I - Who Can It Be Now?
Video: Men at Work
Fine dicembre dello stesso anno
Novantadue chili erano, tutti insieme, una verità troppo dura da rivelare a se stessi ed era questo il motivo per cui Emiliano doveva disfarsi al più presto di quella bilancia se voleva ritrovare una sacrosanta tranquillità interiore. Il proprio malessere non era dovuto, però, al peso, con il quale conviveva ormai da tempo senza particolari patemi. Erano, semmai, le torture alle quali era costretto a sottoporsi per diminuirne la consistenza.
Come la sessione forzata di jogging mattutino, per esempio, ovvero la corsetta, come preferiva chiamarla l'avvocato Emiliano Preti, che detestava in modo assoluto gli inglesismi. Corsetta per modo di dire, se vogliamo essere davvero sinceri. Più che altro una passeggiata a piè veloce, un ritmico incedere. D'altronde era stato un ordine imposto dall'alto e gli ordini, quasi sempre, si eseguono malvolentieri.
Il dottor Salvi, infatti, su quel punto era stato categorico e irremovibile.
«Emiliano,» gli aveva detto «se vuoi sopravvivere almeno fino ai cinquant'anni, e sono serio, basta con il fumo e l'alcool. Pasti regolari e, soprattutto, una sana dose di sport.»
Sana. Quel maniaco era fissato con l'educazione fisica, la ginnastica, la linea e tutte quelle forme sadiche di allineamento culturale alla perfezione estetica. Anche a Emiliano piaceva lo sport, soprattutto il calcio, ma, ovviamente, in qualità di spettatore passivo. Il più passivo possibile con accompagnamento di birra, patatine e dei rimbrotti continui di sua moglie che mal sopportava la sua stasi ipnotica di fronte al televisore. Appare chiaro, quindi, che quest'ultima non aspettasse altro che la sentenza sanitaria da parte del medico, come il momento nel quale lei assaporò il proprio trionfo così come i generali gustano la disfatta e la conseguente fuga repentina delle truppe avversarie. Erano anni che, ogni santo giorno, rimproverava al marito la totale assenza di cura verso il proprio fisico. La prescrizione medica fu accolta, dunque, come un clamoroso successo della sua tesi accusatoria. Lui aveva provato a difendersi come al solito, da avvocato di navigata esperienza: scrollata di spalle, sminuimento della sentenza, implorazione del perdono. Nessun risultato venne ottenuto. A Emiliano non rimase altro che adeguarsi alla pena, come capitava a parecchi dei suoi clienti.
Sveglia alle sette, test bilancia, mezz'ora di corsa, test bilancia per controllare il peso perso. E poi doccia, colazione con numero due fette biscottate e té con numero uno cucchiaino di dolcificante. Per pranzo frutta e numero due biscotti integrali. Cena prevalentemente composta da pasta o riso in bianco e carni, bianche anch'esse, alla piastra oppure bollite con contorno di verdure. Bollite, si intende. Ovviamente niente alcool. Da impazzire dopo tre giorni di cura.
Il problema era che di giorni ne erano passati ben quindici, e di miglioramenti neanche l'ombra. La causa poteva forse essere rintracciata nello spuntino delle quattro che Emiliano mandava a ritirare al Caffé del Corso dalla segretaria e che consumava in gran segreto in ufficio. Siccome anche le mura hanno gli occhi, e molto spesso pure le orecchie, sia la segretaria che il complice barista erano stati legati ad Emiliano da un patto di riservatezza tramite il versamento di cento euro mensili cadauno, al netto delle consumazioni. Che consistevano in numero due panini con porchetta e numero una bottiglia di birra. Strategiche, invece, le scorte di patatine e cioccolata che Emiliano teneva nascosti nel sottoscala e che allietavano la sua sempre più persistente insonnia dovuta alla fame e al nervoso accumulati durante la giornata.
Fatto sta che, purtroppo, quella mattina il test bilancia pre-corsa aveva dato un risultato particolarmente sconfortante. Un metro e settanta per novantadue chili di peso. Tutto ciò aveva di fatto sancito la risoluzione a cui ogni donna esasperata può ricorrere nei momenti più difficili con il proprio partner. No sex zone, gli aveva detto. Proprio a lui che l'inglese lo odiava.
