3. Seconda vita

L'agente Carmo ferma l'auto nel mezzo del vicolo, in corrispondenza della porta dell'edificio di proprietà della chiesa. Ci sono diverse macchine in coda dietro di noi, eppure lei sembra non avere fretta. Ha gli occhi piantati nei miei quando sbraita, severa: «Sii puntuale mercoledì e vestiti in modo decente. Verrò a prenderti io.»

Non so quando abbiamo cominciato a darci del "tu", so solo che a un certo punto è successo. Stamattina la Madre Superiora, vedendomi dopo quasi un mese di assenza e in compagnia di un'agente di polizia, ha pensato bene di sottopormi a un'infinità di domande. È stato allora che la Carmo è intervenuta per rispondere al posto mio e mettere fine all'indiscreto terzo grado. In Commissariato ha appoggiato una mano sulla mia spalla e mi ha incoraggiata a continuare quando le domande di un collega si sono fatte più dure e insistenti. La maschera arcigna sul suo viso è scomparsa quando ha insistito per accompagnarmi dalla stazione di polizia all'ospedale, dove ha aspettato mezz'ora che finissi di firmare una pila di scartoffie alta più o meno cinquanta centimetri. E mi ha concesso persino un breve sorriso quando ho acconsentito che dall'ospedale mi scortasse di nuovo fin qui.

Io ho gli occhi che bruciano e non parlo perché temo che se lo facessi mi metterei a piangere. Testimoniare senza il sostegno della dottoressa bionda è stato molto più difficile del previsto. Ho colto una scintilla di scetticismo nelle domande del poliziotto che ha preso la deposizione della denuncia e questo mi ha ferita, ma non mi ha impedito di andare fino in fondo.

Un colpo di clacson mi riporta bruscamente alla realtà. Scendo in fretta dalla macchina, e quando mi volto per chiudere lo sportello, la Carmo tira fuori un biglietto dalla tasca anteriore dell'uniforme e me lo porge. «Tieni, qui c'è il mio numero. Se dovessi avere problemi, chiamami.»

«Non ho un telefono.»

«Compralo», sta dicendo lei, quando un altro colpo di clacson la interrompe. Lei inala a fondo. In queste ore ho imparato a conoscerla abbastanza da capire che sta perdendo la pazienza. La osservo aprire lo sportello, scendere e camminare adagio verso la Seat rossa, da cui provengono ancora ritmici e assordanti colpi di clacson. Non posso sentire lo scambio di battute tra lei e il conducente, ma la strada diventa di colpo silenziosa. La poliziotta torna indietro; sul volto non traspare alcuna emozione, ma io riconosco una leggera smorfia di soddisfazione che le incurva le labbra.

«Chiamami», dice entrando in macchina. «E trovati un lavoro». Mette in moto. «E pure un posto decente dove stare». Ingrana la marcia e parte. «Ascolta la dottoressa e non fare altre cavolate!»

Resto a fissare l'auto della polizia che si allontana con uno strano misto di emozioni nel petto. Il conducente della Seat, un ragazzo più giovane di me, passandomi davanti mi lancia un'occhiataccia che io ricambio con piacere, e sfila via lungo la strada acciottolata, seguito da altre quattro auto in coda.

La porta del convento è aperta, ma non ho alcuna voglia di entrare. È troppo presto e rischierei di incontrare qualcun altro rientrando in camera adesso. I cerotti sui polsi hanno attirato parecchio l'attenzione questa mattina, e non sono dell'umore per rispondere all'ennesimo interrogatorio di oggi. Così volto le spalle alla chiesa e lascio che sia l'istinto a decidere dove portarmi.

È una strana sensazione sentire i ciottoli della strada sotto i piedi dopo giorni passati ad aggirarmi in ciabatte per i corridoi dell'ospedale. Gli occhi si riempiono dei colori vivaci dei palazzi, i polmoni reclamano aria nei vicoli in salita e le ginocchia protestano nelle altrettanto ripide discese che seguono. Sbuco nella strada principale che costeggia il porto e l'odore di cibo che fiuto mi fa brontolare lo stomaco, ricordandomi che oggi ho saltato il pranzo. La città è caotica, piena di gente, di traffico, brulicante di energia.

