IV - Proteggi questo tuo ragazzo

Video: Thegiornalisti.

Lele era appoggiato alla ringhiera e osservava sfilare sotto di sé le acque della Dora Baltea. Quando era bambino, la domenica pomeriggio andava a passeggiare con la propria famiglia sul Lungo Dora. Lui dava la mano a suo padre e sua sorella a sua madre. Durante il tragitto sua sorella e sua madre, che camminavano davanti a loro, non finivano mai di chiacchierare e di ridere. Ogni tanto si voltavano indietro a guardarli e sua madre diceva una sciocchezza a sua sorella nell'orecchio. Allora sua sorella rideva di una risata spensierata e semplice. Quando il tempo era bello, salivano tutti insieme verso Via Palestro e si fermavano da Pancera a comprare il gelato. Com'era buono il gelato di Pancera! Si ricordava in particolar modo della panna montata. Nonostante fossero passati più di quarant'anni, gli pareva di sentirne ancora il gusto nel palato, la consistenza cremosa della coppetta che suo padre gli comprava. Solo panna, tutta panna montata.

Quanto tempo e quante cose erano cambiate da allora. Pancera non esisteva più da tempo. Adesso c'era un bar, una birreria, un luogo anonimo, insomma. Era un locale sconveniente, realizzato in un posto sconveniente. Una volta era anche entrato in quel locale. I tavolini erano in acciaio e dalle casse usciva musica da discoteca ad alto volume. In un angolo del locale tre ragazzine parlavano tra di loro dei ragazzi che erano seduti sui gradini dei portici di piazza Ottinetti, dall'altra parte della via. Ogni tanto una di loro si alzava e andava a vedere dalla porta cosa stavano facendo, poi tornava dalle altre ridacchiando. Ordinò un aperitivo al banco e, dopo averlo bevuto in fretta, se ne andò. Tra qualche anno anche quel bar avrebbe chiuso e allora qualcun altro avrebbe aperto un locale o un negozio ancora più anonimo e sconveniente, e quel locale avrebbe chiuso anch'esso qualche anno dopo. Le tre ragazzine, ormai donne, sarebbero passate davanti al locale e non si sarebbero neanche ricordate di quella giornata passata a osservare i ragazzi e a farsi guardare da loro. Forse non si sarebbero neanche ricordate del locale. Il ciclo inesorabile della vita moderna. Tra qualche anno nessuno si sarebbe ricordato di Pancera e del capolavoro dolciario che aveva creato.

Il freddo penetrava sotto il cappotto e un brivido lo percorse mentre procedeva lungo il marciapiede che fiancheggiava il fiume.

Lele si fermò a guardare l'acqua grigiastra scivolare lenta e pensò che dimenticare era un delitto. Solo l'acqua riesce a portar via tutto e l'acqua che porta via tutto è sempre sporca, come i fiumi in piena. Dimenticare è ingiusto.

Riprese a passeggiare verso Piazza Freguglia ma continuava a pensare, la mente in un tumulto di emozioni e ricordi. Che cos'è un uomo, si chiedeva, se non ricorda? Quali insegnamenti può elargire al prossimo? Cosa può fare una persona della propria vita se non mantiene viva la memoria? Ogni essere vivente è la simbiosi del proprio passato, è il frutto delle speranze, dei gusti e della storia che altri uomini hanno costruito prima di lui. L'uomo deve avere radici profonde per poter crescere, altrimenti viene spazzato via dal primo alito di vento o dalle piene dei fiumi.

Ivrea si era scordata di tutto. Nessuno in città aveva il ricordo delle sensazioni, dei volti, dei sapori che lui invece aveva ancora vividi nei propri pensieri. Nessuno. Ivrea era in catalessi.

Ma è dovere di chi è ancora desto risvegliare i dormienti perché non entrino nel sonno eterno.

Istintivamente si portò la mano nella tasca destra del cappotto. La Beretta calibro nove era ancora lì, carica. Pronta per l'uso.

Si fermò davanti alla vetrina della pasticceria Balla. Anche in quel periodo la vetrina era particolarmente invitante e tra poco si sarebbe vestita dei colori del Carnevale. Sicuramente l'opera del vetrinista sarebbe stata apprezzata ancora di più. Decise di entrare, pensando che una sola fetta di torta Novecento, la specialità di Balla, non gli avrebbe certamente peggiorato il colesterolo.

***

Quando era bambino a Viktor Cena il Carnevale piaceva. L'esplosione di colori che caratterizzava le piazze e l'odore delle arance riempivano il suo immaginario. Gli aranceri a piedi erano cavalieri senza macchia e senza paura e dai carri i soldati cattivi erano nemici da abbattere. Uno dei ricordi più belli della sua infanzia era il Carnevale dei suoi otto anni, quando suo padre lo aveva portato a tirare le arance nella squadra degli Scacchi per la prima volta. Sua madre aveva iniziato a preparargli la divisa quattro mesi prima. Non era davvero brava a cucire, anzi era un vero disastro, ma lui aveva insistito così tanto. La divisa pronta e cucita su misura costava uno schioppo, allora sua madre si era armata di pazienza, di ago e filo. Era quindi partita con largo anticipo per arrivare a febbraio con la divisa pronta. La prima prova fu un disastro.Le maniche erano lunghissime, i pantaloni corti e la sacca per le arance avrebbe contenuto al massimo quattro mandarini. Disperata, alla fine aveva dovuto rivolgersi alla zia Rita, che sua zia non era ma gli voleva un gran bene lo stesso. Zia Rita guardò la tuta e senza prendere una misura iniziò a tagliare e cucire. Dopo due giorni consegnò la divisa a sua madre e lui la provò: era bellissima con i pantaloni arancioni e gli scacchi bianconeri della casacca, ma soprattutto calzava a pennello. Era talmente bella che gli spiaceva sporcarla, per cui, quando la domenica di Carnevale iniziò il tiro, per mezz'ora rimase nascosto dietro le cassette di arance sistemate ad un lato della piazza.

