XVIII - Ballata per la mia Piccola Iena

Video: Afterhours

«Ma non si vede nulla, Lele!»

«Ma come "non si vede nulla"? Guarda che scollatura. È... è indecente, ecco.»

«Indecente? Oddio sembri la mamma. Ma non capisci proprio niente! È una camicetta all'ultimo grido. È alla moda, no? Guarda... Guarda come mi sta addosso. Stasera tutti i ragazzi vorranno invitarmi a ballare.»

«Ah senz'altro, non potranno farne a meno.»

«Smettila! Sei un maschilista retrogrado, te ne rendi conto? Gli anni cinquanta sono passati da un pezzo»

«No. Sono solo...»

«Lele, io affondo...»

«Affondi? Ma che dici, Erica?»

«L'acqua. Lambisce le mie gambe e mi trascina verso il basso. Il fondo è così quieto, l'acqua è così avvolgente e fredda. Rassicurante. Diluisce le pene. L'acqua mi aiuta a dimenticare, assopisce i ricordi, porta via il dolore. Lasciami, Lele.»

«Non dire così, Erica. Afferra la mia mano...»

«Ti prego Lele, io sto sparendo. Vado giù, Lele... Lasciami andare. No, non lasciarmi. Aiutami, Lele! No, non farlo.»

«No, Erica, non capisco! Prendi la mia mano, Erica!»

«Io sto bene ora. Non puoi fare più niente. Io vado giù, Lele! Sparisco... Addio...»

«Erica!»

I due avventori alla cassa del bar lo stavano osservando perplessi. Lele li guardò a sua volta e poi accennò un sorriso imbarazzato, quindi sollevò il giornale posato di fronte a lui e fece finta di continuare a leggere. Doveva essersi assopito mentre rifletteva sulle pagine della politica nazionale. La notte precedente aveva dormito poco e le questioni da pollaio italiote da sempre sortivano in lui l'effetto di un sonnifero. Solo che addormentarsi al bar era stato davvero sconveniente. Molto sconveniente.

Guardò fuori dal bar. Ma guarda un po' il caso. Era proprio lui. Si alzò e pagò la consumazione. Si catapultò fuori dal bar con tutta la velocità di cui era capace, facendo attenzione che Erica non fosse notata dai clienti e, una volta in piazza, chiamò:

«Viktor! Viktor Cena.»

Viktor si voltò in direzione della voce che lo stava chiamando e vide Lele che gli veniva incontro con il suo sorriso così tirato e forzato. Era domenica mattina e i due giorni precedenti erano stati un vero inferno. Tutto ciò che voleva fare era prendere l'auto e andare da Zia Rita e dai suoi meravigliosi tajarin.

«Buongiorno Lele. Come va?»

«Benone, Viktor, benone. E tu? Fa freddo ma c'è il sole. È una bella giornata, tutto sommato. Gradisci qualcosa al bar?»

«No, grazie Lele. Sarei un po' di fretta a dire il vero. Devo andare a trovare una persona per pranzo e sono già in ritardo.»

«Va bene. Sarà per un'altra volta. Ti accompagno per un tratto di strada, se posso...»

«Ho la macchina qui vicino, vieni pure. Vuoi un passaggio?»

«No, preferisco camminare. Ti accompagno e poi farò una passeggiata. Ormai la città è già pronta per il carnevale, vero?»

«Già. Inevitabile, direi.»

«Ti piace il carnevale, Viktor? A me non molto.»

«A me...» si fermò un attimo. Doveva dirlo, tanto tra qualche giorno lo avrebbe probabilmente visto sfilare in costume «A me molto, sì. Quest'anno sarò nello Stato Maggiore.»

Il volto di Lele divenne di marmo.

«Nello Stato Maggiore?»

«Sì, ho avuto quest'opportunità. Sostituisco un amico che ha avuto un impegno improvviso.»

«Ah, ecco. Bene, Viktor, bene.»

Viktor non poté fare a meno di notare il cambio di atteggiamento dell'uomo nei suoi confronti.

«Senti, Lele... Gabriele. Potresti lasciarmi il tuo numero di telefono se non ti spiace? Così ci sentiamo e andiamo a prenderci una birra, ok? Dunque, aspetta, ecco.»

Prese il cellulare, aprì la rubrica e aggiunse il nome Gabriele.

«Cognome?»

«De Lucia» rispose Lele sempre più a disagio.

«Numero?»

«Tre due uno sette sette cinque sette due uno sette. Solo che non ce l'ho con me in questo momento. Lo uso pochissimo.»

«Va bene. Ma ti chiamo più tardi. Ecco fatto. Siamo arrivati, il catorcio è qui. Ci vediamo Lele.»

