Fuoco

Graziano Rovere si vantava di essere un uomo d'onore, per quanto onore potesse esserci in un fascista.  

A ogni piatto esaltava la cucina di sua madre, la sua confortante presenza da angelo del focolare e il suo essere una donna per bene, come le giovani non riuscivano più a essere, attenta all'ospite e modesta nelle opinioni.

La donna si mostrò lusingata da quei complimenti, ma Carmine sapeva che in realtà era in difficoltà. Dopo l'incursione di suo figlio due notti prima, notte in cui le aveva rivelato che qualcuno stava indagando in centuria, notte in cui le aveva chiesto di fingere per lui, la donna aveva capito che in quella cena senza preavviso c'era qualcosa che non andava.

Dalla morte di suo padre Concetta si era come annullata, si era spenta, e Carmine aveva sempre avuto l'impressione che fosse una donna fragile, su cui non poter fare affidamento.

Quella sera gli provò che si sbagliava. 

Smisero di parlare di lavoro non appena si sedettero a tavola – era scortese parlare di argomenti tanto tediosi in presenza di una donna che non avrebbe potuto comprenderli – e Carmine intavolò una conversazione sul calcio, che vide Rovere molto partecipe e propositivo.

Per tutto il tempo, la presenza della sua ventiquattrore con i bolli rubati continuò a essere ingombrante nella sua mente, un'ombra scura che lo preoccupava, pensiero fisso che non era riuscito a scacciare.

Se solo per qualche motivo Rovere gli avesse chiesto di aprirla davanti a lui...

Non accadde. L'uomo non si trattenne oltre un orario più che consono, anche se per i ragazzi a casa sarebbe stato di certo troppo tardi.

I suoi compagni dovevano essere già a fare le valigie, temendo una fuga di notizie, che l'avessero preso. 

Quando Rovere uscì di casa, Carmine emise un lungo sospiro, abbandonandosi sulla sedia su cui aveva bevuto il digestivo, un'acquavite dal mobiletto di suo padre. 

«Carminié.»

La voce di sua madre, che aveva accompagnato l'ospite alla porta, catturò la sua attenzione. «Ma’, ti prego, non è aria.»

«Devi dirmi che storia è questa.»

«Era solo una cena di lavoro, tutto qui.»

«Cosa mi stai nascondendo?»

Lui abbassò la voce, per non farsi sentire da eventuali orecchie nei paraggi. «Meno sai, più sicuro è per te. Non insistere, ma’.»

La donna, a quanto pareva, non aveva intenzione di rinunciare. «Devo prepararmi a perdere te come ho perso tuo padre? Dimmelo subito, perché io...»

«Mamma!» esclamò, e lei ammutolì. «Starò benissimo. Non è niente di pericoloso.»

«Se mi stai mentendo, merito di saperlo.»

«Ho bisogno solo che tu stia al mio gioco. Se stai al mio gioco, nulla andrà storto. Devi solo ricordarti quello che ti ho detto l'altro giorno, tutto qui.»

«Sai cosa fanno quelli a chi infrange le loro regole.»

«Io sono ‘quelli’, mamma. Ne abbiamo già parlato.»

Non poteva permettersi di scucirsi con sua madre. Lei non doveva sapere nulla, non doveva risultare complice nel caso in cui fosse successo il peggio. Doveva restarne fuori, in ogni modo possibile.

«Credi che io sia stupida?»

Carmine non credeva che sua madre fosse stupida. Credeva che fosse debole, che era una cosa diversa. «No, certo che no.»

«Allora?»

«Ascoltami bene, perché non lo ripeterò un'altra volta. Tu ora andrai a dormire. Io aspetterò che la via sia libera, e poi tornerò a casa. Se qualcuno ti chiederà, io dormo qui ogni notte. Tengo alla mia privacy, non c'è nient'altro.»

«Farai meglio a stare attento» rispose, con un sibilo. «Non ce l'ho un altro vestito buono per il funerale.»

Attese che passasse qualche ora, per essere certo che Rovere non fosse più nei paraggi, poi uscì dal retro. 

Saltò il muretto del giardino posteriore e si ritrovò in una viuzza secondaria. Era tardi, non si vedeva nessuno in giro. Non gli sembrò ci fosse qualcuno di sospetto nei paraggi, ma per precauzione prese una strada diversa dalla solita, per tornare a casa. 