Suo padre era il Roccia, così lo chiamavano tutti. Tirava le arance da vent'anni e quella domenica era andato sotto i primi carri a darsele di santa ragione con gli antagonisti mascherati. Quando vide che suo figlio non accennava a uscire dal suo nascondiglio, lo andò a scovare dietro le cassette.

«Cosa fai lì, Vik?»

«Tiro le arance, papi.»

Il sorriso di suo padre.

«Allora sei in una posizione strategica» lo canzonò suo padre.

«Da qui controllo meglio la situazione» rispose Viktor poco convinto.

«Non ti va di venire fuori con me? Andiamo un po' più vicino ai carri da getto. Ti va?» e gli porse la sua mano enorme.

Timidamente Viktor allungò la mano verso di lui. Suo padre la afferrò e lo accompagnò nella piazza. Di fronte a loro la battaglia infuriava. Il Roccia faceva scudo a Viktor con il suo corpo. Dietro di lui Viktor era invincibile. Suo padre lo portò quasi vicino ai carri trainati dalle splendide pariglie e quadriglie di cavalli, tenendolo stretto accanto a lui. Il braccio di suo padre era piegato davanti al proprio volto per ripararsi dalle arance vaganti, mentre Viktor era nascosto dietro le sue gambe. Dopo un po' prese coraggio e si mise accanto a lui, imitandolo con il braccio alzato. Arrivò persino qualche arancio che respinse con il braccio. Passarono tre o quattro carri poi prese le arance che si era infilato nel tascone anteriore e iniziò a tirarle verso i carri, colpendo invariabilmente gli aranceri di fronte a lui e non quelli mascherati sul carro. Dopo un po' un'arancia lo colpì di striscio su una guancia.

«Hai male?» gli chiese il Roccia.

«Un po'.»

«Andiamo fuori dalla piazza?»

Viktor fece cenno di no con la testa. Provava un po' di dolore, ma tutti gli altri bambini stavano tirando e voleva farlo anche lui. Li guardò, volse il viso verso suo padre e gli sorrise. E poi andò a tirare con gli altri amici. Fu una bella giornata che ricordava ancora con immensa malinconia. Soprattutto alla luce di quello che accadde negli anni a venire.

***

Come aveva fatto? Come aveva fatto a non accorgersi di cosa stava guardando.

«La Mugnaia...»

Belleri fece un sorriso ironico. Quello da carogna, come d'altronde era sempre stato, pensò Viktor.

«Ci sei arrivato, allora. Meglio tardi che mai. Lo sai che hai sviluppato una perspicacia fuori dal comune, vero?»

Tosin guardò torvo Belleri. La sua spocchia stava iniziando a infastidirlo. Decise di soprassedere ma continuava a non capire.

«Vogliate spiegarmi, per favore» chiese a Cena.

Viktor Cena era sovrappensiero, percepiva addirittura un vago profumo di arance nella stanza, ma prese comunque a spiegare.

«Lei conosce il Carnevale di Ivrea, vero commissario?» iniziò.

«Certo. La battaglia delle arance e tutto il resto» rispose Tosin.

«Ecco, appunto. Tutto il resto. Il personaggio principale del Carnevale è la Mugnaia. E' la figlia del mugnaio sulla quale, secondo la leggenda, il marchese di Biandrate, il tiranno di Ivrea, aveva il diritto di applicare la jus primae noctis. La ragazza doveva, insomma, passare la prima notte di nozze con il marchese e non con il proprio sposo» spiegò Viktor.

«Noblesse oblige, conosco l'usanza...» esclamò Tosin non capendo il parallelo con l'omicidio di Longo.

«La figlia del Mugnaio non era sicuramente una ragazza docile. Lei andò sì nel castello del marchese, proprio nel centro di Ivrea, ma applicò una variante importante alla tradizione.»

«Quale?» chiese Tosin sempre più perplesso dall'estemporaneità del racconto.

«Si ribellò al tiranno e alla tradizione. Il popolo scese per le strade in rivolta contro le guardie del marchese, che vennero così sconfitte a colpi di cubetti di porfido del manto stradale. Così dice la leggenda. Non ci sono testimonianze storiche, nulla. I cubetti di porfido vennero sostituiti dalle arance. Ma il Carnevale di Ivrea è questo: sangue e storia. E passione» continuò Cena.

«Gran bel racconto» disse divertito il commissario «però non colgo l'attinenza con...»

«La ribellione della Mugnaia. Nella stanza del Marchese. Lei tagliò la testa al nobile con la sua spada. Poi la infilò sulla punta e uscì sul balcone del castello per mostrarla ai concittadini. Una spada con la testa sulla punta tesa oltre il parapetto.»


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