La madre
«Abbiamo un problema.»
Queste furono le sue prime parole non appena arrivò a casa, posando la sua valigetta sulla sedia e togliendosi il soprabito.
«Che succede?»
La voce di Mauro, vibrante e apprensiva, arrivò dal tavolo a cui era seduto. Stava ricontrollando delle note sui suoi articoli da un prendiappunti nero che portava ovunque andasse.
Fabio era impegnato alla cucina della cena, come sempre, ed Elia stava finendo di applicare un bollo rubato su uno dei documenti falsi di quella settimana, dopo aver spostato la tovaglia a fiori tutta da un lato del tavolo per poter lavorare meglio e in pulizia.
Gli occhi di tutti e tre i ragazzi erano puntati su di lui e, quando sospirò cercando le parole, si accesero di apprensione.
«Abbiamo due problemi, in realtà» disse, strisciando la sedia sul pavimento e accomodandosi a sua volta. «Fabio, ti hanno beccato. Il tuo fascicolo è apparso sulla mia scrivania stamattina per sospetto tradimento.»
«Merda» disse, il suo tipico accento strascicato che si accentuava sempre quando imprecava.
«Che facciamo? Verranno qui?» chiese Elia, «dobbiamo trovare un altro posto?»
«L’ho fatto sparire. E i pochi che l’avranno visto ci hanno letto l’indirizzo di sua madre. Non credo che corriamo rischi, non ora, ma non è più fuori dai radar. Devi stare più attento» gli disse, e il ragazzo si portò le mani al volto, sospirando.
«E il secondo problema?» intervenne Mauro, che non aveva ancora commentato.
«Hanno capito che c’è una spia in Centuria. Hanno chiamato l’OVRA, faranno un’indagine. Mi hanno informato, non sono sospettato, ma controlleranno tutti in ufficio.»
I ragazzi si guardarono atterriti, l’angoscia lampeggiò sui loro volti come un’enorme insegna al neon.
Fu Mauro a parlare per primo.
«Devi andartene. Dobbiamo scrivere a Cecco, andrai a rifugiarti nelle campagne. Non puoi restare là, ti scopriranno.»
«Non posso andare via adesso, non dopo tutto quello che ho fatto per fare carriera. Non posso perdere tutto quello che ho guadagnato. Proprio ora che inizio davvero ad aiutare qualcuno, a fare qualcosa di utile per il paese...»
«Forse Mauro ha ragione» sussurrò Fabio, interrompendo il suo discorso. «Forse dobbiamo andarcene, tutti e due. Anche nelle campagne hanno bisogno di aiuto. Possiamo fare qualcosa anche là.»
Carmine deglutì. «Non posso fuggire in montagna. Non posso. Fabio, fai quello che vuoi, ma io resto qui.»
«Non è detto che ti trovino» intervenne Elia. «L’OVRA non è onnisciente, e tu sei stato attento. Faranno questa indagine, troveranno un capro espiatorio, e tutto finirà in una nuvola di fumo.»
Elia, insieme a Cecco, era stato un compagno di classe di Carmine e Mauro al liceo classico della città. Era stato Cecco a portarli tutti sulla strada della resistenza, ben prima delle leggi razziali, prima che la famiglia di Elia fosse stata portata ai campi e che Cecco fosse stato costretto a darsi alla macchia nelle campagne.
Elia, nonostante le loro differenze, aveva sempre creduto in Carmine. Oltre a essergli grato per averlo nascosto, sfidando ogni legge presente nel loro paese e mettendo a rischio la vita, provava affetto per lui e rispetto per ciò che faceva.
«Non è detto che mi trovino» ripeté Carmine, appoggiando l’amico. «Faranno questa indagine che sarà un buco nell’acqua, e la insabbieranno.»
«Se ti scoprissero...» disse Mauro, la voce tremante.
«Non mi scopriranno» liquidò Carmine. «E neanche voi. Per i fascicoli della Centuria abito ancora da mia madre. Questo indirizzo non esiste, sulle carte. Non verrà nessuno.»
«Andranno a casa di tua madre» ragionò Fabio. «Lei dirà che non abiti più là da un pezzo.»
«Per questo devo andare a farle visita. La supplicherò di mentire per me. Devo farlo.»
Mauro lo guardò allora, gli occhi chiari arresi e disperati. «Tu odi andare da tua madre» disse, in un ultimo folle tentativo di dissuaderlo.
«Vorrà dire che farò uno sforzo.»
I due si guardarono ancora qualche istante, poi Mauro strisciò indietro la sedia, con un rumore stridulo e assordante. «Vado fuori a fumare.»