«Ciao Viktor.»

Cena salì in macchina e partì. Lele lo guardò arrivare al fondo della strada e svoltare a destra. Viktor Cena faceva dunque parte dello Stato Maggiore. Qualche giorno prima, invece, lo aveva visto in compagnia di alcuni elementi della polizia. Magari non significava nulla. Oppure... Doveva fare attenzione. Aveva sbagliato a farsi riconoscere, davanti a lui e a quella ragazza quel giorno sul Ponte Vecchio. Lei lo aveva scrutato dentro e ora scopriva addirittura che Cena era nel gruppo carnevalesco. Doveva sganciarsi e tenerli tutti distanti. Tuttavia la storia di Viktor in qualche modo somigliava alla sua, e, forse, avrebbe potuto comprendere, capire il suo stato d'animo. Non c'era però ombra di dubbio che la sua presenza tra i personaggi del carnevale fosse un forte elemento di disturbo. Doveva riflettere sul da farsi e magari parlarne con... Lui... Tutto così complicato. E sconveniente. Così sconveniente...

Viktor arrivò fino in Piazza Freguglia, proprio davanti al palazzo dove una volta c'era il Cinema Sirio, e si fermò. Si guardò intorno: tutta la piazza era ormai addobbata per la festa. Il sorvegliante sorvegliato. Pazzesco. E pensare che proprio quella domenica aveva lasciato nascosta nell'appartamento la pistola d'ordinanza, per non spaventare Zia Rita. Altro che sorveglianza. 

Prese il cellulare e fece il numero che Lele gli aveva indicato.

"...Messaggio gratuito. Il numero da lei chiamato è inesistente."

Proprio ciò che si aspettava. Fece il numero di un altro cellulare.

«Cena, come va?»

«Ciao, Loiacono. Sei di servizio?»

«Sì, tutta la mattina. Dimmi.»

«Senti, hai voglia di fare una ricerca negli archivi a tempo perso? Segnati questo nome. Gabriele De Lucia. Probabilmente il cognome è falso. Gabriele dovrebbe essere vero. Quarant'anni circa. Abitava a Ivrea e poi si è trasferito altrove. Penso molto lontano.»

«Ah beh. Facile, no?»

«Se fosse facile non avrei chiamato te.»

«Minchione. È inutile che mi prendi per il culo. Trovare una persona solo con il nome è impossibile.»

«Sì, però questo si è spostato piuttosto lontano e secondo me ha un passato tormentato. Magari è schedato» proseguì Cena cercando di far leva sulla curiosità di Loiacono.

Silenzio. Stava riflettendo.

«Potrei incrociare le persone che si sono spostate con i fatti registrati negli archivi. Ma è comunque un casino. Ti costa una cena a Ivrea.»

Viktor staccò il cellulare dall'orecchio e guardò torvo il display. Poi riprese a parlare.

«Come a Ivrea?»

«Devo farti da balia la prossima settimana. Ordini del capo. Non ti ha avvertito? Qualche problema?»

«Cazzo, no!»

Silenzio.

«Comunque Loia...»

«Oh, non ci posso credere. C'hai una ragazza per le mani!»

Non aveva fatto esattamente centro ma c'era andato vicino.

«Cazzo dici, dai...»

Silenzio.

«Comu...»

«Ne hai due, minchione!»

Che poliziotto, pensò Viktor. Fatto e finito.

«Ma no. Non è come pensi tu.»

«E come, no? Brutto zozzone... 'A minchia sbrugghiata nunn'avi patruni

«Eh?»

«Usa Google Translator, minchione. Non divertirti troppo questo pomeriggio. Ti faccio la ricerca.»

«Ok. Grazie. Ciao bello. Non è come pensi tu, io...»

«Minchione» e riappese.

La telefonata lo fece sorridere e ne aveva bisogno. Gli ultimi due giorni erano stati claustrofobici. 

C'era Veronica. Aveva provato a richiamarla il sabato mattina inutilmente. Era preoccupato per lei e voleva sapere come stava. Era chiaro che per lei Roma era la sua zona off limit. 

Poi c'era Chiara, la moglie del Sindaco... Mica del macellaio, proprio del Sindaco in persona. 

E infine c'era lui, il cavalier minchione, con il suo stupido costume da soldato napoleonico. Quella domenica sarebbe dovuto andare a fare non si sa bene cosa insieme al gruppo. Aveva abdicato e comunicato a Belleri che si sarebbe attenuto alla sorveglianza per il periodo del carnevale e basta. Perché, parliamoci chiaro, di sorveglianza si trattava.