Le vie della città erano desolate, e faceva freschetto a quell'ora della notte. I lampioncini illuminavano la strada di una luce fioca e crepuscolare, e il silenzio era stordente. 

«Coppola» la voce improvvisa lo congelò sul posto e lui si fermò, immobile nella notte lungo la strada deserta. «Passeggiatina notturna?»

Prese un profondo respiro e chiuse gli occhi, poi alzò le mani, intuendo che gli avesse puntato contro la pistola. Si voltò con calma, il più lento possibile, e scoprì che la sua intuizione si era rivelata esatta. 

Graziano Rovere era là, in piedi, lo fissava coi suoi occhi scuri e gentili, troppo gentili per un uomo del genere. Quello che diceva che gli occhi sono lo specchio dell'anima non doveva averlo mai conosciuto. 

«Esatto» rispose, la voce bassa ma ferma. «Faccio solo un giro del quartiere. È vietato, forse?»

«Tu mi credi uno stupido?»

Non si soffermò sull'ironia di quella domanda a tanto poco da quando sua madre gli aveva rivolto la sua. «No, signore.»


«Eppure tutto lascia pensare questo. Hai detto che tua madre, donna adorabile a proposito, era una fumatrice, ma non ho visto sigarette né sentito odore di fumo. Da quando cenavamo a ora, in questo momento, i miei uomini hanno interrogato i vicini. Hanno chiesto loro quanto spesso sei qua in giro a bighellonare e se davvero vivi qui come hai comunicato. Secondo te cosa mi riferiranno i miei quando torneranno da me?»

«Confermeranno la mia versione. Io non dico bugie. Men che meno a uno come voi.»

«Allora vedi che mi credi stupido? Pensi davvero che mi berrò questa storiella? Pensi che il sospetto su di te, l'unica persona con un reale controllo delle operazioni, non fosse la scelta più ovvia?»

«Non so di cosa state parlando.»

Rovere si avvicinò, la pistola gli sfiorò la camicia al centro del petto. «Ora tu mi porterai a casa tua, dove effettueremo delle vere indagini. Ti processeranno, e sarai fucilato. Certo, a meno che tu non abbia informazioni preziose da condividere col partito, si capisce…»

Carmine prese un respiro spezzato. «Gliel'ho detto e lo ripeto. Non ho idea di cosa state parlando.»

«Peccato» commentò l'uomo, con un sorrisino. «Sembravi una persona tanto perbene…»

Una cosa fu chiara, per lui: non l'avrebbe mai condotto al suo appartamento. Certo, era quasi certo che Mauro, Elia e Fabio si fossero già dileguati – gli ordini erano chiari, se lui avesse tardato troppo di ritorno dal lavoro la copertura sarebbe stata da considerarsi saltata, e loro sarebbero dovuti sparire nella notte.

Eppure, non avrebbe potuto rischiare così. L'immagine di Mauro steso a letto, i capelli biondi sparsi sul cuscino, gli occhiali sul comodino e lui inerme, abbandonato al sonno, che rischiava un'irruzione nel cuore della notte gli faceva salire il sangue al cervello. 

Successe tutto in un attimo. Decise che se anche fosse morto non sarebbe stata una grande perdita, tanto lo avrebbero fucilato comunque, così lo fece. Diede uno strattone al braccio che gli puntava la pistola contro e il colpo partì. Il suo cuore si fermò, ma l'attimo dopo si accorse che il proiettile non l'aveva colpito, aveva funzionato. 

Sentì Rovere imprecare, fare resistenza, ma lui fu più veloce. Gli girò la mano che teneva la pistola, partì un altro colpo che si infranse su un balcone, a breve sarebbe uscito qualcuno, e la pistola volò in terra. L’uomo si gettò sul marciapiede a prenderla, Carmine estrasse la sua dalla fondina, tolse la sicura e gliela puntò contro. Vide che Rovere era appena arrivato all’arma, in ginocchio sul marciapiede sporco, e mentre lui si voltava per colpirlo una volta per tutte, premette il grilletto e sparò. 

Il terzo sparo echeggiò nell'aria, assordante e stordente, e una porta, la prima di tante, si spalancò.

«Che succede qui?»

Rovere giaceva sul marciapiede, il cranio aperto come un'anguria, e Carmine iniziò a correre. 

