XII - Run, Baby, Run

Video: Sheril Crow

Viktor raggiunse il binario due proprio mentre il diretto da Torino si stava avvicinando alla banchina. Pochi secondi dopo una piccola quantità di passeggeri scese dal treno, alcuni trasportando qualche bagaglio con loro. Per la maggior parte, notò Cena, si trattava di studenti universitari che tornavano anzitempo a casa rispetto al weekend. Corsi che terminavano prima del previsto, esami rimandati. Qualcosa con cui anche lui doveva fare i conti e che stava rimandando da troppo tempo. Dall'ultimo vagone scese la Kendall. Era elegantissima, avvolta da un cappotto color panna, tacchi da otto ai piedi e una sciarpina bianca ad avvolgerle il collo. La vide appoggiare a terra un minuscolo trolley rosa shocking, per poi guardarsi intorno in cerca di qualcuno, probabilmente lui, e infine estrarre un cellulare dalla borsetta, bianca anch'essa, che aveva con lei.

Cena si avvicinò quando la sentì parlare in inglese.

«Hello? Hi! Hi, Mark. How are you, my dear? Oh... me fine too. Yes, I'm in Ivrea. You can't believe what happened with the train. I've arrived only right now...»

Accortasi della sua presenza, lei gli sorrise con una smorfia e gli indicò il bagaglio per poi incamminarsi rapidamente verso il parcheggio.

D'istinto avrebbe lasciato il trolley lì sulla banchina, ma poi si ricordò di essere un gentiluomo e raccolse la valigia della collega americana.

La Kendall, chissà poi perché, lo stava aspettando proprio accanto a un'Audi Quattro nuova di zecca, dalla parte del passeggero. Stava continuando a parlare al telefono piuttosto animatamente.

Viktor allora le passò accanto e andò a prendere l'Alfa, che non era uscita certo dalla fabbrica nei giorni immediatamente precedenti al loro incontro. Mise il bagaglio nel baule, salì e partì per arrivare proprio vicino alla ragazza, ancora impegnata nella sua conversazione. Gesticolava e il viso era piuttosto adirato. Diede un colpo di clacson che fece sobbalzare l'americana, alla quasi cadde il cellulare.

Kendall allora chiuse la conversazione rapidamente e salì in auto con un'aria un po' scocciata.

«Buongiorno. Cena, vero? Io sono Kendall. Veronica Kendall.»

«Viktor Cena, piacere.»

Si strinsero la mano. Poi la ragazza guardò fuori dal finestrino, ignorandolo cordialmente. Bene. Decise che le stava già sul cazzo. Giornata davvero grandiosa.

Partì e si trovò imbottigliato nel traffico subito dopo la stazione. Di bene in meglio.

«Fatto buon viaggio?» chiese più per rompere il silenzio che per effettiva cortesia.

«Insomma. Treno in ritardo. Come sempre in Italia» rispose Veronica Kendall in modo brusco.

Viktor alzò gli occhi al cielo e pensò a quanto era stato bello, qualche giorno prima, andare a chiarire le idee al Moussa a Porta Palazzo. Il bello dei trafficanti di qualunque cosa è che quando vengono beccati a fare qualche vaccata abbassano immediatamente la cresta. Il business prima di tutto.

Passò un minuto di silenzio da parte di entrambi.

«Mi scusi, Cena» sentì Viktor alla propria destra.

Si voltò a osservare la ragazza. Stava guardando il vuoto fuori dal finestrino. Il suo viso non era più teso e il fare era diventato meno scontroso. Aveva avuto il medesimo scatto d'ira che aveva visto in riunione quando lei era a Roma.

«Non c'è problema. Capisco il suo scarso entusiasmo. È una piccola cittadina, ma non è così male. Se si accontenta.»

«La città che arrivo è in Tennessee. Ci sono cinquemila abitanti. Con le vacche.»

A Viktor scappò una risata. Veronica si girò a sorridere a sua volta. Un sorriso tirato e un po' malinconico. Forse solo stanchezza, chi lo sa...