Il sesso non era mai stato granché con Ada, ma l'idea di dovervi rinunciare completamente lo disturbava. Poteva provare con altre, però... Siamo sinceri... Con quelle misure combinate giro vita e altezza, decisamente poco appetibili per una signora, la fatica del corteggiamento o peggio ancora l'idea alternativa ed estrema di dover pagare per un quarto d'ora di svago. No, non era cosa, meglio prender coraggio, tentare l'impresa e sperare in un ripensamento di Ada.
Fu proprio quella mattina che, dopo un paio di chilometri, Emiliano valutò seriamente l'eventualità di farsi monaco.
Il solito giro prevedeva un chilometro e mezzo di discesa verso Ivrea e da quel punto in poi la salita che costeggiava il lago Sirio e lo riportava verso casa. Dopo cinquecento metri di falsopiano il cuore si stava esibendo in un assolo rullante e grancassa. Nonostante il freddo pungente di dicembre, Emiliano era in un comprensibile bagno di sudore.
Decise, perciò, di prendersi due minuti di pausa per rifiatare e si avvicinò al bordo della strada. Si rese però conto che le gambe non riuscivano a sorreggerlo, per cui si appoggiò al cancello d'ingresso dell villone ottocentesco di Longo. Non appena mise la mano sul cancello, questo si aprì e Emiliano si ritrovò faccia a terra.
Si rialzò maledicendo la moglie, il dottor Salvi, tutta la categoria medica e il creato intero. Stava per ricominciare a passeggiare, quando pensò che qualcosa non quadrava proprio con quel cancello aperto. Sì, perché Francesco Longo era un tipo piuttosto particolare: viveva solo ed era molto riservato, alquanto geloso della propria intimità. Soprattutto della propria casa. Ne andava fiero, e non si poteva dargliene torto. La proprietà apparteneva alla sua famiglia da almeno tre generazioni e consisteva, tra l'altro, di un giardino vasto e ben curato, con un paio di abeti sulla sinistra e un prato tagliato in due da un viale. L'occhio andò a posarsi alle spalle del prato, dove Longo era riuscito a mantenere nel tempo un giardino botanico piuttosto lussureggiante. Al termine del viale, tra il prato e il parco, sorgeva uno stupendo edificio in stile liberty, fine ottocento, roba del genere insomma.
Emiliano era convinto che Longo non avrebbe mai lasciato il cancello di casa aperto, soprattutto di notte, soprattutto dopo il sofisticato sistema di allarmi che, si sapeva, aveva fatto installare. E' per questo che pensò ad un'incursione notturna da parte della banda di rumeni, che si diceva stesse battendo il circondario da qualche tempo.
Suonò al citofono. Una volta. Due volte. Nessuna risposta.
Si guardò intorno, ma per strada non c'era nessuno. Rifletté ancora un attimo sul da farsi, quindi decise di varcare l'ingresso e di dirigersi verso la villa percorrendo il breve viale centrale che portava all'edificio.
Fu proprio guardando verso la costruzione che si rese conto che sul balcone di sinistra che dava verso il viale, parzialmente nascosto da uno dei due abeti in giardino, qualcuno si stava sporgendo dalla ringhiera e sembrava osservarlo. Pensò che fosse Longo e che avesse bisogno di aiuto. Perché, altrimenti, sarebbe stato lì a guardarlo, fisso sul balcone con quel freddo? E se fosse stato qualcun altro si sarebbe già nascosto da un pezzo, in tutta fretta. Accelerò, quindi, il passo.
«Franco!» disse ad alta voce. «Sono io, Emiliano. Tutto a posto? Il cancello era aperto.»
La figura sul balcone rimase immobile. Proseguì lungo il viale svoltando, alla fine di esso, a sinistra, lasciando il prato e passando tra gli abeti e la villa per osservare meglio colui con il quale stava cercando di dialogare.
«Franco che fai lì fuori con sto freddo? Ho visto il cancello aperto e ho pensato che ti fosse...»
La frase gli morì in gola. Era arrivato di fianco all'abete e il balcone era proprio sopra di lui. Gli occhi presero piena coscienza dell'immagine che aveva di fronte, ma la mente non voleva ancora accettarne l'evidenza. Stette fermo lì dieci, venti secondi poi l'urlo primordiale partì dai suoi polmoni senza che nemmeno se ne accorgesse.
