2. Sono solo parole

**Attenzione il seguente capitolo contiene scene forti e contenuti espliciti che potrebbero disturbare i lettori più sensibili**

Ho avuto il mio primo attacco di panico il nove agosto di cinque anni fa, lo ricordo bene. Mio padre ha sempre pensato che essere un buon genitore si riducesse al rispetto della disciplina, disciplina fondata sui propri bigotti e insensati canoni. E io credo di essere stata indisciplinata quel giorno. Lavavo i piatti ascoltando della musica ad alto volume e dissi a mia sorella di venire in cucina per aiutarmi a riordinare con un tono di voce troppo stizzito per i suoi gusti. Erano settimane che ce l'aveva con me. Avevo avuto l'ardire di uscire di casa per incontrare un ragazzo. All'infantile età di sedici anni, in un luogo poco rispettabile come la piazza principale del paese. Si potrebbe pensare che chiamare la propria figlia puta*, mentre con una mano la schiaffeggi e con l'altra le stringi la gola, sarebbe potuta essere una punizione sufficiente. A lui, però, non era bastato.

Il pomeriggio del nove agosto mia madre era a lavoro, e noi tre – io, mia sorella e lui – eravamo soli in casa. Bastarono poche, piccole obiezioni a:"Non rispondere a tuo padre", e a: "A cosa serve la musica quando lavi i piatti?" a scatenare la sua furia. Mi prese per la gola con entrambe le mani e cominciò a stringere. Io, però, quel giorno mi sentivo diversa: animata da una scintilla di ribellione tipica dell'adolescenza, gli riversai addosso tutto il mio risentimento, come non ero mai stata capace di fare prima. Non ricordo cosa gli dissi di preciso, ma ricordo gli schiaffi che ricevetti e l'espressione sconvolta di mia sorella. Aveva undici anni e fu costretta a guardare nostro padre che mi fratturava il braccio contro il lavandino. Nell'istante in cui sentii l'osso che si spezzava, i miei occhi ricaddero su di lei, e mi dissi che in fondo era solo colpa mia. Io avevo costretto la mia sorellina ad assistere a quella scena pietosa e capii che tutto ciò era troppo, che non sarei riuscita a sopportarlo. Il panico crebbe a dismisura dentro di me, e i battiti del cuore divennero troppo rapidi, tanto che facevo fatica a lasciare entrare l'aria per respirare.

È una sensazione così vivida che sembra io la stia vivendo proprio adesso.

Le mani cominciarono a tremare, incontrollabili, e le gambe a farsi molli.

Ma è un ricordo o la realtà?

La testa girava e girava, il campo visivo si riempì di tanti piccoli puntini bianchi. Mi sembra di vederli, quei puntini, spiccano maggiormente perché ciò che vedo è solo nero. Vedo tutto nero. Ho le mani fredde e intorpidite e non riesco a muoverle, né tantomeno ad aprire gli occhi.

Devo sforzarmi, devo farlo.

Alzo una palpebra alla volta.

Il bagliore bianco che si scontra con le retine mi acceca. Riesco a malapena a respirare.

Una cosa, una sola cosa acuisce di più il panico che provo: la consapevolezza di essere ancora viva.


⚓︎


È stato difficile dire ai dottori perché ho fatto ciò che ho fatto. Le medicine che avevo in circolo mi annebbiavano la mente, non mi facevano pensare con lucidità, e mi ci è voluta una settimana per convincere la dottoressa bionda che dovevo essere in me per spiegare. Devo ammettere che la scelta di non fornire le generalità non ha giocato esattamente a mio favore, ma per fortuna nemmeno la polizia è riuscita a scoprire chi fossi. Non volevo rischiare che l'ospedale contattasse casa mia... O meglio, quella che è stata casa mia.

La dottoressa Neves, la bionda, potrebbe sembrare altezzosa, ma sotto il trucco, le labbra rifatte e le scarpe firmate si è rivelata essere una vera professionista. Si è fidata di me, interrompendo la somministrazione dei tranquillanti, e io mi sono affidata a lei e le ho raccontato ogni cosa.

Lo scorso venerdì è rimasta nella stanza ad ascoltare la mia storia fino a notte fonda, senza badare alle lacrime, alla voce rotta, ai singhiozzi, alle lunghe pause. Ha aspettato che finissi di raccontare senza mettermi alcuna fretta. Mi ha convinta a prendere qualcosa per dormire e la mattina dopo lei era ancora qui, scarmigliata e mezza addormentata nel letto accanto al mio. E le domande che mi ha rivolto sono state delicate ma implacabili.