Il traffico intanto non voleva saperne di muoversi. Buttò lo sguardo davanti a lui e vide tre o quattro auto in una posizione strana rispetto alla strada.

«Un incidente.»

«Wonderful! Che facciamo?»

Vide un parcheggio accanto a loro e vi si infilò dentro.

«Camminiamo? E valigia?» chiese la Kendall.

«Se per lei va bene facciamo una piccola passeggiata. C'è stato un incidente e ci vorrà un bel po' prima che sblocchino la situazione. Il centro è congestionato. Il commissariato è qui vicino. Andiamo a piedi così le faccio vedere il Ponte Vecchio, il luogo dove hanno ritrovato la testa del secondo omicidio. Il bagaglio lo lasciamo qui e più tardi vengo a riprendere l'auto. Ok?»

«Sì però dammi tu per favore. Ok?»

«Ok» rispose scendendo dalla vettura. Veronica aprì il bagagliaio ed estrasse il tablet dalla valigia. Richiusero e si incamminarono verso il ponte.

«Hai portato solo questo trolley con te? Non è un po' poco?»

«No. Mark mi spedisce valigia grande con posta.»

Mark dunque doveva essere il suo partner. Però nominandolo era tornata a essere corrucciata.

«Tu vive qui da molto?» chiese Kendall.

«Io ho vissuto qui in passato, ora no. Sono nato a Ivrea e ho vissuto qui fino a dieci anni fa circa. Poi mi sono spostato a Torino.»

«Quindi conosci bene. Tutto il posto, dico.»

«Sì, non è che sia cambiato poi molto a dire il vero. È rimasto tutto come allora, solo che tutto è vecchio. Una volta questa era una città florida, avanzata tecnologicamente e culturalmente. Conosci la Olivetti?»

«No, non conosco.»

«Fino agli anni novanta qui tutto gravitava intorno all'Olivetti, un'azienda che produceva macchine per scrivere prima e computer poi. Quarantamila buste paga in un territorio di centocinquantamila persone, immagina.»

«Buste pago?»

«Stipendio, money... Come si dice... Salary. Forty thousand salaries.»

«So, quarrantamila salaries for centocinquantamila persone. Era una buona azienda?»

«Figurati. Faceva concorrenza all'IBM. Ha fornito anche la NASA, sai? Utilizzarono il P101 per lo sbarco sulla luna.»

«Addirittura. Quindi eri ricco.»

Viktor ridacchiò.

«Io no. Molti altri sì, lo sono diventati. E anche parecchio. Ecco il ponte.»

La pioggia del giorno prima aveva ingrossato la Dora. Dove era stata appoggiata la testa ora il fiume scorreva rigoglioso. Veronica accese l'iPad e andò a recuperare le foto che il commissariato di Ivrea le aveva girato.

«Sì. Capito. Laggiù vero?» indicò la Kendall.

«Sì, davanti a quella casa, lì il fiume era asciutto qualche giorno fa. Ecco proprio lì» rispose Viktor controllando il tablet e il panorama.

«Dunque quello è il posto dove avete trovato testa. Anzi, dove assassino voluto che voi trovate testa.»

«Esatto.»

«Strano posto. Visibile, rischioso.»

«Credo sia questa la parte più difficile del caso.»

«Chiedo scusa...»

Viktor si voltò e si trovò di fronte un uomo sulla cinquantina, alto e robusto. Indossava un cappotto lungo e fuori moda. In testa portava un modello tipo Borsalino, sotto di esso sfoggiava degli occhiali dalla montatura tonda. L'uomo doveva essere cieco come una talpa, a giudicare dalle lenti.

«Sì?» chiese Cena.

«Tu sei Viktor, vero?»

Doveva capitare, prima o poi. Un conoscente... Sicuramente non uno dei suoi vecchi amici. Non lo riconosceva e non trovava nulla di famigliare in quel volto, ma i modi sembravano cordiali.

«Sì, sono io. Però mi scusi, ma io...»

«Oh, no, no. Scusami tu. Sicuramente non ti ricordi di me. D'altronde ci siamo incontrati una sola volta. Il mio nome è Gabriele. Ma tutti mi chiamano Lele.»

