VIII - Look Back in Anger

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Nottata di merda, porca puttana. Alle tre era coricato sul letto a guardare il soffitto. Alle quattro si era infilato gli auricolari per sentire se il Duca poteva conciliargli il sonno. Alle cinque si era rotto i coglioni ed era andato a farsi una doccia.

Viktor stava maledicendo se stesso per aver esagerato la sera prima alle Tre Galline. Le birre trangugiate e la faccenda di Ivrea lo avevano reso ancora più intrattabile di quanto lo era già stato prima e il risultato era stato quello di rimanere con gli occhi sbarrati come un tarsio, la bocca riarsa con un saporaccio di merda e il cervello a spasso per ogni dove. 

Alle cinque e quaranta era in commissariato Torino Centro, a pochi passi da dove abitava. Gli pesava il fatto di non poter essere operativo in Questura all'interno della Squadra Mobile Prima Sezione, dove fino a pochi mesi prima operavano sia lui che il Commissario Capo Tosin. In definitiva il suo ruolo non era cambiato di molto, ma il profilo che gli avevano assegnato era più defilato in modo da lasciar passare la bufera che si era abbattuta su di lui. Ci sarebbe voluto parecchio tempo. Tosin, invece, sarebbe ritornato in carica ben presto alla Squadra Mobile. Per lui era solo una questione precauzionale e di sicurezza. Entrò nell'ufficio che condivideva con un vicecommissario in congedo per malattia da due anni. 

 «Ciao Mario. Come va oggi? Meglio?»  

Mario continuava a non rispondere nonostante lo salutasse tutte le mattina. Viktor non l'aveva mai conosciuto ma gli augurava che la malattia fosse un'invenzione e che in realtà Mario avesse speso tutti i suoi averi su qualche isola tropicale, tra donne e alcool. Si sedette alla scrivania dove il giorno prima aveva finto di redarre un verbale a carico di Hacky Joe e si accorse che i tecnici gli avevano riportato il notebook. Finalmente. Spostò la vecchia macchina da scrivere dalla scrivania, mentre il pc eseguiva il bootstrap. L'avvio era sempre lento, avrebbe dovuto segnalarlo ai tecnici. Nell'attesa lo sguardo cadde sul telefono fisso che ornava la scrivania. Gli parve quasi di sentire squillare il telefono, esattamente come quella sera.

L'operazione Erbaluce si era chiusa proprio con una telefonata ricevuta da Viktor cinque mesi prima. Il coordinamento era curato dalla Squadra Mobile di Torino in collaborazione con quella di Catania. Tutto era pronto e Viktor Cena quel giorno trepidava come un liceale in attesa dell'inizio delle danze alla festa di fine anno. Il giorno successivo Viktor avrebbe dovuto chiamare il gestore di un'azienda vinicola della zona di Paternò, una delle tante aziende di proprietà di Antonio Manzanera, per chiedere un aiuto per aumentare la produzione di una pessima annata di vino locale, l'Erbaluce di Caluso. Si sarebbe finto disperato e sul lastrico, disposto ad accettare qualunque tipo di aiuto a un buon prezzo. Avrebbe proposto all'azienda catanese di poter acquistare da loro, a prezzo favorevole, una certa quantità di uva da tavola di infima qualità per poi arricchirla con del fruttosio. "Mi dicono che lei è una persona disposta ad aiutare chi ha bisogno e chi è in difficoltà", avrebbe detto. Ovviamente Manzanera sarebbe intervenuto direttamente e di buona lena, offrendo i suoi servigi e vendendo al sedicente viticoltore un grosso quantitativo di uva a un costo irrisorio. Insieme all'uva, però, il produttore vinicolo avrebbe ricevuto un notevole carico di eroina che il suo contatto in Piemonte sarebbe andato a ritirare, per distribuirlo poi sui mercati delle periferie urbane di Torino e Milano.

Questo era il core business del Mattatore, l'uva era solo una delle tante coperture che utilizzava per i suoi affari. L'informazione sui traffici dalla Sicilia al Piemonte era giunta alla polizia di Torino durante le indagini relative all'assassinio di un viticoltore di Carema. L'uomo era stato trovato, nell'ottobre dell'anno passato, nell'azienda di sua proprietà, infilato a testa in giù nel tino pieno di mosto, proprio come nel "Nome della Rosa" di Eco. L'etichetta con la Voce del Padrone era stata trovata lì accanto: la firma, un avvertimento per tutti, una sfida alla legge. Fu semplice per la polizia, tramite i collaboratori del viticoltore, risalire a quegli strani trasporti di uva in arrivo a Carema. Dopo alcuni mesi di lavori serrati curati da Tosin, la polizia riuscì a comprendere come erano andate le cose, sfortunatamente senza alcuna prova incriminante. Il giudice incaricato avrebbe di sicuro bloccato qualunque indagine a carico di Manzanera. Erano spariti i registri per cui non c'erano nomi, non c'erano tracce dell'azienda fornitrice di uva, non c'erano impronte sul luogo dell'assassinio. Non c'era, insomma, lo straccio di una prova, se non quel biglietto da visita che evidentemente, con il passaparola nel settore, riusciva a incutere rispetto e terrore in chi collaborava con il Mattatore. Ma il magistrato e Tosin non erano tipi da chinare lo sguardo: volevano la testa di Manzanera e la firma diceva chiaramente chi era il mandante e quale direzione doveva prendere l'indagine, per cui era stata orchestrata minuziosamente quella trappola. 

