Capitolo 1.
16 agosto 2015.
Un tostapane poteva essere necessario? No, a meno che non si dovesse riscaldare del pane fresco. Non avendone di alcun tipo a portata di mano, l'oggetto di ferro era solo un peso in più, indiscutibilmente scomodo per chi viaggiava con un capiente, ma ridotto, zaino delle scuole superiori.
Un pacco sigillato di biscotti al latte, invece? Quello andava bene.
La ragazza spostò da un lato il sacchetto di mais per depositare sul fondo i biscotti, equilibrando in seguito la borraccia termica d'acqua, affinché restasse dritta.
Poi strinse la cordicella dello zaino. Il suo sguardo si soffermò sull'etichetta di carta che, nonostante fosse ingiallita dal trascorrere degli anni, rimaneva appiccicata sul tessuto nero interno. Su questa, una scritta recitava il suo nome: Taylor Vennins.
Sospirò, abbassando il cappuccio dello zaino e agganciandolo alle apposite fibbie di plastica. Mosse il suo inseparabile piede di porco per assicurarsi che il sottile e robusto laccio elasticizzato, cucito da lei stessa al di sopra della tasca inferiore, lo tenesse fermo.
Uscì dalla cucina, invasa da un’aria irrespirabile che ricordava tanto alimenti avariati e putrefatti.
Quel fetido odore, come Taylor stabilì, proveniva senza ombra di dubbio dal frigorifero. A lei, ovviamente, non era minimamente passato per la testa l'idea di aprirlo. Preferiva di gran lunga rimanere all'oscuro, risparmiando in tal modo il suo stomaco da rigurgiti certi.
Mise piede in soggiorno. Non perse tempo a esaminare i vari mobili, alcuni dei quali macchiati di rosso, che si affrettò a controllare i giornali ammucchiati disordinatamente sul tavolo rotondo al centro della stanza.
Taylor non era interessata alle notizie: l’ultima che aveva sentito era stata tremenda e avrebbe dato tutto l’oro del mondo pur di cancellarla dalla sua memoria. Invece li accartocciò, infilandoli uno a uno nello zaino: erano perfetti per accendere il fuoco.
Si portò un dito sotto al mento liscio, rimuginando sul cosa prendere e ripercorrendo con la mente tutte le voci della sua lista immaginaria.
L’accendino! Ecco cosa le mancava.
Richiuse lo zaino e si guardò attorno. Taylor si sarebbe accontentata anche dei semplici fiammiferi.
Ispezionò attentamente una mensola, trovando, tuttavia, solo souvenir e minuscole statuette di animali in porcellana.
Sollevando lo sguardo incontrò degli occhi castani incastonati su un viso magro e tondo, un naso la cui punta era leggermente all’ingiù, se non addirittura aquilino, e dei mossi capelli castani tenuti in una coda alta, a eccezione di due ciocche che dalle grandi orecchie ricadevano accanto alle guance.
Si allontanò dal suo riflesso creato da uno specchio dalla cornice in legno elaborata. In quel preciso istante, Taylor smise di cercare.
Il suo istinto la esortò a prendere lo zaino e a buttarselo sulle spalle, per poi correre verso la doppia finestra che dava al balcone.
Una ventata d’aria trascinò con sé un diverso torpore. Fumo. C’era un incredibile puzza di fumo.
Taylor respirò piano, impedendo a esso di riempire i suoi polmoni.
Quasi non riusciva a credere a ciò che i suoi occhi stavano guardando: incendi, incidenti automobilistici, palazzi andati in fiamme, anneriti e distrutti. Si chiese chi avesse provocato tutto quello.
Taylor nel profondo conosceva la risposta a quella domanda, eppure vedere la propria città, Fresno, ridotta in quelle condizioni le strinse il cuore.
Tuttavia, la sua attenzione era volta a qualcos’altro: tre piani più giù, due figure indistinte stavano entrando dalla porta d’ingresso.
Taylor, preparandosi psicologicamente all’imminente fuga, ritornò dentro in fretta.
Schivò di un centimetro il tavolo e si arrestò sull’uscio.
Appoggiando entrambi i palmi delle mani sulla porta, si avvicinò lentamente all’occhiello e ci guardò attraverso.
All’inizio non vide nulla di pericoloso, tralasciando le chiazze rossastre che dipingevano macabramente le pareti della rampa di scale.
Tuttavia, non passarono nemmeno un paio di secondi che un’ombra si allungò minacciosa sui gradini di marmo giallo opaco.
Taylor boccheggiò, indietreggiando.
Doveva andar via da lì.
Tornò di nuovo sul balcone e, senza pensarci due volte, lo scavalcò, serrando cautamente gli scarponcini marroni sul breve strato di mattone restante e sorreggendosi alla ringhiera.
Taylor, contando fino a tre, si molleggiò, toccando con il fondo schiena la sbarra, e saltò.
Le sue mani si aggrapparono saldamente alla ringhiera del balcone di fronte.
Inspirando si issò su, evitando di urtare il vaso di gelsomino rinsecchito.
La finestra era sbloccata, quindi le fu facile entrare in quest’altra camera.
Era conscia di stare facendo un’effrazione, ma quello era l’ultimo dei suoi pensieri, dato il pericolo incombente.
Si precipitò alla porta, situata dietro un acquario, in cui notò a malincuore teneri pescetti tropicali privi di vita galleggiare sulla superficie dell’acqua, e, con l’intento di aggirare gli inseguitori fisso nella mente, ruotò la maniglia.