«Aiuto! C'è un uomo a terra! Aiuto! Aiuto!»

Sempre più persone iniziarono a uscire in strada, attratte dagli spari e dalle grida, lui non si girò per controllare che nessuno lo stesse seguendo, o avrebbe rallentato e non se lo poteva permettere. Corse e corse finché i polmoni glielo permisero, il petto in fiamme e le gambe doloranti. Corse per più di metà strada, spinto dall'adrenalina, e quando non ce la fece più non si accasciò in terra stremato, continuò a camminare verso casa, più veloce che poteva.

Quando finalmente arrivò alla via di casa, si guardò intorno un'ultima volta. Era stanco, impaurito e sospettoso, ma nessuno sembrava essere presente, tanto meno fare caso a lui. Infilò la chiave nella toppa ed entrò. 

Non si aspettava qualcuno all'interno, le direttive erano precise. Se lui fosse affondato, gli altri tre sarebbero dovuti sparire,  per evitare di cadere con lui. Se la sua copertura fosse saltata, se qualcosa fosse andato storto, sarebbero dovuti partire prima che qualcuno risalisse al suo indirizzo.

Senza vederlo tornare i suoi compagni dovevano essere svaniti nella notte, partiti a nascondersi dal loro amico che organizzava la resistenza fuori città. 

Invece lo sorpresero.

Non appena aprì la porta, si ritrovò una pistola puntata al petto. 

Elia, con la pistola fornita da Carmine stesso per ogni evenienza, si era appostato alla porta con quella in mano, un'arma che era palese non sapesse usare e non avesse mai imbracciato.

Lui si congelò sul posto, minacciato dalla sua canna. La prima cosa che notò, dopo Elia che lo puntava, fu che in quella stanza c'era una tremenda puzza di fumo, la cucina una camera a gas. 

Sapeva quello che significava. Sul tavolo si trovavano una ventina di sigarette spente e Mauro, dietro Elia a guardia della porta, ne aveva una tra le labbra in quel momento. 

Fabio si lasciò andare a un’imprecazione nella sua lingua, e la pistola si abbassò.

«Cos'è successo? Dove sei stato sino a quest'ora?» furono le parole di Elia, ma Carmine non ebbe modo di registrarle. 

Mauro lo guardava fisso, sembrava in shock, lo vide portare una mano al petto e fare qualche passo indietro, andando ad appoggiarsi al muro.

«Dio» sussurrò, la sigaretta gli sfuggì dalle labbra e cadde per terra, dove Fabio la spense calpestandola col suo stivale da lavoro. «Dio.»

Carmine provò un istinto atroce e viscerale di spostare Elia dal centro della stanza stretta e andare da lui, assicurarsi che stesse bene, rassicurarlo.

Desiderò potergli dire che era tutto a posto, farlo sedere, fargli riprendere colore. 

Non poteva farlo.

«Non c'è tempo per le spiegazioni. Fate le valigie, ve ne andate, stanotte. Adesso.»

Elia annuì, anche Fabio fece un cenno d'assenso e si dileguò, sparendo nella sua stanza. 

Mauro restò immobile, aveva chiuso gli occhi, cercava di controllare il respiro. Sembrava a un passo dall'afflosciarsi su sé stesso, e Carmine si avvicinò a lui a passo svelto, gli diede un buffetto sulla guancia. «Andiamo, avanti. Ho bisogno che ti attivi anche tu. Devi andare via, hai capito? Dovete sparire tutti. Sospettano di me, potrebbero arrivare in qualsiasi momento, qualcuno parlerà e dirà che mi ha visto entrare, risaliranno ai miei movimenti, stanno arrivando.»

Lui aveva riaperto gli occhi e lo guardava stordito, come se non credesse che il compagno era davvero lì, come se nient'altro al mondo fosse più importante che assicurarsi che era vero. 

Carmine gli prese il volto tra le mani, e lui si irrigidì a quel gesto. «Mauro, ascoltami. Ascoltami, prendi lo stretto indispensabile e sali in macchina. Ho ucciso Rovere, sospettano di me, devi andartene subito.»

Mauro sbatté le palpebre, sembrò riprendersi e il suo volto prese colore. «Lo dici... lo dici come se tu non venissi con noi.»