«Ti accompagno» disse Fabio, senza perdere un attimo di tempo. I due si alzarono dalle sedie e attraversarono la stanza di fretta, passando accanto a Carmine e senza degnarlo di uno sguardo.
Carmine sospirò, e non solo perché odiava quando Mauro usciva a fumare, abitudine che trovava fastidiosa e anche piuttosto disgustosa.
Sentì sbattere la porta e si sentì sprofondare.
«Gli passerà» disse Elia, dal basso del tavolo a cui era seduto. «Si arrabbia perché ci tiene.»
«Lo so» rispose Carmine, sedendosi di fronte a lui e abbandonandosi con la testa sul tavolo. «Lo so.»
La loro casa non era tanto grande, e la cucina modesta. Carmine guadagnava bene, Mauro una cifra discreta, ma Fabio aveva uno stipendio da fame ed Elia non guadagnava un soldo, sempre nascosto in quella casa.
La sala da pranzo era nella cucina, un tavolo giusto per loro quattro, con quattro sedie semplici ma solide, il piano cottura vecchiotto ma non scalcinato, e i mobiletti bianchi per le stoviglie.
La luce giallognola della lampadina non era molto forte, illuminava la stanza tremolante, ma serviva al suo scopo. Dalla cucina partiva un corridoio che portava al bagno e alle tre camere da letto.
Carmine osservò la stanza, rassegnato. Notò che il muro aveva un alone scuro in uno degli angoli sopra la cucina, la condensa doveva aver formato della muffa.
«È comprensibile che sia preoccupato» disse Elia, cercando di essere ragionevole.
«Sapevamo che quello che facciamo sarebbe stato pericoloso. Non abbiamo mai finto il contrario.»
«Stavolta è diverso. Hanno capito che c'è una spia, faranno delle indagini. Sei sotto i riflettori dell’OVRA adesso.»
Carmine sospirò, restando immobile abbandonato sul tavolo. «Tu credi che dovrei andare via? Raggiungere Cecco e festa finita?»
«No» rispose Elia, in tono tranquillo. «Io credo dovresti restare. Non riusciremmo a infiltrare un altro uomo nelle Camicie Nere in fretta, non al tuo livello, e quello che fai è troppo importante per essere abbandonato.»
«Grazie.»
Sentì che Elia gli dava una spazzolata ai capelli, affettuoso. «Sono tutte cose che sa anche lui. Devi dargli tempo.»
Quando Mauro tornò dalla sua sigaretta, la cena si era sfreddata. Elia e Carmine avevano già mangiato, e lui e Fabio consumarono il pasto in silenzio, lanciandosi talvolta occhiate sopra il tavolo, con sguardo smarrito.
Carmine sentì la porta della stanza che si apriva, immerso nella lettura del suo libro, e lottò contro ogni istinto di alzare gli occhi e osservare la persona che si era introdotta nella sua camera da letto.
Non voleva provocare nessun tipo di conflitto con Mauro, non in quel momento, non dopo la chiacchierata con Elia.
Sapeva che Mauro era arrabbiato con lui, sapeva che avrebbe voluto che si mettesse al sicuro, sapeva che tutto quello che diceva lo faceva per il suo bene. Non aveva nessuna voglia di litigare, al momento.
Fu lui a parlare.
«Alla fine Fabio resta» disse piano, e Carmine sentì il letto che si abbassava sotto al suo peso.
«Mh» rispose distrattamente, anche se ormai non stava più leggendo. Si limitava a fissare la pagina senza vederla sul serio.
«Anche tu resterai, non è vero?»
Carmine sospirò, e finalmente abbassò il libro sul suo petto. Alzò gli occhi e lo guardò.
Mauro era seduto sul letto, dall'altro lato, gli dava le spalle. Poteva vedere come stava chino, intento ad accendersi una sigaretta, i capelli biondi scompigliati e la camicia col colletto aperto.
Carmine ignorò la domanda. «Sai che odio quando fumi in camera.»
Sentì il rumore di un accendino che scattava.
«Apri la finestra, allora.»
«Non scapperò, Mauro. Non puoi chiedermi di darmela a gambe proprio adesso.»
«Ti fucileranno. Dovrò scriverci sopra un articolo, ci pensi? Io o qualcun altro della redazione. Vuoi che stia a guardare mentre ti ammazzano e poi ci scriva su un trafiletto in cui ti do del traditore?»
«Non è detto che mi scoprano.»