Emiliano non sentì Gualtiero Berardi, che viveva nella villa a fianco, correre verso di lui. Il signor Berardi aveva il cellulare in mano e stava per chiamare aiuto. In ginocchio, sotto al balcone, ai piedi dell'abete, l'avvocato, stanco, sudato, freddo e sconvolto continuava a gridare.
Allora Berardi alzò lo sguardo. E vide.
La volante della Polizia arrivò dieci minuti dopo la chiamata. Dalle voci concitate al telefono, l'operatore non aveva capito nulla di ciò che era successo se non la parola "morto" e l'indirizzo, che si era fatto ripetere più volte. I due agenti scesero dalla Seat Leon, oltrepassarono il cancello e si recarono verso l'edificio, mano sulla fondina. Un minuto dopo l'agente più giovane stava vomitando la colazione poco lontano da dove Emiliano era seduto a osservare il vuoto in stato quasi catatonico. L'agente più anziano, il capo-pattuglia, fece allora quattro cose che gli valsero in seguito l'elogio da parte dei suoi superiori. Chiamò i rinforzi, chiamò l'ambulanza, sequestrò i cellulari di Emiliano Preti e Gualtiero Berardi, ma soprattutto andò a chiudere il cancello di ingresso. Poi rimase di guardia e fece passare solo l'ambulanza e i colleghi. Nemmeno la moglie di Emiliano ebbe il permesso di passare, per cui tutto ciò che era successo lì dentro rimase sotto il ferreo e perfetto controllo delle forze dell'ordine.
Qualche settimana dopo il vicecommissario Belleri riprese per l'ennesima volta in mano le fotografie scattate alla villa. Erano terribili. Nessuno, tranne la Polizia, aveva la minima idea di quanto fosse stato sconvolgente l'atto commesso alla villa di Longo. Tutto ciò che si sapeva era che c'era stato un delitto efferato e null'altro. Il suo responsabile, il commissario Vincenzi, stava insistendo su un certo punto.
«Sto pensando di chiedere aiuto ai colleghi di Torino» disse nuovamente il commissario dalla scrivania nella stanza adiacente.
«Forse una squadra investigativa potrebbe esserci d'aiuto in effetti» rispose Belleri senza convinzione.
Il caso era suo, per la miseria, ma non stava cavando un ragno dal buco. Lo infastidiva dover passare il caso a qualcun altro. Il commissario, in più gli aveva fatto il nome di un collega, originario di Ivrea, del Commissariato di Torino, il quale poteva dar loro una mano. Quel nome. E con quel nome, Belleri non voleva avere nulla a che fare.
«Certo che...» cominciò Belleri per portare acqua al suo mulino, ma fu interrotto bruscamente. Un agente in divisa bussò due volte ed entrò senza aspettare il permesso, porgendo un plico di buste al commissario che era passato nel vano occupato da Belleri. Vincenzi era alto e corpulento, baffi e pizzetto neri, calvizie incipiente e con tutta la sua stazza era di fronte alla scrivania di Belleri a sfogliare le buste. Per contro Belleri, pur essendo alto come Vincenzi, era magro e biondo, senza un filo di barba, due occhi magnetici che facevano girare la testa alle ragazze. L'agente in divisa uscì rapidamente come era entrato e il commissario iniziò ad aprire le buste una a una e a mettere da parte il contenuto, per lo più missive burocratiche relative ai suoi agenti.
«Certo che se trovassimo almeno delle tracce nei filmati delle telecamere vicino. Qualche giorno e vedrà che la mia squadra troverà l'indizio che cerchiamo.» continuò Belleri.
«Belleri... Non abbiamo trovato nulla finora. E poi...»
Il commissario si immobilizzò. Guardava il foglio contenuto in una busta che aveva aperto poco prima. Poi fece attenzione a dove aveva afferrato il foglio con le dita e prese dalla tasca un fazzoletto per poter afferrare e porgere la lettera al suo vice.
«Belleri, prenda il foglio con un fazzoletto anche lei e faccia attenzione»
«Che succede, Commissario?» chiese Belleri mentre a sua volta prese il foglio con un fazzoletto.
«Contattiamo immediatamente Torino. Entro domani dobbiamo vedere i colleghi. Massima priorità. Faccia andare due uomini all'ufficio postale. Riunione interna qui tra un'ora. Io telefono al Questore.»
Belleri lesse la lettera una, due, tre, quattro volte. Incredulo.
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