«Io non vengo. Serve qualcuno che faccia sparire tutti i documenti, che elimini le prove, abbiamo troppi nomi e non c'è tempo per voi per pensarci adesso.»

A quelle parole, l'altro fece qualcosa di tanto assurdo che Carmine pensò di aver visto male. Mauro sorrise, un sorriso divertito, e gli occhi gli si illuminarono a quel gesto. «Se credi che ti lascerò qui nelle loro mani sei un pazzo.»

«Lo farai. Lo farai, invece. Forza, vai a prepararti. Stanno arrivando.»

«Io non vado da nessuna parte senza di te.»

Fabio ed Elia spuntarono dalle loro stanze, un borsone per uno con ammucchiati i loro pochi averi. «Buona fortuna col convincerlo» disse quest'ultimo, che afferrò le chiavi della macchina dal tavolo della cucina, tra le cicche di sigaretta e i resti della cena che non avevano ancora sgomberato, impauriti dalla sua assenza.

«Iniziate a salire in macchina» disse, asciutto. «Qui ci penso io. Non partite finché non l'ho mandato fuori.»

«Partite pure» liquidò Mauro. «Io non mi muovo da qui.»

«Andiamo» disse Elia, dando una spintarella a Fabio, che obbedì. «Aspetteremo quanto possiamo, poi partiremo.»

Detto questo, i due sparirono oltre la porta. 

Fu Mauro a rompere il silenzio per primo. «Forza, avanti, tiriamo fuori questi documenti. Li brucerò con l'accendino.»

Le mani di Carmine restarono al suo volto, lo tenevano fermo e lo inchiodavano sul posto, tenendogli gli occhi puntati su di lui. «Io morirò» gli disse, cercando con ogni fibra del suo essere di non far vacillare la sua voce. «Che tu resti o che tu vada, io morirò. Mi fucileranno. Non puoi salvarmi, è troppo tardi. Fai ancora in tempo a salvare te, però. Salvati, ti prego. Io sono perduto comunque. Non puoi più aiutarmi, neanche stando qui. Io voglio che tu vada.»

«Vai tu. Resterò io.»

Carmine scosse la testa. «No. Io posso almeno sperare di portarne qualcuno all'altro mondo con me. Posso rallentarli. La pistola...»

«Dalla a me. La userò io.»

«Non sai neanche come si prende in mano. Hai saltato la leva, darti la pistola avrebbe la stessa utilità di darti lo scolapasta, lo sai.»

Era vero, Mauro era riuscito a saltare la leva obbligatoria per via della sua forte miopia. Non aveva superato i requisiti fisici, ed era riuscito a scamparla. Carmine lo prendeva spesso in giro per questo, diceva che lo rendeva innocente, come un bambino.

«Non costringermi a lasciarti. Non ce la faccio.»

«Io sono un morto che parla. Almeno tu devi andare» gli disse, poi si sporse in avanti e lo baciò. 

Sapore di nicotina gli invase la bocca, non appena la lingua dell'altro si scontrò con la sua. Non riuscì a trovarlo fastidioso in quel momento, sentiva solo il bisogno di averlo vicino, di stringerlo senza lasciarlo più andare, anche se non poteva farlo. 

Le mani di Mauro gli presero i fianchi e lo tirarono a sé, mentre continuava a baciarlo famelico, una furia cieca e sorda, che lo consumava.

Quando il tempo passato fu troppo gli lasciò il volto e si separò da lui, prendendo un'affannosa boccata d'aria. «Devi andare.»

«Vado a prendere le mie cose.»

«Non c'è più tempo. Ti farai prestare vestiti e quello che ti occorre dai compagni. Ora va', prima che sia tardi. Ti prego.»

Mauro chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e li riaprì. Carmine notò che erano lucidi. «Addio.»

Lui fece l'unica cosa che poteva, allora. Gli regalò un ultimo sorriso. «Addio, tesoro.»

«Pensavo che odiassi quel soprannome.»

«Io non odio niente di te. Ora vai.»

Lui si divincolò dalla sua stretta a malincuore, e Carmine lo guardò. Mauro Villa, il giornalista, lo ‘studiato’, l'idealista, il suo raggio di sole personale. La cosa più preziosa, per lui.

Un attimo prima era là, che gli rivolgeva un sorriso bagnato, l'attimo dopo non c'era più. Carmine chiuse gli occhi, cercando di imprimersi quell'immagine nella mente. Quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe visto l'uomo che amava. 