Arrivo nel posto dove tutto è cominciato senza quasi accorgermene. Il molo Gás, alle spalle del porto, è deserto come tutti i giorni a quest'ora. Per circa due settimane sono venuta qui tutti i pomeriggi con una lametta nella tasca, pronta a togliermi la vita, a lasciarmi morire dissanguata in questo posto sporco e desolato. Ho faticato molto a trovare il coraggio di farlo, e perché l'abbia fatto proprio quel giorno di quasi un mese fa, resta un mistero. Forse perché dovevo essere trovata, dovevo vivere. Devo vivere.

Mi siedo sul cemento, con le gambe che penzolano nel vuoto e le scarpe a pochi centimetri dalle acque del rio*. Chiudo gli occhi e respiro a pieni polmoni. Un brivido mi percorre la schiena quando realizzo di non essere mai stata tanto libera in vita mia. Ho desiderato così ardentemente questa libertà che adesso mi terrorizza e mi esalta allo stesso tempo. Mi fa sentire uguale ma diversa. E capisco anche perché sono tornata in questo posto: voglio iniziare la mia seconda vita qui, dove ho ucciso la prima.

Alzo le palpebre e guardo il punto in cui sono entrata in acqua con uno strano senso di distacco. Una parte di me è davvero morta quel giorno, ed è un vero miracolo che io sia qui oggi a dirle addio. Lascio il Tago a custodirla e mi alzo per andare via.

Una malsana idea si fa strada nella testa, e ho tutta l'intenzione di assecondarla. Percorro a ritroso la strada, supero un botteghino piuttosto frequentato e mi dirigo verso il porto. La luce gialla del tramonto filtra in maniera teatrale nella struttura di ferro del ponte sullo sfondo. Nella mia vita passata questo sarebbe stato un momento perfetto per fermarmi, posare il pennello su un foglio e dimenticarmi della realtà, ma quella non sono più io. Scaccio questo desiderio proibito dalla mente e proseguo. Il sole è scomparso da poco oltre la linea dell'orizzonte. Vederlo tramontare qui deve essere uno spettacolo magnifico, lo intuisco perché la banchina è sovraffollata. Il brusio della gente, le sirene delle navi in lontananza e i ritmici bip dei carrelli elevatori riempiono l'aria di suoni stridenti.

Individuo quello che sto cercando in prossimità dello sbarramento che divide la zona turistica da quella commerciale del porto. La casetta del guardiano è piccola, di un grigio scolorito tendente all'azzurro. Sbircio all'interno attraverso il vetro consunto e distinguo solo la sagoma di un uomo. Busso alla porta con tanta energia da farmi dolere le nocche e dichiaro: «Boa tarde6, signore! Può darmi un'informazione?» L'uomo non si accorge né che io abbia bussato, né che io abbia parlato. Busso ancora. «Oi*!» Nulla.

Spalanco la porta e per poco l'uomo non cade dalla sedia. Ha i piedi incrociati e poggiati su un tavolino, accanto alla più piccola televisione che io abbia mai visto. Non mi sentiva perché il volume della partita è così alto da coprire persino le sue imprecazioni. L'uomo poggia i piedi a terra e si piega con difficoltà sull'enorme pancione per girare la manopola del volume. «Ragazza, cosa vuoi?»

Non so come esordire, così vado dritta al punto. «Vorrei sapere dove posso trovare l'imbarcazione di Louis Bernard.»

Lui mi guarda perplesso, come se gli avessi appena chiesto la strada per andare all'inferno. «Stai cercando Bernard

«Sim*, lui.»

L'omone si gratta la zazzera di riccioli neri che ha in testa e butta l'occhio su un orologio appeso alla parete. «Sei arrivata tardi, sono salpati da almeno un'ora.»

Salpati? Su quella barca c'è più di una persona, allora. «Lui e l'altro... Com'è che si chiama?»

«Il ragazzo? Felipe, si chiama.»

