini marroni, si chinò verso l’orologio. « Le sette. »

« Quella che deve uccidere Charlie, qui, sono io » fece innervosita la mora, alludendo alla frase di Andrea che aveva udito.

Taylor sorrise, ma si imbronciò subito dopo: « Dove sono i miei leggings verdi? »

« Dici quelli che ho messo a lavare ieri? »

« Cavolo… »

« Metti qualcos’altro. Comunque il verde ti stonava parecchio » ammise Elan, incrociando le braccia al petto.

« Dici? » chiese Taylor incredula. Il suo stile cosa aveva che non andava?

« Sì, fidati di me » concluse lei, accennandole di seguirla.

Uscirono dal dormitorio e entrarono nella porta di sinistra.
Le piastrelle bianche del bagno spiccarono appena Elan accese la luce. Taylor, quando aveva scoperto che il bunker traeva l’energia elettrica dai sei pannelli solari che erano stati impiantati sul tetto, era rimasta davvero contenta. Almeno avevano una preoccupazione in meno, sapendo che il sole non sarebbe stato oscurato dalla pioggia prima di metà settembre. In ogni caso, avevano un mucchio di torce a disposizione.
Taylor si avvicinò a uno dei quattro lavandini di marmo, attaccati alla parete di fronte, e si sciacquò la mani.
Così come la corrente, l’Area Protetta possedeva un pozzo in mezzo agli alberi, peccato che l’acqua non fosse potabile. Per dissetarsi, il gruppo tendeva a raccogliere tutte le bottiglie che trovavano per le città.

D’altro canto, si era sempre chiesta per quale motivo vi fossero solo quattro cubicoli di gabinetti, con altrettante docce, quando invece i letti a castello erano sei.

« Al volo! »

Girandosi, acchiappò per un pelo i leggins neri che Elan le aveva tirato tra la pila di panni asciutti, piegati con cura sopra il mobiletto accanto alla lavatrice. Questa era collocata nell’angolo in fondo e divideva le docce dai bagni. « Ci starai bene, non fare storie »

Taylor, lasciandosi convincere, assentì piano, studiandolo nei minimi dettagli.

Quando ebbe allacciato gli scarponcini, entrò in cucina, nella porta a sinistra del piccolo corridoio.
Per via delle numerose ante e cassettoni, dove loro conservavano le scorte, pareva più un magazzino.
Gli altri erano riuniti attorno al tavolo in alluminio, sul quale si poteva sedere tirando all’esterno le panche movibili.

« Giorno! » disse Jeff, porgendole gentilmente una tazza calda di caffè.

Taylor la brandì per il manico, ringraziandolo sentitamente.

Ricordandosi della scenata di prima, cercò Charlie con lo sguardo e non fu per lei una novità notare un bitorzolo sul suo cuoio capelluto: Andrea aveva avuto la meglio.
Si pentì all’istante di aver solo pensato al suo nome, perché lui, vedendola, le si avvicinò con andatura spavalda.

« Sei pronta a perdere, Miss Horse? » disse, pronunciando le ultime parole con tono provocatorio.

“La sfida… oddio, ora ricomincia con quello stupido soprannome” pensò, mantenendo il contatto visivo.

Miss Horse derivava dalla sua pettinatura che, nonostante fosse una semplice coda alta, secondo Andrea somigliava a quella di un cavallo.
Aveva smesso di chiamarla in quella maniera da tempo, da quando aveva capito che a lei non desse effettivamente fastidio, sebbene le prime volte lei lo avesse pregato di smettere perché non era divertente. Evidentemente si era illusa.
O lo stava facendo solo per farla innervosire?

« Nei tuoi sogni! » rispose sicura, sorseggiando il caffè e dandogli le spalle.

Mossa astuta la sua, così imprevedibile che Andrea rimase a guardarla di stucco.

« Vi ricordo che io faccio da giudice, eh! » precisò Charlie, per poi portarsi una manciata di biscotti in bocca. La frase fu seguita da un “sì lo sappiamo” generale.

Udendo successivamente Andrea borbottare qualcosa sul mais, Taylor si voltò.

« Possiamo sempre farci i pop corn! » esclamò Charlie a bocca piena, sputacchiando qualche briciola.

« Sì, e con quale olio? » chiese il biondo brusco, rimettendo il mais nella credenza.

« Dacci un taglio, lo prenderemo io e Charlie domani » lo zittì Elan, posando la sua tazza nel lavandino.

« No, ci penso io! » disse rapido, scoccando un’occhiata d’intesa a Taylor, che di tutta risposta continuò a bere.

« Dirigetevi a San Bernardino, lì non dovreste trovare molti zombie » suggerì Jeff ai due. « Ci passo varie volte, quando faccio il giro di ricognizione »

« Anche io ci sono stato, grazie papino per l’informazione » rispose Andrea con ironia. « Andiamo » aggiunse riferito a Taylor, avanzando verso la porta.

Lei, inspirando, posò la tazza di caffè e fece per andare al dormitorio con l’intento di prendere lo zaino e il piede di porco.

Ma si bloccò perché un coltello appuntito stava sferzando a tutta velocità dietro Andrea, sfiorando il suo orecchio sinistro e finendo per conficcarsi nel legno del telaio montante.

« Ti avviso, trattamela bene! » gracchiò intimidatoria Elan, la mano sospesa a mezz’aria per il lancio.

Taylor sapeva che era una tradizione della sua famiglia saperli maneggiare. Le sorrise con fare rincuorante, mentre Andrea uscì facendo finta di nulla.

« Buona fortuna! E che vinca il migliore! » ululò Charlie eccitato, abbassando il tono della voce come per imitare un presentatore di giochi televisivi.

« Charlie! » lo ammonì Elan.

« Che c’è? Mi calavo nella parte! » sentì rispondere da lontano Taylor, che si avvicinò ai piedi del letto dove vi era afflosciato il suo zaino nero.

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