Kendall guardava i due in modo attento. Si era allontanata di un passo, piazzandosi così a una distanza che le permetteva di osservare volti, gesti e tic. Viktor se ne accorse e si stupì dell'istinto della collega americana. Notevole. Le piaceva.

«Piacere Gabriele» fece Cena imbarazzato «Questa è...»

«Veronica, piacere.»

La Kendall gli porse la mano che venne stretta calorosamente dall'uomo, poi si ritirò nuovamente in posizione di attesa, estrasse il cellulare e fece finta di scrivere un messaggio. In realtà era un modo per osservare la scena.

«Allora, Gabriele, come avrai capito io non mi ricordo assolutamente di te. Quando abbiamo avuto il piacere di conoscerci?»

«Oh, purtroppo in un brutto momento mio caro. Il giorno del funerale. Il primo. Mia madre era un'amica di famiglia.»

Viktor raggelò. Gabriele aveva un sorriso che esprimeva dolore e comprensione. Lo sguardo di Veronica non stava perdendo un solo frammento di quella discussione, ne carpiva anche i silenzi.

«Sì. Un momento terribile, Gabriele. Credo di non ricordare nulla di quel giorno.»

«È normale. Sai, io e te abbiamo dei dolori grandi, enormi, insopportabili che ci accomunano. Il passato è sempre lì, in agguato, quando torni in questi posti, no? Almeno, per me è così. Sono stato via per un bel po' di tempo, sai?»

Ora il sorriso era diventato enigmatico e inquietante. Gli occhi, pur celati dietro le lenti, sembravano esprimere qualcosa di differente da ciò che il resto del corpo stava cercando di mostrare. Viktor decise di interrompere quel colloquio.

«Anche io. Grazie, Gabriele. Ora, però, io e Veronica dobbiamo andare. Magari ci rivediamo qui in giro per Ivrea. Starò qui per qualche giorno. Chissà.»

«Ma certo. Se hai tempo e se avremo la fortuna di trovarci qui in giro potrei offrirti un caffè. Così ricorderemo i cari vecchi tempi.»

Viktor fece cenno di sì con la testa.

«Buona giornata, Gabriele. Anzi Lele.»

«Buona giornata» rispose Lele stringendo la mano a Viktor «I miei ossequi Veronica.»

Lei gli strinse nuovamente la mano. Fredda, non sudata. Non sentiva particolari emozioni. Non tremava, non mostrava alcun nervosismo.

Viktor e Veronica si incamminarono verso Corso Nigra. L'uomo stette per un po' sul ponte e poi si diresse verso il Borghetto. Veronica si voltò verso di lui e poi guardò di fronte a sé.

«Gabriele, cinquant'anni, ti ha cercato e nasconde cose. Non era per caso. Sembra sapere che tu non vivi qui. Come fa a saperlo? Sa tutto di te» fece una pausa «Non mi piace. Tu non conosci lui.»

«Non è piaciuto neanche a me, se è per quello.»

«E tu, Viktor, tu sei scappato via da Ivrea, non te ne sei andato.»

Cena si fermò. Veronica continuò a camminare con il suo passo spedito per qualche metro, poi si fermò anch'essa.

«Vieni?» gli chiese.

Poliziotta strepitosa, pensò Viktor.

E proseguirono insieme verso il commissariato in silenzio.

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Lele era contento di aver parlato con Viktor. Chissà cosa lo aveva riportato a Ivrea? Beh non aveva il tempo di pensarci. Aveva del lavoro da fare. Erica brontolava nella sua tasca e non vedeva l'ora di dare il meglio di sé.

«Tranquilla, Erica, fai la brava» disse ad alta voce.

Una donna passandogli vicino lo guardò storto, allora lui si levò il cappello per salutarla come fanno i veri gentiluomini.

Solo una cosa non gli era piaciuta dell'incontro di poco prima. Quella donna. Lo aveva scrutato, sezionato e letto dentro. E la cosa non gli era piaciuta.

Era stata sconveniente. Molto sconveniente e sgradevole.

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