Ascoltò la macchina che partiva, poi riaprì gli occhi. Doveva fare in fretta, non c'era tempo per i sentimentalismi. Rovesciò sul tavolo il contenuto della sua valigetta, poi corse nella sua stanza – la loro stanza, la stanza sua e dell'uomo che non avrebbe rivisto mai più – e recuperò stralci di articoli che Mauro avrebbe dovuto scrivere ma che non avrebbe mai completato, il suo bollettino, non doveva restarne alcuna traccia.

Portò tutto in cucina, non avevano il caminetto, avrebbe usato i fornelli a gas su cui cucinavano. Prese alcuni fogli sparpagliati sul tavolo della cucina, sui resti di cibo, e li gettò sul fuoco. 

Una fiammata bluastra per via dell'inchiostro divampò alta, sfiorando la cappa. Se la casa avesse preso fuoco tanto meglio, avrebbe distrutto qualsiasi prova, meglio se con lui dentro, così non avrebbe rischiato di farsi scucire informazioni. 

Lui conosceva l'identità di Antonio, il ragazzino che faceva le consegne, che sapeva tutti i nomi di tutte le famiglie coinvolte. Non avrebbe potuto rivelarlo in nessun modo, per nessuna ragione.

Ancora peggio, lui conosceva il luogo in cui Cecco si nascondeva, insieme a tutti gli altri. Insieme a Elia, a Fabio, insieme a Mauro. Rivelare loro la posizione avrebbe significato condannarli a morte, terminare tutto il bene che avevano fatto, tradire i compagni. 

Aveva tempo, poteva sempre provare a sparire. Nessuno in ufficio sapeva dove viveva, avrebbero dovuto ricostruire i suoi spostamenti, avrebbero diffuso il suo identikit via radio e via giornale, i suoi vicini l'avrebbero identificato presto, ma forse aveva ancora qualche ora, se nessuno era riuscito a seguirlo dopo l'attentato a Rovere. 

Andò nella stanza di Elia e si liberò di ogni indizio che poteva portare a riconoscerlo, eliminò le copie dei documenti falsi da cui era possibile rintracciare i futuri fuggitivi, e quando terminò l'opera decise che era ora di sparire. Forse sarebbe riuscito ad arrivare a piedi nelle campagne, forse avrebbe rivisto Mauro dopotutto. 

Avrebbe dovuto camminare un giorno intero, forse più, ma poteva farlo. Durante la leva aveva sopportato ben peggio.

Spense il fornello coperto di cenere grigiastra, la casa era un totale disastro, ma non era più importante, non ci avrebbe dormito mai più. Controllò in tutte le stanze di non aver dimenticato nulla di importante, frugò nei doppi fondi dei cassetti e nelle tasche dei calzoni.

Lasciò la sua – loro – stanza per ultima. La osservò con nostalgia, il suo rifugio, il suo luogo sicuro. La rovistò con cura reverenziale, l'armadio coi vestiti, il bagnetto, la cassapanca accanto al letto, persino gli interstizi della finestra che Mauro apriva sempre per nascondere di aver fumato. 

Si avvicinò al lato del letto del compagno, prese il suo cuscino e lo portò al volto, per sentire il suo odore. Lo avrebbe riconosciuto ovunque, in mille anni, lo sapeva a memoria. 

Avrebbe saputo riconoscere la sua giacca tra centinaia di giacche identiche solo dal profumo, ne era certo. 

Inspirò e venne avvolto dai ricordi come da una stretta forte di qualcuno che amava. I litigi, i rappacificamenti, i momenti di relax sul letto mentre ognuno leggeva un libro diverso, le risate, i pianti, ogni volta che uno di loro tornava distrutto dal lavoro e l'altro lo lasciava abbattersi su di lui, una roccia in mezzo al temporale a cui appoggiarsi, che non avrebbe mai ceduto.

Sentì che gli occhi gli diventavano lucidi, ma restò saldo sulle gambe. Gettò il cuscino di nuovo sul letto ed esitò un secondo, un solo attimo, prima di prendere la decisione di uscire da lì e non tornare mai più. Albeggiava ormai, poteva intuirlo attraverso le tende sottili alla finestra, e se fosse riuscito a uscire indisturbato, a dileguarsi per le strade di Cordelli diretto verso i monti, allora forse ce l'avrebbe fatta.