Da quanto tempo mi picchiava? Da quando ne ho memoria. Con che frequenza? Spesso, quando era arrabbiato anche tutti i giorni. Mi ha mai lasciato cicatrici o ossa rotte all'infuori dell'ultimo episodio? Sì, diverse. Ha mai picchiato mia madre o mia sorella davanti a me? Raramente, con loro erano più che altro urla. Mia madre sapeva dei suoi abusi? Certo. Quindi la ritengo una complice? Non lo so. Lei non mi ha mai fatto del male, ma non mi ha mai protetta. Credo che mia sorella sia in pericolo? Se mio padre non può sfogarsi con me, è probabile che lo faccia con lei. Mio padre ha problemi di alcol o droga? A volte esagera con l'alcol. È un giocatore d'azzardo? Sì. Mi ha mai costretta a fare cose che non volevo fare? Controllava la mia vita, non avevo privacy o libertà. Ha mai abusato sessualmente di me? Almeno quello non l'ha mai fatto. Il bambino non era suo, allora? No.

È stato orribile rispondere, e ancora più orribili sono state le visite con gli altri medici. I segni dell'ultima aggressione sono quasi scomparsi, solo sulla gola e all'altezza delle costole ci sono alcuni ematomi ancora visibili. Le fratture da trauma che ho collezionato negli anni, invece, sono lì, indelebili. All'omero, alle costole, alle dita, al polso.

La dottoressa bionda non mi ha lasciata un attimo da sola. È rimasta seduta accanto al lettino quando l'ortopedico mi ha visitata, ha sostenuto il mio sguardo attraverso il vetro della sala delle radiografie, e mi ha tenuto la mano nell'ultima visita, quella che temevo di più.

Il feto nella mia pancia aveva tra le nove e le undici settimane quando i calci di suo nonno l'hanno strappato alla vita prima ancora che potesse nascere. L'aborto è avvenuto circa quaranta giorni fa, ma io sono giovane, l'utero sta lentamente guarendo, e gli ormoni sono quasi rientrati nella norma, ha detto il ginecologo.

Quella è stata una giornata difficile; ha riportato a galla un dolore vivo, intenso, che ha minacciato di spezzarmi di nuovo. A malapena mi sono accorta che il mio corpo si è mosso verso la stanza, guidato dalla mano calda della dottoressa Neves sulla spalla. Sono stata davvero tentata di cedere all'invito di prendere gli psicofarmaci, ma ho capito che sarebbe stato inutile perdermi ancora nell'oblio. Così sono rimasta stesa a letto per un giorno intero senza dire una parola, senza mangiare, senza muovermi, quasi. Ho deciso di affrontarlo, quel dolore, perché ho realizzato che se non avessi ceduto in quel momento ad altri gesti sconsiderati, non l'avrei fatto mai più.

La Neves l'ha capito, e ha lasciato che facessi i conti con la mia sofferenza per diversi giorni, prima di tornare all'attacco. Stavo appena un po' meglio, quando è venuta ad affrontarmi, dicendomi per filo e per segno quello che avrei dovuto fare.

Non volevo, all'inizio.

Per giorni ho rifiutato persino l'idea di fare una cosa simile alla mia famiglia. La frase "è pur sempre mio padre" mi echeggiava di continuo nella mente, attanagliandomi lo stomaco con uno schiacciante senso di colpa. Sono stata rannicchiata a letto a fissare il Tago dalla finestra per giorni, e poi, all'improvviso, ho capito. Non avrei mai più voluto che quell'uomo si avvicinasse a me un'altra volta. L'ho dovuto fare per me stessa, ma soprattutto per mettere al sicuro mia sorella.

La parte più difficile è stata parlare con la polizia. La paura, la vergogna e il senso di colpa hanno minacciato di frenarmi in ogni momento, ma alla fine l'ho fatto. La poliziotta che mi hanno messo davanti ieri aveva il viso arcigno e i modi bruschi. Si è stizzita quando mi sono rifiutata di dirle il mio nome, però ha ascoltato tutto ciò che le ho detto guardandomi negli occhi. Solo quando ho finito ha aperto un taccuino e con una Montblanc nera ha intrappolato la storia che le ho raccontato sulla carta. Non ha smesso di scrivere per diversi minuti, poi ha sventolato la mano sinistra e, senza parlare, mi ha fatto capire che il colloquio era finito.