Mise in moto e ripartì alla volta delle dolci colline canavesane.

Zia Rita, rimasta vedova, era in effetti andata ad abitare a Cossano, un paesino situato proprio sull'Anfiteatro morenico di Ivrea, nei pressi del castello di Masino. Viveva in un alloggio all'ingresso del paese, un bilocale che gli aveva trovato suo figlio che abitava a pochi metri da lei con la sua famiglia. L'accoglienza fu festosa e spensierata. Enrico, il figlio di Rita, aveva sposato la fidanzata storica e aveva due figli di sette e quattro anni, simpatici e curiosi. Per tutta la durata del pranzo si parlò del più e del meno ed Enrico e sua moglie ebbero la cortesia, non comune, di non rivangare il passato di Viktor.

Fu un bel pomeriggio, insomma, come Viktor non ne passava da tempo. Verso le quattro, quando la famiglia di Rita tornò a casa, la Zia si presentò con la seconda tazza di caffè.

«No, zia, grazie. Sennò divento nervoso» rispose Viktor seduto sul divano del salotto con la cintura slacciata.

«È per farti digerire i tajarin. Tre piatti, cit, n'esagerasiun.»

«Zia, chissà quando mi ricapita. Ho voluto fare il pieno.»

«Eh, me car cit. Zia Rita li fa come si deve. Con la carne di fassone e i fegatini. Mica con la trita del discount come fanno al ristorante.»

Zia Rita sorrise mentre si sedeva di fronte a lui, con la tazzina di caffè in mano che decise di bere al suo posto. Tanto era vecchia e dormiva già poco, pensò fra sé e sé. Poi tornò a fissare Viktor.

«Sei tornato proprio quando lei fa la Mugnaia, nini.»

Eccola qui, la zia Rita investigatrice. Viktor si aspettava una domanda simile.

«È un puro caso. Sono qui anche per lavoro. Non solo per il carnevale.»

«Ma va la, fulatun. Chi pensi di prendere in giro? Sei qui per lei. Ho qualche anno più di te. Non hai mai sopportato gli ufficiali del carnevale. A te piaceva solo tirare le arance. Come tuo padre.»

Era la prima volta che qualcuno della sua famiglia veniva citato quel giorno.

«Già. È proprio così» riuscì a dire Viktor.

Zia Rita sorseggiò il caffè pensierosa, titubante sul fargli o meno una domanda. Poi si decise.

«Lo vai a trovare qualche volta? Lui e la mamma?» chiese mentre sbirciava Viktor da dietro la tazzina, quasi volesse nascondersi mentre la domanda le usciva dalle labbra come una stilettata.

Viktor scosse la testa.

Zia Rita posò la tazzina vuota sul tavolino di fronte a lei e si alzò in piedi.

«Viktor, mi sun veja. A me non me ne frega niente se vai o meno a trovarli. La fede, il cimitero, i fiur s'la tumba, sun tuti bali per mi» prese uno strofinaccio che aveva su un mobile e lo passò sulla credenza dove erano appoggiate le foto del papà e della mamma di Viktor, accanto a quella di suo marito.

«Però, 'scuta mi, per te è diverso. Devi andare a trovarli. Anche solo per qualche minuto.»

Viktor annuì, sapendo benissimo che Zia Rita aveva ragione da vendere.

«Vedrò se riesco a trovare un po' di tempo, zia.»

Zia Rita lo guardò con un sorriso sconsolato.

«Capita che ci vuole tanto coraggio anche a far le cose più semplici, nini» concluse, mentre passava per l'ennesima volta lo strofinaccio sulla credenza. Viktor ci pensò un attimo e poi volle cambiare discorso.

 «Zia, tu li conoscevi i due che sono stati assassinati?»

«Certo che li conoscevo. Rita conosce tutti. Brave persone, va.»

«Davvero? Posso immaginare. Un po' erano conosciuti.»

«Macché. Altro che brave. Quando erano giovani erano dei disgrasià. Delle iene. Loro e quel gruppetto del carnevale.» 

Viktor rimase a bocca aperta a guardare Zia Rita che con noncuranza stava fornendo un indizio grande quanto la Mole Antonelliana.

«Gruppetto? Avevano un... Gruppetto?»

«Massì, quelle cosa da giovani. Avevano vent'anni. Erano nei SOAS, quelli dell'Università che fanno le goliardate durante il carnevale. Io me li ricordo. Mai laureati tra l'altro, neh. C'era un gruppo di loro che facevano squadra a parte. Si facevano anche chiamare con un nome strano. C'erano loro due e altri che non mi ricordo. Nessuno si ricorda di queste cose qui. Loro poi, secondo me, mica si frequentavano più di tanto adesso.»

