Capitolo 3.

A circa trecento cinquanta chilometri si scorgevano le casupole e le villette con giardino e piscina di Palm Springs.
Non era proprio una città, sembrava quasi un paesino per le sue modeste dimensioni. A differenza di Fresno era più luminosa, questo perché i pochi palazzi erano stati collocati in modo che i raggi solari illuminassero anche la più stretta delle stradine interne.
Era un luogo decisamente adatto per fare una pausa: delizioso per una vacanza.
Purtroppo il virus non aveva risparmiato nemmeno un cittadino, propagandosi nel sistema nervoso e spronando i nuovi infetti a mordere e a nutrirsi di quelli normali.
Come parlando del diavolo, Taylor dovette fare i conti con un’anziana signora grigia che, in preda alla fame, tentava di sbandare la familiare che la ragazza cercava di tenere sulla carreggiata.

« Signora, ma non ha nulla di meglio da fare? » chiese digrignando i denti, sterzando verso sinistra per allontanarla.

Strillando a pieni polmoni, lo zombie iniziò a colpire ripetutamente il finestrino con la fronte schizzata di tante goccioline rosso cremisi.

“E va bene, lo ha voluto lei” pensò Taylor, soffiando sulla ciocca castana che le stava dondolando sulle labbra.

Spinse l’acceleratore, interponendo una grande distanza tra lei e la signora, che correva tutta ingobbita.
Poi girò all’incrocio, prendendo una strada secondaria.
Dallo specchietto retrovisore la vide arrancare sui piedi scalzi e putrefatti.

Un chilometro dopo, la signora non dava segno di cedimento, ma era piuttosto lontana.
La destinazione di Taylor non era affatto irraggiungibile, così uscì dall’ultimo quartiere e rallentò per la strada, costeggiata a destra da querce e abeti verdi limitati da un’alta rete elettrica.

Continuò per essa ancora qualche metro, ma un improvviso schianto la fece sbandare.
Taylor, il cuore in gola per la spiacevole sorpresa, notò i denti marci dello zombie di cui si era liberata schioccare ferocemente contro il finestrino.
Riprendendo il controllo del veicolo a fatica, accelerò, questa volta zigzagando con l’intento di confondere l’essere.

Tuttavia, la curva che doveva fare per andare sulla viuzza sterrata era proprio davanti ai suoi occhi e Taylor non poteva permettere che la signora la seguisse fin lì.

“Okay” pensò un po’ esitante, mettendosi comoda sul sedile.

Smise di zigzagare, frenando di botto e udendo nello stesso istante il rumore di un qualcosa di pesante collassare sul bagagliaio.
Poi schiacciò sull’acceleratore e avanzò lungo la stradina di terra, cercando di ignorare con ogni fibra del suo corpo la figura inerme dell’anziana che aveva messo a tacere per sempre.

Scese dalla macchina una volta raggiunto il cancello di ferro, dal quale si poteva accedere in quel bosco privato.
Lo aprì con la chiave che aveva nel giubbotto, per poi tornare in auto ed entrare.
Prima di proseguire, richiuse il cancello con un secco clang e andò ad alzare la leva di un generatore fissato su un palo di legno, conficcato nel terreno alla sponda sinistra.
Dal breve e flebile ronzio che si levò in aria, Taylor capì che la rete elettrica si era attivata: avrebbe tenuto alla larga gli zombie.

Mentre risaliva in macchina, ricordò la frase che Jeff Moul le aveva riferito in quel momento esatto, quando l’aveva portata in quel luogo:« Questa è l’Area Protetta, potrai alloggiare qui finché vorrai ».
Lui, l’uomo che l’aveva tratta in salvo da morte certa, era un soldato di Bakersfield, proclamato tale dopo aver prestato un anno e mezzo di servizio.
Jeff era un trentenne di media statura e i muscoli, acquisiti con il duro allenamento, non gli mancavano di certo. Aveva i capelli neri a spazzola e un corto strato di barba che partiva dalle basette e terminava sul mento. Gli occhi – Taylor nel tragitto aveva supposto che evidentemente erano stati segnati da un trauma passato, forse una perdita a lui cara – li aveva piccoli e seri.
Le aveva spiegato che il bosco era impiegato per le esercitazioni militari, ma adesso, che non c’era più un militare in circolazione, lui ne faceva le veci.