Stamattina mi hanno comunicato che la polizia verrà qui per vedermi. Mi hanno anche portato dei vestiti veri, e io li ho indossati senza pensarci due volte, anche se il jeans è un po' stretto e la maglia è troppo grande per me. L'orologio ha appena suonato le dieci, e io sono seduta sul davanzale della finestra a fissare i raggi del sole che illuminano i tetti della città. Un familiare picchiettio alla porta mi fa voltare appena in tempo per vedere la dottoressa bionda fare capolino nella stanza. Non indossa il camice ed è strano vederla senza.

«Cara, bom dia*». Mi rivolge un sorriso, che tira le labbra tinte di rosso scuro, e attraversa la stanza per venire a sedersi sul davanzale accanto a me. «Oggi sarai dimessa, se lo vorrai», annuncia.

Io resto di sasso e provo a mettere insieme una risposta. «Certo che voglio.»

La dottoressa aggiunge: «Sai che per essere dimessa dovrai dire all'ospedale e alla polizia chi sei?»

«Che succederà quando lo farò?»

«Sei maggiorenne?»

«Sim*, ho quasi ventuno anni.»

«Allora non succederà nulla, come ti ho già detto.»

E se lui mi trovasse? La dottoressa mi guarda come se mi avesse letto nel pensiero. «Cara, la polizia fisserà una data per l'udienza il prima possibile, non appena riuscirà a risalire al nome di tuo padre e, naturalmente, al tuo. Avrai un ordine restrittivo tra le mani in pochissimi giorni. Se sei maggiorenne come dici, non avrai nulla da temere.»

«Lo è.»

Mi volto. La poliziotta arcigna è appoggiata allo stipite della porta. È alta e slanciata, e la divisa le dona un aspetto autoritario che su di lei calza alla perfezione. «Âmbar Gomez Costa, dico bene?»

«Come...»

«Sua madre. Ieri ha denunciato la sua scomparsa al commissariato della cittadina di Alcains. Da quanti giorni manca da casa?»

«Da circa un mese.»

La poliziotta, penna alla mano, apre il taccuino e mi guarda. «Circa non esiste. Voglio un numero preciso.»

«Quaranta giorni, oggi compreso.»

«Biglietti, ricevute di viaggio e di alloggio, ne ha? Mi serve anche il suo documento. Se lo ha buttato via deve venire in Municipio con me a rifarlo.»

«Ho tutto, ma non qui.»

«E dove?»

Merda. «In una chiesa.»

Il viso della poliziotta assume un'espressione che lascia intendere che io stia tirando troppo la corda. «Quale chiesa?»

Abbasso lo sguardo. La voce mi esce dalla bocca poco più alta di un mormorio, e sono certa che il mio volto abbia assunto una sfumatura di rosso molto simile al colore dei miei capelli. «Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni.»

Sento gli sguardi delle due donne trapassarmi la fronte. «Appropriato... La aspetto all'ingresso.»

Trovo il coraggio di alzare gli occhi sulla Neves solo quando il rumore dei passi dell'agente si confonde con il vociare che proviene dal corridoio.

«Âmbar, finalmente conosco il tuo bellissimo nome.»

Io cerco di piegare le labbra in un sorriso, ma credo sia venuto fuori qualcosa di più simile a una smorfia. «Grazie, dottoressa Neves.»

«Non voglio rivederti in un letto di questi mai più. Intesi?» Mi porge con le unghie laccate di rosso dei fogli che ha in mano da quando è entrata. «Questi sono i documenti delle tue dimissioni. Firmandoli dichiari che ti presenterai ai nostri incontri per tre mesi. L'indirizzo del mio studio è scritto in questo bigliettino: tienilo. Non potrai mancare, le sedute sono obbligatorie.»

«Non mancherò», le assicuro. Firmo, e le consegno di nuovo i fogli.

«E ora vai. Che aspetti?!»

Un sorriso vero affiora sulle mie labbra e, senza rendermene conto, mi lancio su di lei e l'abbraccio stretta.


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Dizionario di portoghese:

*Puta = Put*ana

*Bom dia = Buongiorno

*Sim = Sì

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