«Ma per favore. Con tutti i casi che ti passano sulla scrivania e fai sparire nel camino...»
«Ci andrò più piano. Terrò un profilo basso per un po'.»
«Così tutti i tuoi casi andranno ai campi o alla fucilazione, e sarai proprio come un fascio vero. Questo sì che ti farà bene...»
Carmine si massaggiò le tempie, sentendo un principio di mal di testa. Ne soffriva da quando aveva iniziato a lavorare per la ventottesima legione, a volte gli esplodeva sulle tempie un dolore acuto senza ragione.
Sapeva che avrebbe dovuto cercare un compromesso. Se avesse continuato a far scappare gli indiziati si sarebbe acceso un enorme faro sulla testa, ma se avesse smesso avrebbe condannato a morte i compagni e la sua infiltrazione sarebbe stata del tutto inutile.
«In qualche modo me la caverò.»
«Non sei invincibile.»
«Sapevamo quello a cui andavamo incontro. Cecco non l'ha mai nascosto. Quando abbiamo deciso di prendere Elia, quando ho deciso di arruolarmi... sapevamo tutto.»
Mauro si voltò finalmente, proprio mentre sbuffava una nuvola di fumo chiaro. Carmine si trattenne dal strappargli la sigaretta dalle labbra, sapeva quanto lo aiutava quando era stressato.
L'odore acre del fumo gli entrò nei polmoni e lo grattò dentro.
«Sai una cosa, Carmine?» chiese il ragazzo, freddo.
Carmine rabbrividì. Aveva sempre odiato quando il compagno lo chiamava tesoro, non amava le manifestazioni d'affetto, eppure in quel momento si accorse che il nomignolo gli mancava.
Questo era il modo di Mauro di mettere le distanze, di fargli capire che, anche senza urla e piatti rotti, stavano litigando.
«Fai come ti pare. Vai a farti ammazzare, non mi interessa. Sei libero di farti del male come più ti piace. Solo, non chiedermi di essere uno spettatore in questo. Non chiedermi...» diede una boccata rabbiosa, convulsa, e buttò fuori il fumo. «Non chiedermi di stare a guardare.»
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire che da stanotte me ne torno da mia madre. Ci sei riuscito. Congratulazioni, mi hai appena mandato via. Ho chiuso.»
Qualcosa nel cuore di Carmine si incrinò. «Hai... chiuso?»
«Non posso stare a guardare mentre ti fai ammazzare. Non ce la faccio.»
Carmine si inginocchiò sul letto, rivolto verso di lui. Allungò la mano verso il suo volto, con calma per dargli il tempo di ritrarsi. Non accadde.
Gli passò il dorso della mano sulla guancia, un tocco lieve, e lo sentì tremare.
«Non posso prometterti che non mi succederà nulla» sussurrò. «Ma ti giuro che starò attento. Ti giuro che farò di tutto per evitare che tu debba sopportare questo.»
E sapeva di chiedergli tantissimo. Sapeva che, se fosse stato Mauro quello indagato dai servizi segreti, anche lui lo avrebbe pregato di andar via.
Sapeva anche che non poteva permetterselo. Non sarebbero mai riusciti a infiltrare un altro uomo tanto in fretta, la presenza di Carmine era fondamentale.
«Carmine, io... non ce la faccio.»
«Certo che ce la farai. Tu puoi fare tutto.»
«Non questo. Non vederti aspettare l'inevitabile.»
«Non è inevitabile. Non mi scopriranno. Starò più attento, te lo prometto.»
Non andare via. Non lasciarmi qui. Era questo che dicevano i suoi occhi, anche se le sue labbra non pronunciarono quelle parole.
Mauro sospirò, la sigaretta ancora tra le dita. «Resterò» disse.
Carmine tirò un sospiro di sollievo.
«Ma se succederà... se ti scopriranno, se ti faranno fucilare, io... io non ti perdonerò. Ti odierò per sempre, te lo giuro.»
Il ragazzo rabbrividì. Se c'era qualcosa che non poteva sopportare era il pensiero di Mauro che lo odiava, che lo ricordava non con affetto ma con stizza.
«Non succederà» rispose, poco convinto.
Mauro sorrise, e si infilò ancora la sigaretta in bocca. Si accese come un tizzone e lui buttò fuori il fumo, che grattò ancora la gola di Carmine e lo spinse a tossire. Il sorriso di Mauro si allargò.
«Dovresti proprio aprire quella finestra.»
Carmine si alzò, lottando contro l'impulso di alzare gli occhi al cielo. Mauro aveva detto che sarebbe rimasto, non voleva litigare e rovinare tutto.