Il telefono squillò verso le otto e mezza di sera. Era rimasto in ufficio fino a tardi per definire gli ultimi dettagli del suo ruolo di infiltrato e si stava apprestando ad uscire per cui fu persino tentato di non rispondere. Aveva già indossato il giubbotto, si fermò sulla porta e tornò indietro a sollevare la cornetta.

«Pronto?»

«Parlo con il dottor Viktor Cena?»

L'accento era decisamente siciliano e a Viktor parve addirittura che il personaggio dall'altra parte del filo ne calcasse il timbro.

«Sono io. Buonasera. Con chi parlo, per cortesia?»  

«Buonasera dottor Cena. Posso chiamarla dottore, non è vero? D'altronde è una persona illustre, lei. Sa com'è, mi sentirei più a mio agio.»

«Chi parla?»

«Mi scusi, dottore, mi scusi. Sono l'avvocato Antonio Manzanera.»

Il pavimento sembrò ondeggiare, il senso di nausea colse Viktor come se si trovasse su di un veliero nel mezzo di una tempesta. Tacque per qualche secondo, non sapendo come rispondere. Cercò con lo sguardo qualcuno in ufficio che potesse aiutarlo, ma era inesorabilmente solo. Poteva essere un brutto scherzo, ma Cena sapeva benissimo che non era così. La persona al telefono era proprio il Mattatore.

«Mi dica, Dottor Manzanera. A cosa devo il piacere?»

«Veda, mi è stato riferito che Lei era interessato ai miei prodotti, però sono rimasto sorpreso. Ma cosa vorrà mai un esimio Dottore poliziotto da noi? Dell'uva? A noi è sembrato subito strano. Difatti volevo comunicarle che non sarei affatto interessato all'affare. Sono davvero spiacente.»

"Nonèpossibile, nonèpossibile, nonèpossibile", ripeteva tra sé e sé. 

«Peccato. Poteva essere un buon affare, dottor Manzanera.»

Una risatina soffocata dall'altro capo del filo.

«Forse per Lei e i Suoi amici. Per me, no.»

Ancora qualche secondo di silenzio. La voce riprese con un tono quasi paternale.

«Senta. Mi permetto gentilmente di darle un consiglio. Costruire un rapporto di affari in questo modo, in un mondo particolare che si basa ancora sul valore della fiducia... Ecco, mi ha fatto perder tempo. Non bisogna prendere in giro la brava gente che lavora. Non bisogna telefonare alla gente che fa il suo dovere facendo finta di essere un altro. Perché le bugie hanno le gambe corte e la gente lo viene a sapere se lo vuole.»

«La gente brava ed onesta come Lei, vero?»

«La gente che cerca di fare del bene come me, lo ha detto. Ora, il discorso per quanto mi riguarda finisce qua. Per questa volta. Ma io ho la memoria lunga e ho tanti amici che mi vogliono bene. Loro non dimenticano mai chi manca di rispetto e io a volte faccio fatica a contenerli, sono esuberanti.»

Eccola qui la minaccia, il peso misurato delle parole, la discolpa e l'accusa.

«Buonasera allora dottore. E la prego anche di portare i miei ossequi al... come si chiama? Ah sì. Commissario Tosin.»

La telefonata si chiuse e Viktor si dovette sedere per terra ancora con la cornetta in mano, vibrando per la rabbia e per qualcosa che somigliava ad un brivido di paura.

Viktor si ritrovò seduto a terra proprio come quella sera, quando Tosin entrò come un tornado insieme a Loiacono nell'ufficio, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Tosin lo guardò e poi alzò gli occhi al cielo.

«Cena, alzati prima che ti prenda a calci. Prendi portatile, macchina fotografica e il carteggio che ci ha lasciato ieri Vincenzi.»

«Che succede?»

«C'è stato un altro morto. Uno dei testimoni.»