«Ah già, lui. E saprebbe dirmi quando ritornano?»

«Domattina, no? Poco dopo l'alba», risponde lui, come fosse la cosa più ovvia del mondo.

«Grazie, arrivederci!»

Prima di finire la frase mi sono già tuffata nel caos del porto, ma il tramestio alle mie spalle mi fa pensare che lui si sia alzato per seguirmi. Pochi secondi dopo, infatti, lo sento urlare: «Hey, aspetta! Sei sua nipote?»

«Não*», urlo di rimando, senza nemmeno voltarmi. «Impiccione.»


⚓︎


È passato quasi un mese dal giorno in cui hanno soccorso quella sconosciuta, eppure ogni volta che la Louisa transita davanti al molo Gás, Felipe non riesce a fare a meno di pensare a ciò che è successo. Prima o poi metterà da parte il bisogno di controllare che lei non sia lì e, con un po' di fortuna, si scrollerà di dosso anche i ricordi che il salvataggio della ragazza ha portato a galla. È solo questione di tempo. Scuote la testa e volge lo sguardo verso lo spettacolo prodotto dal mix letale di Louis, alcol e mare. Non appena la Louisa tocca la banchina, il vecchio crolla, sbronzo marcio, sulla sua sedia di plastica grigia e si addormenta. Non un attimo prima, né quello dopo. Certo è che Louis non sbaglia mai un attracco e raramente resta sveglio abbastanza per assicurarsi che Felipe completi l'ormeggio.

Il ragazzo si è sempre chiesto come sia possibile dormire su quella sedia. È una comune sedia da giardino (che un tempo dev'essere stata bianca), ed è un oggetto davvero curioso da trovare a bordo di un peschereccio. Per sbaglio una volta – una delle prime volte che è uscito per mare – ci si è seduto sopra, e c'è mancato poco che Louis lo buttasse in acqua per aver commesso un simile affronto. A giudicare dall'espressione estatica stampata sulla faccia del pescatore, si potrebbe pensare che quella sedia sia comoda tanto quanto una poltrona. Invece non è altro che un pezzo di plastica malconcio, finito lì per chissà quale caso del destino.

Il suono di una sirena lo fa trasalire, gli ricorda che ha ancora del lavoro da fare. Scaricare il pescato è compito suo. Trasporta cassa dopo cassa a terra in un caldo insolito per un mattino di metà ottobre e, quando ha finito, gronda di sudore. Consegna le casse e i documenti di accompagnamento all'inserviente, si siede su un pilone di cemento e lo guarda andare via sul muletto, tracannando un'intera bottiglietta d'acqua fresca. Ha il sole negli occhi, ma riconosce la massiccia sagoma di Hugo, il guardiano del porto, che viene verso di lui. «Ragazzo! È tutta la mattina che vi cerco.»

«Oi*, Hugo. Sai che siamo sempre gli ultimi a rientrare.»

«Lo so, ma c'è qualcuno che chiede di voi. Una ragazza rossiccia, carina. Un tipetto piuttosto insistente. Chi diavolo è? Hey, aspetta!» strilla lui, ma Felipe se lo è già lasciato alle spalle.

Percorre a passo di marcia la banchina, agitato come non mai. Si ferma solo quando la vede e la riconosce all'istante, anche se è diversa da come la ricorda: i capelli sono più chiari, di un singolare tono di castano ramato, e sembra più bassa ora che è in piedi. I loro sguardi si incrociano e, dopo una leggera esitazione, lei copre la distanza che li separa e si ferma a pochi passi da lui.

«Sei tu Felipe?»

«Sim*», risponde lui esitante.

La ragazza lo guarda per un lungo istante, con degli occhi di un colore particolare che a Felipe ricorda l'ambra. Poi alza la mano e gli tira uno schiaffo potente e preciso sulla guancia sinistra. «Questo è per avermi salvata.»


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Dizionario di portoghese:

*Boa tarde = Buon pomeriggio

*Rio = Fiume

*Oi = Ciao

*Sim = Sì

*Não = No

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