«Dovresti smetterla di fumare. Fa male, sai» sibilò, andando ad aprire la finestra che dava sulla strada. «Devo andare da mia madre» aggiunse, guardando di sotto. «So che è tardi, ma devo andare. Domani potrebbe essere troppo tardi, potrebbero iniziare i controlli.»
«Ti accompagno» rispose Mauro, alzandosi in piedi.
«Davvero? Volevi tornartene da tua madre per non vedermi più e ora mi vuoi accompagnare dalla mia?»
Mauro alzò le spalle. «Preferisco stare con te sinché posso ancora farlo.»
Carmine non rispose alla evidente provocazione. Andò in silenzio verso la cucina e si congedò da Elia e Fabio con un gesto del capo.
«Saremo qui entro un'ora. Se non ci vedete tornare, sapete cosa fare.»
Elia annuì senza dir nulla. Conoscevano tutti il loro piano di fuga, mollare tutto e partire per le campagne nel caso in cui a qualcuno di loro si fosse bruciata la copertura.
Uscirono in strada che il sole era tramontato, e i figli dei vicini non giocavano più a palla per il vicinato. Il fresco di quella serata di fine aprile gli pizzicò la pelle del volto, il resto del suo corpo coperto dal suo cappotto leggero.
Mauro andò alla sua macchina, parcheggiata davanti casa, una Fiat 508 che continuava a servirlo, fedele.
Spalancarono gli sportelli e l'odore di pelle gli si insinuò nei polmoni, come sempre.
«Grazie di accompagnarmi» mormorò Carmine, mentre il compagno metteva in moto l'auto. «È importante per me.»
«Te l'ho detto» rispose Mauro, a mezza voce. Strinse il volante in modo tanto forte che le nocche gli divennero bianche. «Voglio stare con te sin quando sarà possibile.»
«Non mi fucileranno.»
«Non puoi saperlo.»
Nessuno dei due aveva voglia di discutere dopo quello che era successo quel giorno, quindi il resto del viaggio lo passarono in silenzio. Carmine moriva dalla voglia di toccarlo, di posare una mano sulla sua gamba e accarezzarlo per dargli conforto. Moriva dalla voglia di intrecciare le loro dita sopra la leva del cambio, per fargli sentire la sua vicinanza.
Non poteva.
Chiunque avrebbe potuto vedere quello che succedeva all'interno dell'abitacolo, sarebbe stato troppo pericoloso.
Così tenne gli occhi piantati sulla strada, le mani sulle ginocchia, immobile e silenzioso.
Giunsero a casa Coppola che era tardi. Il sole era già tramontato, ma quando Carmine suonò alla porta di casa il brivido che provò non fu per il freddo.
Mauro gli passò una mano sulla schiena per calmarlo e scaldarlo, mentre aspettavano che Concetta aprisse la porta di casa.
La villetta era una casa a due piani, in un quartiere residenziale, con un piccolo giardino sul fronte. Da quando suo padre Franco era morto per un cancro ai polmoni e Carmine si era trasferito coi ragazzi per stare più vicino al lavoro – e nascondere Elia e i loro affari illeciti – la donna viveva in tutto quello spazio nella solitudine, e Carmine stesso non andava mai a trovarla, la sua vista gli faceva male.
Non avevano litigato, non era successo nulla tra loro. Il ricordo del padre, però, e la nostalgia per la sua infanzia lo ferivano.
Quando la porta si aprì, una donna bassottina e tozza fece capolino sull'uscio. Concetta era una signora più larga che alta, dai capelli acconciati in boccoli ordinati come moda richiedeva, un rossetto ormai sbiadito che doveva aver messo per uscire, e un sobrio vestito grigio da casa.
Non appena lo vide, la sua espressione seccata per essere stata disturbata tanto tardi si accese di sorpresa e, l'istante dopo, preoccupazione.
«Carminiè» lo chiamò, scuotendo incredula il volto tondo come una luna. «Sono mesi che non ti fai vedere! Tutt’appost?»
«Ma’» salutò lui, con una scrollata di spalle. «Devo parlarti di una cosa. Possiamo entrare?»
«Mauretto!» esclamò la donna, ignorando del tutto le richieste di suo figlio. Spalancò le braccia e attese che Mauro si avvicinasse a lei, come sempre, e le stampasse due baci sulle guance. «Che bello vederti, come sei cresciuto!»
Anche lei posò le labbra umide e ancora macchiate di rossetto sul volto di Mauro, che non fece una grinza davanti alle invadenze della donna.