Non ne ebbe modo, e fu chiaro che anche l'idea di usare la pistola per difendersi era stata un’utopia, una disperata menzogna per convincerlo ad andarsene. Sentì la porta principale spalancarsi con uno schianto, e seppe che era finita. Degli uomini, i suoi uomini, irruppero nella stanza e gli puntarono le armi contro. 

«Signore» disse Costa, il più anziano, quello che lo odiava. «Dovete venire con noi.»

Fu trascinato fuori di casa, intorno a loro si iniziava a formare un piccola folla di lavoratori del mattino e persone attratte dal trambusto. Venne caricato in macchina e portato in centrale, dove fu chiuso in una cella con altri traditori del partito.

Tutto fu meno chiaro a quel punto. Tentarono di estorcergli le informazioni in ogni modo possibile.

In quel momento aveva il volto in un bacile pieno d'acqua, gli mancava l'aria, aveva i polmoni in fiamme e la testa leggera. Il suo istinto gli urlava di dibattersi per tornare su, ma sapeva che sarebbe stato un inutile spreco di ossigeno. 

Un uomo dell'OVRA che non conosceva gli teneva la testa sotto, non aveva senso cercare di combattere. Lo avrebbe fatto respirare quando lui desiderava, in nessun altro momento. 

La mano che lo teneva per i capelli lo tirò su, e lui prese una boccata d'aria, famelico. Aveva voglia di vomitare, ansimava, ed era terrorizzato.

«...omi! Mi servono i nomi, hai capito?»

Le sue lacrime invisibili, miste all'acqua che gli impregnava il volto, gli colarono bollenti sulle guance. 

Restò in silenzio, ansimante, a cercare di incamerare più ossigeno possibile prima di venire annegato di nuovo.

«Se ci dirai i nomi ti risparmieremo. Solo qualcuno, qualcuno di grosso. Allora vivrai.»

Sapeva che era una bugia. Sapeva che lo avrebbero ucciso comunque, non poteva più salvarsi. Eppure, il desiderio che quella tortura finisse era tanto allettante quanto tangibile.

«Allora? Sentiamo.»

Fu tentato, allora, di dare il nome di Antonio. Fu tentato di capitolare, di arrendersi, di dare loro quello che volevano.

Emise un gemito di dolore e di stizza, e si ritrovò col volto dentro l'acqua di nuovo. 

Debole e confuso, la razionalità sparì dalla sua mente e diventò un animale. Sì dibatté allora, per uscirne, per tornare a respirare. L'istinto ebbe la meglio e inspirò, acqua gli entrò nei polmoni, così sussultò sulla sedia in preda a una convulsione.

Lo tirarono su, tossì, sputò, ma l'aria non riusciva a entrare. 

«Questo ci muore qui, io te lo dico» disse una voce dietro di lui, non vedeva chi fosse stato a parlare.

«Questo bastardo ha ucciso Graziano, non m'importa se non parla. Continuo a giocare con lui sinché non se la fa nelle mutande, te lo giuro.»

«Non sembra manchi molto.»

Con un rantolo strozzato riuscì a immagazzinare un po' di ossigeno. Vedeva rosso, si sentiva debole, ma più di tutto aveva paura. 

Anche il pensiero dei ragazzi al sicuro, di Mauro al sicuro, non riusciva più a dargli conforto. Era stremato, le forze gli mancavano, e quando lo tiravano su dall'acqua non riuscivano più neanche a tenergli la testa dritta. 

«Fasci di merda» riuscì a gracchiare, perché era ciò che in quel momento pensava.

«Che cosa hai detto?»

«Fasci di merda. Questa guerra la perdete.»

«Io ti ammazzo» sibilò, e l'attimo dopo era in acqua di nuovo.

Fu ore dopo, quando credette di essere morto, quando non capendo più niente per la mancanza di ossigeno e a malapena cosciente lo ributtarono tenendolo di peso nella sua cella, che capirono che non avrebbe detto nulla e lo lasciarono in pace.

Restò a vegetare per un tempo infinito, steso sul pavimento della celletta, a riprendere le forze e respirare più forte che poteva. 

Quando lo trascinarono in giardino era di nuovo saldo sulle gambe. 