Viktor scattò in piedi.

«Zia. Sarebbe molto, molto importante che tu ti ricordassi i nomi di qualcuno di quel gruppo, per favore.»

Zia Rita lo guardò divertita.

«Nini. Se per le vostre indagini avete bisogno della signora in giallo siete messi davvero male. Dopo telefono alla Fernanda e vediamo se insieme riusciamo a tirare fuori dei nomi, via.»  

Accese il motore della sua Punto per tornare verso Ivrea. Avrebbe sicuramente saltato la cena e il giorno dopo si sarebbe dedicato a una dose doppia di jogging per smaltire la quantità abnorme di carboidrati ingerita nel giro di un solo pasto. Era su di giri, ma non ci pensava neanche ad avvertire i colleghi, visto quello che era successo a Veronica. Doveva fermarsi a riflettere qualche minuto. Mentre stava per scendere verso valle vide la deviazione per la frazione di Masino. Decise di andare a dare uno sguardo al panorama che si ammirava dallo spiazzo di fronte. C'era ancora un po' di luce ed erano anni che non lo faceva.

Salì fino al castello e parcheggiò lì vicino. Il parco era aperto gratuitamente al pubblico e avrebbe chiuso di lì a un'ora, ma lui preferì superare il cancello di ingresso al castello e godersi la vista che si apriva di fronte. L'occhio poteva perdersi dai paesi immediatamente sotto il castello fino all'imbocco della Valle d'Aosta. Era salito numerose volte in bici fino a quel punto per poi scendere verso Ivrea. Era un giro breve ma adatto agli appassionati in quanto permetteva di fare un buon tratto in salita senza spaccarsi le gambe.

Sentì il motore di un'auto non lontano da lui. Strano. Il parcheggio è più a valle, pensò. Si voltò e vide una Freemont piazzata in malo modo proprio sull'ingresso, in modo da occupare tutto il passaggio. Maleducato, pensò.

Si voltò nuovamente verso il panorama. Ormai le luci si stavano affievolendo, per cui decise di lasciare il castello e tornare nel suo loculo in via Arduino. Il giorno seguente poteva essere carico di novità relative al caso. Si voltò e vide che l'auto era sempre parcheggiata all'ingresso e nessuno era sceso.

Strano. Insolito. Sospetto. 

D'istinto si portò la mano al petto. Il ferro era a casa, ben nascosto dietro l'armadio. Bene, una scelta ponderata e opportuna, proprio quando era sicuro che qualcuno gli stava dando la caccia.

Perfetto. Vediamola in modo positivo: sarà senz'altro un idiota che ha parcheggiato da cani, pensò.

Iniziò a incamminarsi verso l'auto. Doveva strisciarle accanto per uscire dal punto di osservazione e arrivare alla sua Punto che era parcheggiata a duecento metri circa da lì. Non vedeva nessuno sulla vettura, eppure era sicuro che nessuno fosse sceso da essa nel lasso di tempo che aveva passato lì.

Riflettere. Cosa avevano detto al corso? Ah sì. In mancanza dell'arma in dotazione procurarsi un oggetto contundente da utilizzare solo per difesa. Si guardò intorno. Bastoni non ce n'erano lì in giro. Sassi di una certa grandezza neanche. Solo ghiaia. Rallentò il passo facendo finta di osservare un punto preciso del castello, mentre con la coda dell'occhio cercava di capire se ci fosse qualcuno sull'auto. Niente, non vedeva nessuno.

Era a sei metri dalla Freemont, proprio accanto all'ingresso verso il parco. Si fermò, indeciso sul da farsi. Stava diventando buio e non sapeva se fidarsi o meno del suo senso di sbirro. Per come era parcheggiata la vettura, una persona che fosse stata lì sopra avrebbe tranquillamente potuto sopraffarlo e caricarlo in auto in breve tempo e senza neppure il bisogno di creare troppo scompiglio. Intorno era tutto deserto. Era tardi e i visitatori si erano ormai allontanati. Solo il parco rimaneva aperto, ma anche quello avrebbe chiuso di lì a poco.

Diede nuovamente un'occhiata all'ingresso. Gli venne un'idea. Prese il cellulare e fece una foto al castello, nonostante il buio. Diede un'occhiata al display dello smartphone e poi, improvvisamente, scattò una foto alla vettura, illuminandone con il flash l'interno. Vide chiaramente un'ombra muoversi nell'abitacolo.

Partì in una corsa sfrenata e infilò l'ingresso al parco del castello che gli stava di fronte. Dietro di lui udì aprirsi e chiudersi una portiera e passi veloci che lo inseguivano.

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