«Possiamo entrare, ma’?» insistette Carmine, a bassa voce per non farsi sentire dai vicini indiscreti.
«Entrate, entrate! Raccontatemi un po', che combinano due giovanotti onesti di questi tempi? Avete già cenato? Io ho mangiato tutto ma posso cucinare qualcosa...»
«Abbiamo già mangiato, tranquilla» rispose, mettendo piede nella casa. Un profumo di limone e potpourri gli entrò nei polmoni, familiare e sgradevole.
Ricordi di mattinate passate a correre in quel corridoio gli attraversarono la mente, la figura di un uomo che si sporgeva verso di lui sorridente, il sapore di cedrata sulla lingua.
Scosse la testa. Non era il momento di lasciarsi andare ai sentimentalismi.
Concetta li fece sedere nel salottino, una stanza in cui Carmine non era mai entrato da bambino se non per infastidire i genitori nei momenti di noia. Era il punto in cui suo padre si metteva a leggere il giornale e sua madre a cucire, mentre lui giocava in camera o in corridoio, leggeva i giornaletti di Ciclone o giocava con le trottole insieme agli amici.
«Ma’, devi ascoltarmi» disse Carmine, una volta che si fu accomodato e affondato nella poltroncina. «Ascolta con molta attenzione quel che ti dirò, va bene?»
«Uh, Signore santo, è successo qualcosa?»
«Non è successo niente, ma potrebbe succedere qualcosa se non fai esattamente quello che ti dirò. È molto importante, capito?»
La donna dovette aver compreso che la questione era seria, per cui si accomodò a sua volta sul divano. «Dici tutto.»
«È per lavoro. Verranno qui persone dall'ufficio, ti chiederanno di confermare che abito qui, in questa casa, e tu dovrai farlo. Dovrai dire che torno poco a casa, solo per dormire, che spesso sono fuori con gli amici. E dovrai dire che alla notte, ogni sera, torno qui. Hai capito?»
«Ma... che storia è questa? Tu non abiti qui da anni, perché mentire?»
«Non posso permettere che vengano a frugare dove abito, a casa mia. Non voglio che si facciano gli affari miei.»
«Ma... ma sarebbe dire il falso all'autorità, è pericoloso, non posso...»
«Non ti succederà niente. È solo un controllo di routine, non approfondiranno tanto. Non sono tra i sospetti, è solo uno... scrupolo.»
«Sospetti? Sospetti di cosa?»
Carmine si maledisse per la scelta di parole. «C'è stato un problemino in ufficio, qualcuno sta commettendo illeciti. Devono capire chi è, quindi vogliono venire a frugare nelle case. Non è niente, te l'ho detto.»
Concetta lo guardò per qualche secondo senza dir nulla. Non gli somigliava tanto, lui era più simile a com'era stato suo padre, ma il taglio degli occhi era lo stesso.
«C'entri qualcosa con questa storia?» chiese a voce bassa, la voce vibrante dall'ansia. «La persona che cercano sei tu?»
Avvertì che Mauro si era teso accanto a lui, desiderò sfiorargli la mano, ma si trattenne. «Ma ti pare?» le chiese, con la faccia tosta che aveva allenato in tanti anni di servizio. «Io sono solo seccato che vengano a cercare proprio me, tra tutte le persone dell'ufficio. Non ho niente da nascondere.»
«Se non hai niente da nascondere perché non vuoi che entrino a casa tua?»
«Sai che sono un tipo riservato» rispose, distogliendo lo sguardo. «Non sopporto che vengano a ficcanasare. Non mi va di stare all'erta...»
Concetta lo stava ancora guardando, lo sguardo di una madre che ha capito che il figlio ha detto una bugia. Il volto di Carmine diceva ‘non fare domande di cui non ti piacerebbe la risposta’, così la donna lo lasciò andare.
«E sia. Se uno dei tuoi verrà qui a chiedermi dove vivi, mentirò.»
Note autrice
Mauro non ha preso molto bene l’arrivo dell’OVRA nell’ufficio di Carmine, minacciando addirittura di abbandonare la causa e andare via. Concetta ha capito che c’è qualcosa sotto e ha iniziato a fare domande scomode, ma Carmine non si è scucito tanto.
Insomma, questa faccenda sta iniziando a non mettersi bene per niente.
Nel prossimo capitolo, conosceremo l’agente dell’OVRA incaricato al caso delle squadre di Carmine. Come sarà? Gli darà del filo da torcere o sarà un gonzo e un problema da nulla?
Lo scoprirete presto!
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