Annusando l’aria incontaminata, pura e rilassante degli alberi, Taylor superò uno spazio sgombro di questi ultimi che fungeva da parcheggio.
Compiendo un altro bel pezzo di strada, un largo edificio basso, interamente di metallo e avente come unico piano superiore una torretta senza tetto, sulla quale montare la guardia mediante il balconcino liscio rialzato, si manifestò alla sua vista. Era un bunker.
Alla sua destra, sul prato, vi era un falò accerchiato da cinque grossi tronchi levigati a metà. Alla sua sinistra c’erano dei fili per il bucato.

Taylor spense il motore della macchina accanto a un giovane abete, per poi afferrare con il pollice e l’indice la cinghia dello zaino nero.
Senza bussare sul portone in ferro battuto, si addentrò nell’ampia sala del bunker.
Questa era davvero ben allestita: un divano di pelle nero era  posizionato contro il muro tinto di verde scuro, sulla destra; sul soffitto c’era un semplice lampadario dalla montatura bianca; al centro c’era un grande tavolo di legno circolare; nell’angolo nord-ovest una radiolina era posta su un alto mobile quadrato; vi era anche la cartina della California, appiccicata sulla parete al di sopra del divano.
La rampa di scale sulla sinistra portava alla torretta, mentre le altre stanze stavano al di là dell’arcata tonda frontale, dove un minuscolo corridoio separava tre porte.
La sola che, Taylor aveva imparato, non doveva aprire era quella vicino al divano, la quale stanza un tempo apparteneva al sergente. Per quanto ne sapeva lei solo Jeff ne aveva il diritto – e sicuramente le chiavi -.

Tirando un respiro di sollievo, dato che lì era davvero al sicuro, Taylor si avvicinò al tavolo e ci mise lo zaino.
La sua mente viaggiò ancora una volta nei meandri del suo passato, facendole rivivere il momento in cui Jeff l’aveva presentata agli altri sopravvissuti che, come lei, aveva scortato nell’Area Protetta.

La prima che le era andata incontro era stata una afro-americana, la quale statura raggiungeva a malapena il naso augusteo di Jeff, che invece Taylor sovrastava di cinque o sei centimetri.

« Finalmente una ragazza! Guarda, non puoi immaginare la mia felicità! » le aveva detto con l’umore alle stelle.

Aveva mossi capelli scuri corti fin sulle spalle, lasciati sciolti, grandi occhi neri e un naso a patata. Quel giorno indossava un top giallo ocra corto a spalle coperte, con la scollatura a barca, e uno shorts jeans. Lo sguardo radioso di Taylor era guizzato sui tre pugnali affilati che la ragazza portava alla cinta degli shorts, deducendo che sapeva certamente combattere, per poi finire sugli stivaletti neri che calzava.
Doveva riconoscere che aveva un fisico molto più formoso del suo per essere una sua coetanea, ma Taylor ormai se ne era fatta una ragione.

« Comunque sono Elan Karut e vengo da Sacramento » aveva aggiunto Elan, scuotendole la mano.

« Io sono Andrea Horwan, di Santa Maria » aveva saltato su il ventunenne più attraente che Taylor avesse mai visto in tutta la sua vita.

Era alto, snello e ben equilibrato di muscoli, rispetto a Jeff che parevano esagerati, i quali si vedevano anche se nascosti dal tessuto della semplice canotta bianca che indossava. Le sue gambe erano invece avvolte da un pantalone da spiaggia color indaco, i quali lacci legati in un fiocco gli accentuavano la vita.
Ma il suo fisico era nulla in confronto al viso: aveva i capelli leggermente lisci di un biondo scuro, rasati dietro e ai lati ma lunghi sopra e sulla fronte; occhi invadenti dalle iridi nocciola chiaro e un naso assolutamente diritto.

Tuttavia, non aveva fatto un cenno per salutarla, dato che le sue mani erano già impegnate a trattenere per il collo il superstite più piccolo del gruppo.

« E questo idiota è Il Magrissimo e viene da San Francisco! » aveva enfatizzato divertito, scombussolando i cespugliosi capelli castani del minuto quattordicenne che tentava in tutti i modi di liberarsi dalla sua stretta. Taylor, ricordando quella scena, sorrise da un lato della bocca.

« Non è vero! Io sono Terminator! » aveva ribattuto lui in tono spazientito.