Denutrito, non era riuscito a mangiare nulla in quei giorni, riuscì comunque a camminare e a mettersi in riga al suo posto.

Riconobbe Italia, una collega di Mauro, che avrebbe fatto uscire un trafiletto sul giornale.

Ma se succederà... se ti scopriranno, se ti faranno fucilare, io... io non ti perdonerò. Ti odierò per sempre, te lo giuro.

Era questa la cosa più difficile da accettare, le parole che gli aveva rivolto Mauro giorni prima, il sapere che il compagno, dopo tutto quello che avevano passato, lo odiava.

Che non avrebbe pensato a lui con la dolcezza e l'affetto dell'amante, ma col risentimento della persona tradita. 

Il plotone d'esecuzione era voltato, affinché non si guardassero mai in faccia. Lo aspettava una fucilazione di schiena, l'estrema ignominia, per i reati che non meritavano la dignità di guardare la morte negli occhi.

Lo fecero sedere con le spalle alla riga di soldati, poi un uomo gli bendò gli occhi affinché non vedesse. 

Aveva il cuore che gli ruggiva in gola, sentiva il magone, e tutto quello che riusciva a pensare era che a breve tutto sarebbe svanito nel nulla, come il fumo delle sigarette di Mauro. 

Eppure, proprio come il fumo di una sigaretta, forse qualcosa sarebbe rimasto. Sedimentato in lui, nei polmoni dell'uomo che amava, a intossicare il compagno proprio come la sua fonte preferita di nicotina.

«Plotone, attenti!»

Ti odierò per sempre, te lo giuro.

«Caricare!»

Non ce l'ho un vestito buono per il funerale

«Puntare!»

Sai perché ti chiamo ‘tesoro’?

«Fuoco!»

*

Cara mamma,

Scusami. So che mi avevi detto di non avere un altro vestito buono per il funerale.

Non so se me lo faranno, il funerale. Forse no. Non so neanche se lo voglio. 

Che senso ha credere in qualcosa che va oltre questa terra, visto il mondo in cui siamo?

Che senso ha sperare in un ‘oltre’, in un ‘altrove’?

Se ci fosse qualcuno ad attenderci lassù, quaggiù non succederebbe niente di tutto questo.

Perdonami, mamma. Perdonami perché non ci rincontreremo più. Perdonami perché non avrai consolazione da me, non avrai nessun ‘arrivederci’ a quando anche tu, spero il più tardi possibile, ti unirai alle fila di quelli che non ci sono più.

Perdonami per aver accolto i tuoi insegnamenti, perdonami per aver fatto qualcosa di buono. Perché è per questo che muoio. Muoio per aver fatto qualcosa di buono.

Non ti disturbare a comprare un vestito buono. Quando sarò andato, non sarò lì a guardarti accompagnare il feretro sino alla sua discesa nella terra. 

Quello che mi preme qui, adesso, che son vivo, è che non ti lascino sola. Quello che mi preme qui, adesso, forse troppo tardi, è che non ti trasformi in un involucro vuoto.

So che sei arrabbiata. Forse hai ragione a esserlo, siamo tutti un po' egoisti in fondo. 

Mi dispiace.

Mi dispiace e ricordati sempre che, anche se questo non cambierà niente, ti ho amata tanto. So che non sembrava, non lo sapevo neanche io, ma era così. Ora lo vedo, tu sei più di quello che ho sempre creduto, eppure ti amavo nonostante pensassi meno di te rispetto a ciò che sei.

E non amo solo te. Amo i compagni, amo questo paese, amo il mio amore, anche se non gliel’ho mai detto.

Se hai capito, se un giorno tutto questo sarà finito e uscirà mai allo scoperto, spero che glielo dirai. Al mio amore che si merita di sapere che l'amavo.

Chissà se ti arriverà questa lettera. Mi hanno detto che te la faranno avere. Io ci provo, ma’, ci provo e ti ripeto che ti amo.

Tuo figlio,
Carmine.

Note autrice
Beh, che dire?
Direi ‘lol’ ma poi vi viene voglia di menarmi e quindi non lo dico.
Lascio la parola a voi, va’, che è meglio.
Ci vediamo con l’epilogo venerdì, vi lascio ipotizzare cosa contiene.
Rimando i saluti alla prossima, a presto.

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