Sbatté tempestivamente la porta, girando la chiave nella toppa per chiuderla. Un agghiacciante ruggito premeva all’esterno.
« Merda » imprecò sottovoce.
Era spacciata. Si trovava all’ultimo piano di quell’appartamento e non vi erano vie di scampo alternative.
“Che faccio?” pensò, portandosi una mano sulla fronte.
Si guardò attorno, doveva pur venirle un’idea, presto o tardi.
Rispetto alla camera precedente, questa era ordinata, anche se un alone di sangue incrostato presiedeva sul pavimento vicino al tappeto della sala: Taylor fece una smorfia disgustata, indirizzando lo sguardo altrove.
Alle sue spalle si udì un tonfo, seguito da un altro e un altro ancora: colui che aveva ruggito voleva sfondare la porta.
Taylor si accostò all’acquario, studiando ogni millimetro dello spazio circostante, sperando di azionare le rotelline del suo cervello.
Poi un lampo di genio la colse all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno. Era folle, ma poteva funzionare.
Staccò velocemente le tende della finestra, litigando con gli anelli che stridevano sull’asta.
Dopodiché, gettando un’occhiata alla porta per accertarsi che reggesse ancora, esplorò l’ambiente finché non giunse nella camera da letto matrimoniale.
Tolse le lenzuola e il copri-materasso, annodandoli stretti insieme alle tende, per poi legare una cima della corda che si era appena costruita al termosifone, piantato al muro a un metro di distanza dalla finestra.
Un ringhio irato la congelò sul posto, mentre il rumore successivo le suggerì che l’essere aveva iniziato a graffiare la porta.
Taylor si riprese. Lanciò la fune oltre la ringhiera e, gonfiando il petto, rivestito da una t-shirt bianca e da un leggero giubbotto nero, come per caricarsi, si calò usufruendo delle mani e dei piedi.
Una volta toccato terra, attivò tutti i suoi sensi.
L’insegna spenta alla sua sinistra evidenziava la frase “The happy hotel”, ma lei scosse la testa: in quel momento non c’era nemmeno un motivo per essere felici.
Ruotò su se stessa. Non c’era nessuno nelle vicinanze.
Però un indistinguibile brontolio affamato fece capire alla ragazza che i due soggetti di prima erano ancora nell’appartamento e che non era saggio restare davanti all’ingresso.
Quindi avanzò lungo il marciapiede. Oltrepassò una macchina totalmente esplosa, tanto che le gomme sembravano inesistenti e la carrozzeria era accartocciata. Taylor puntò alla familiare abbandonata a sei metri dalla sua posizione. A vederla pareva in ottima forma.
Sempre tenendo i riflessi pronti, spaccò con una decisa gomitata il vetro, che si ruppe in mille pezzi, e allo stesso tempo girò la testa nella direzione opposta per evitare che i frammenti la colpissero.
Si voltò e tese la mano nella vettura, facendo scattare inevitabilmente l’allarme. Un bip acuto e monotono risuonò nell’aria e Taylor sperò con tutta se stessa che nessun altro lo sentisse.
Alzò la sicura e spalancò lo sportello.
Rapida come una lepre, si sistemò sul sedile con il volante.
“Senza chiavi non vado da nessuna parte, ma conosco un trucchetto” considerò furba, scoperchiando il cruscotto e tirando due fili elettrici a sé.
Si bloccò: il suo sesto senso la stava inducendo ad alzare gli occhi e lei sapeva quanto questo non sbagliasse mai.
Accomodato come un nullafacente su una panchina, a destra nella via di sinistra, un uomo dall’aspetto malandato la stava scrutando.
Taylor, agitandosi, abbassò nuovamente la testa al di sotto del manubrio e tagliò il filo blu e il filo rosso mediante il suo coltellino da formaggio, che portava sempre con sé nella tasca del giubbotto.
Un grido greve la fece agitare ulteriormente, mandandole il battito cardiaco a mille.
L’uomo si era alzato dalla panca e stava ciondolando furtivo verso di lei.
Taylor distinse i dettagli che lo differivano da un comune essere umano, mentre intrecciava abilmente le lamine di rame ottenute: i vestiti erano ridotti a brandelli; le braccia e le gambe, caratterizzate da profondi squarci e ferite, grondavano di sangue scuro, così come scaturiva dalla bocca, le quali labbra sembravano incollate al viso, mostrando i terribili denti; la pelle era raggrinzita, marcia e soprattutto… grigia.
Non era affatto un essere umano, ma Taylor immaginò lo fosse stato, un tempo.
Una cosa del genere era impossibile da credere, assurda. Tuttavia era reale: quell’essere era un “morto vivente” o, semplicemente, “zombie”.
Un rumore rassicurante si insinuò nelle sue orecchie e la ridestò dai suoi pensieri: il motore era partito.
Taylor, festeggiando della sua grande riuscita, schiacciò il freno a mano, ingranò la marcia e pestò con foga l’acceleratore.
Quando lei sterzò si rese conto che lo zombie l’aveva quasi raggiunta, ma lo ignorò e si inoltrò a tutto gas nella strada.
Angolo autrice:
Cosa è successo?
Tutto così in fretta, poi!
Riprendiamo un attimo il fiato; scopriremo presto la causa che ha comportato le disastrose perdite a Fresno, e all’intera California.
Ma ora vi pongo una domanda: che ne pensate della nostra protagonista, Taylor Vennins?
È in gamba la ragazza!
(Ringrazio Alyssa_Dream per aver letto e revisionato in anteprima il capitolo. ❤️)
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