Taylor lo aveva trovato come il più buffo dei quattro. Era alto un metro e mezzo e la sua magra corporatura spiegava il soprannome che Andrea gli aveva assegnato.
Tuttavia, i suoi vestiti lo avevano fatto apparire come un pesce fuor d’acqua: aveva una polo bianca a strisce arancioni; un giacchetto blu con il cappuccio; pantaloni grigi circondati da un marsupio verde smeraldo e ai piedi portava un paio di scarpe da ginnastica a strappo.

Sotto lo sguardo incredulo di Taylor, il ragazzino aveva cessato di divincolarsi e schiarendosi la voce si era corretto timidamente:« Okay… non è vero che sono Terminator. Mi chiamo Charlie Phinar Quaggen, ma solo Charlie andrà bene »

« Ciao Charlie! » aveva sorriso Taylor, mettendo in risalto tutta la gratificazione che il suo cuore aveva sentito nell’essere stata accolta tra di loro.

« Bene, ragazzi… ora se non vi dispiace vorrei illustrare a Taylor le -» aveva iniziato a dire Jeff autoritario, prima di essere interrotto da Andrea.

« Non sentite anche voi questa puzza? » aveva chiesto, inarcando le sopracciglia in un’espressione nauseata.

« Andrea...» aveva avvertito Elan minacciosa.

Taylor si ricordò di aver capito solo un istante dopo a cosa il biondo avesse fatto riferimento: era stata lei la fonte di quell’odore e la sé del passato se ne era completamente scordata.

« Sì, non senti anche te questo tanfo? » aveva continuato lui, non curandosi dello sguardo gelido che Jeff gli aveva serbato. « Oh ma aspetta, è lei! »

Taylor era arrossita in pieno imbarazzo, abbassando il capo. A quel punto si era rimangiata quello che aveva pensato sul suo conto, pensando che fosse tutt’altro che carino.

« Andrea! Ma ti pare una cosa da dire, questa? » era esplosa Elan in sua difesa. « È stata una settimana rinchiusa in una cantina, già è tanto se è viva! »

Taylor, rialzando il capo, aveva percepito una lacrima solcarle la guancia e ricordandosi che nel tragitto che aveva fatto con Jeff, dal suo appartamento fino all’Area Protetta, lui avesse accennato loro con il walkie-talkie qualcosa sulle sue condizioni passate, si sentì un po’ offesa.
In ogni caso, nessuno prima d’ora aveva mai preso le sue difese, se l’era sempre cavata da sola.

« Forza, avanti! Vieni che ti faccio vedere dove sono le docce » aveva detto cortesemente Elan, prendendola per mano e accompagnandola verso il bagno, sbattendo di proposito contro la spalla di Andrea al passaggio.

« Taylor è tornata! »
Una voce acuta la risvegliò da quei pensieri. Taylor vide Elan uscire dall’arcata e venirla ad abbracciare.

« Ehi » fece lei di rimando, ricambiando con affetto l’abbraccio e ignorando i pugnali che aveva nella cinta degli shorts jeans.

« Sei stata fuori per più di quattro ore! » commentò Charlie, comparendo anche lui dall’arcata tonda per avvicinarsi a loro.

« Fresno non è dietro l’angolo » espose Taylor ragionevole, staccandosi dall’abbraccio per guardarlo.

« Mio dio, ma sei ferita! » esclamò Elan preoccupata, spalancando gli occhi nel vedere la striscia di sangue fresco sopra il suo sopracciglio.

« Non è nulla, davvero » disse Taylor in tono rassicurante, scrollando le spalle.

« Bisogna medicarti, o gli zombie-»

« Verranno attratti dall’odore del sangue, lo so » completò Taylor, roteando gli occhi al soffitto.

Mentre Elan spariva per cercare la valigetta di pronto soccorso, Taylor vide un paio di anfibi neri solcare l’arcata, seguiti dalla divisa militare di Jeff.

« Vennins, quando spacchi il vetro di un’auto devi sollevare il braccio e tenere il gomito in questo modo » fece severo, mostrandole il gesto.

Taylor annuì mentre adocchiò un biondo fiondarsi sullo zaino, senza rivolgerle nemmeno uno sguardo.

« E devi anche stare a debita distanza, o ti farai seriamente male » terminò, accennandole poi una smorfia compiaciuta, sicuramente per come la castana stava apprendendo le tecniche di sopravvivenza da lui insegnate.

« D’accordo » disse lei, tamburellando i polpastrelli delle dita sul tavolo, sul quale Andrea stava collocando le scorte che lei aveva procurato.