Chiusa la questione. Non c'era più nulla a cui appellarsi. Un secondo omicidio implica, generalmente, due fenomeni: un omicida seriale oppure una pulizia in corso nell'ambito della malavita organizzata. In ogni caso Viktor non poteva più esimersi in alcun modo dall'essere coinvolto in quella storia. Suo malgrado sarebbe tornato a Ivrea dopo più di un decennio di assenza. Recuperò le sue cose e raggiunse gli altri verso il parcheggio. La SEAT Leon era già accesa, Loiacono alla guida. Una volta salito in macchina discussero la situazione.

«L'hanno trovato questa mattina. Era dalle parti del ponte... ponte...» mentre stava spiegando quello che aveva saputo, Tosin scartabellava tra i suoi appunti.

«Vecchio?»

«Sì, esatto. Il Ponte Vecchio. Al telefono non ho capito bene le condizioni del corpo. I toni erano concitati e confusi. Vediamo di persona. Tanto non hanno toccato nulla. Vicino al ponte, intendo. Potrebbe trattarsi di un suicidio.»

«Chi ha chiamato?»

«Il tuo amico Belleri. Era piuttosto agitato, non sarcastico come ieri. Evidentemente non è così abituato e avvezzo agli omicidi come vorrebbe farci credere.»

«La scientifica?»

«Ho mandato la nostra e probabilmente arriveranno anche i RIS se dovesse trattarsi in effetti di un omicidio.»

Viktor rifletté qualche secondo in silenzio. Silenzio che fu rotto da Loiacono con il suo accento siculo.

«È sempre rischioso far fuori un testimone. Questo me lo hanno insegnato al corso.»

«Dipende da quanto sa il testimone, Loiacono.» rispose Tosin.

Ivrea era lì, appoggiata a terra prima della Val D'Aosta, come al solito. Dall'autostrada vide apparire piano il castello di Pavone Canavese, poi, una volta usciti, le strade che ben conosceva iniziarono a prendere forma concreta e a sostituire le immagini che aveva di loro nella memoria. Poco era cambiato, tutto sommato. I palazzi dell'Olivetti, i Palazzi Uffici, erano occupati da altre aziende ma erano ancora lì, quasi immutati. Le residenze per gli impiegati e l'asilo nido anche. Poi mano a mano che si avvicinavano verso il centro, i cubetti di porfido che caratterizzavano il percorso facevano sussultare sia l'auto che il suo cuore. Lasciarono sulla loro destra la stazione che faceva da sfondo alle attese dei bus e dei treni della sua adolescenza e da ritrovo con i suoi amici. Il traffico diventò improvvisamente caotico, tutto era bloccato. Viktor sapeva il perché: ciò che era avvenuto era localizzato in pieno centro e tutto il traffico era andato in tilt. Accesero i lampeggianti e proseguirono facendosi spazio tra le fila di auto. Il castello che si stagliava in alto e la cascata artificiale che prendeva forma in lontananza gli fecero compiere un nuovo tuffo nel passato. Mostrarono i distintivi agli agenti che avevano bloccato l'accesso al centro ed entrarono nella zona delimitata. Trovarono posto proprio accanto a un negozio di fotografia storico in Corso Nigra e scesero dall'auto. Belleri li stava attendendo. Non era gioviale, non era ironico, non era sarcastico. Era in piedi, dritto come una bacchetta, bianco come il cadavere che stavano per andare a vedere.

«Buongiorno» disse Tosin sceso dall'auto.

«Buongiorno, ben arrivati. Seguitemi per cortesia.»

Cena e Loiacono erano trasparenti, esisteva solo il capo.

Arrivarono fino al ponte tra Corso Nigra e Corso Cavour per poi girare a sinistra. Percorsero la brevissima distanza fino al Ponte Vecchio. Tutta l'arcata del ponte era zeppa di gente. La maggior parte agenti e personale in tuta bianca che prendeva misure e scattava foto. 

«Avvicinatevi al parapetto. Dall'alto si vede meglio» esclamò Belleri.

Si avvicinarono e guardarono verso il basso. In inverno la Dora Baltea andava in secca. Rocce che normalmente erano sommerse, emergevano dall'acqua creando un passaggio che arrivava quasi in mezzo al fiume. Su una di queste rocce era stato adagiato un telo grigio. Sopra il telo era stato appoggiato un oggetto. Dietro l'oggetto c'era un cartello in legno con una scritta in rosso. Loiacono guardò bene dal parapetto e poi girò lo sguardo.

«Bedda matri santissima. Cchi schifiu.»

L'oggetto appoggiato sul telo era una testa, mezza congelata dal freddo notturno. Sul cartello dietro di essa c'era scritto "La preda in Dora". La scritta era stata realizzata quasi sicuramente con il sangue. 

Belleri si avvicinò a Viktor e gli bisbigliò nell'orecchio: «Bentornato a Ivrea, Vittorio!»

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