Senza che nemmeno se ne rendesse conto, pochi minuti dopo si ritrovò un batuffolo di cotone tamponarle il lieve taglio che aveva sulla tempia destra, e un leggero bruciore là dove la pelle veniva a contatto con l’acqua ossigenata.

« Grazie » mormorò a Elan che emise un mugolio da assenso.

« Mais… biscotti… giornali… un barattolo di lenticchie e di ceci…» brontolò scioccato Andrea, volgendole finalmente lo sguardo, « Fai sul serio? »

« Questo ho trovato » ribatté scrollando le spalle, la voce acida.

« In tutto l’appartamento? Sul serio? » ridacchiò lui stupito.

« Sai, non ho avuto molto tempo perché avevo il loro fiato sul collo » disse Taylor, seccata dal suo atteggiamento e scansandosi da Elan.

« Quanti ce ne erano? » domandò Charlie curioso.

« Nel quartiere dove sono passata io pochi. Ma due di quelli mi avevano intrappolata in una stanza e non avevo altre vie di uscita se non la finestra »

« E come hai fatto a sfuggirgli senza ucciderli? » proseguì Charlie, appoggiandosi sul tavolo.

« Be’, sono saltata di balcone in balcone rendendomi poi conto che -»

« Sì, ci parlerai delle tue imprese eroiche un'altra volta. Che poi non sono così strabilianti come credi » le parlò sopra Andrea. « Io, venerdì scorso, sono stato inseguito da sei zombie. Li ho seminati salendo sul tetto del palazzo, per poi saltare su quelli dopo, il che è relativamente alto rispetto a un insulso balcone, fino a raggiungere la mia fiat ».

« E come sei sceso, sentiamo! » esclamò Taylor, scansando per la seconda volta la mano di Elan, la quale sbuffò e fece per riporre la valigetta al suo posto.

« Con la scaletta antincendio, ovvio »

« Oh, quindi la corda che mi sono creata con le tende e le lenzuola, per calarmi dalla finestra, la trovi troppo banale per i tuoi gusti? » cantilenò lei, guardando il suo viso perfetto rabbuiarsi.

« Ah! Ti ha steso! » urlò il castano, puntandogli un dito contro.

« Ok, ora basta. Possiamo risolvere questa discussione -» intervenne Jeff, che fino a poco prima stava studiando l’etichetta del barattolo di lenticchie.

« Con una sfida! » esclamò Andrea tutto impettito, mettendosi di fronte alla ragazza e passandosi una mano tra la chioma bionda.

« Una sfida? » domandò lei stupefatta, incrociando le braccia al petto.

« Sì! Io contro te a chi arraffa più cose! » rispose Andrea determinato. « E ti conviene scattare, sai che con me non si scherza »

« Va bene, se è questo che vuoi » disse Taylor esausta. Magari, se lo avesse battuto, avrebbe avuto qualcosa da rinfacciargli, così da fargli abbassare la cresta.

« Io faccio da giudice! » disse Charlie, alzando una mano in aria e indicandosi con l’altra.

« Io veramente volevo dire di risolvere la questione pacificamente » disse Jeff indispettito. « A ogni modo, se proprio volete sfidarvi, vi toccherà domani. Vennins è appena tornata e non è una buona idea fare provviste ora che il sole sta per calare »

Andrea, staccando gli occhi carichi di presunzione da quelli calmi di Taylor, assentì per poi uscire dal bunker.

Calò il silenzio. Qualche istante dopo Elan, poggiando una mano sull’avambraccio di Taylor, lo ruppe chiedendole di andarsi a cambiare cosicché avrebbe potuto lavare i panni nella lavatrice. Lei, togliendo lo sguardo dalla porta che il ragazzo aveva chiuso, acconsentì piano.

Angolo Autrice:

Un esperimento andato tutt’altro che a buon fine, decisioni sbagliate prese dal presidente, missioni di salvataggio fallimentari… ecco come la California è stata decimata, sopraffatta da cittadini incontrollabili, trasformati in orribili morti viventi.

Avete dunque visto il passato di Taylor, opinioni su questo punto?
Ma soprattutto, avete conosciuto gli altri sopravvissuti, i quali, nel bene o nel male, resteranno al fianco della nostra ventenne…

Fin ora qual è quello che vi piace di più?
E quello che odiate? (e perché proprio Andrea? XD)

Come per il primo capitolo, ringrazio Alyssa_Dream  per averli revisionati e letti in anteprima❤️

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