17. L'uomo con la cicatrice

Un'auto che accosta sul marciapiede di fronte alla vetrata del bar mi fa alzare lo sguardo dalla tazza di caffè che tengo tra le mani. Ho sperato si trattasse della macchina della polizia, ma non è così. La delusione mi torce lo stomaco e provoca un'ondata di nausea, acutizzata dall'odore dolciastro che aleggia nel locale. Sto per abbassare gli occhi, ma indugiare una frazione di secondo di troppo mi fa di riconoscere chi è appena scesa dalla vettura.

La sedia struscia sul pavimento quando scatto in piedi, e il rumore fa sobbalzare il barista, che alza la testa dal cellulare, allarmato. Le sue sopracciglia si aggrottano sempre più mentre mi osserva attraversare il locale in poche falcate, arrivare alla porta e tornare indietro, verso di lui, per pagarlo quel caffè che ho lasciato sul tavolino ancora intatto. Rovisto nello zaino e tiro fuori una moneta, che mi sfugge di mano e rimbalza più volte sul legno del bancone prima che lui la raccolga, lanciandomi un'occhiata sospettosa. Raccatto in fretta il resto e convinco le gambe a muoversi verso l'uscita.

Il telefono comincia a squillare nell'istante esatto in cui apro la porta, e Teresa si volta, attirata della suoneria. Indossa un paio di occhiali da vista neri e quadrati che non le avevo mai visto su prima. È diversa ora che ha i capelli sciolti sulle spalle e non acconciati in quella stretta crocchia, che indossa al pari della divisa. Un leggero tocco di trucco sul viso e l'elegante vestito che indossa la fanno sembrare un'altra persona, ma non ho modo di dirle che la trovo molto bella. Continuo a guardarmi intorno con gli occhi sgranati dalla paura e il cuore che martella contro le costole.

«Sali in macchina», ordina, e io eseguo senza fiatare. Non appena scatta il semaforo verde, Teresa dà gas, distanziando le altre macchine in coda, e per diversi minuti restiamo in silenzio. Ogni tanto scruta con nervosismo lo specchietto retrovisore, ma quando ci lasciamo il quartiere alle spalle si rilassa abbastanza da dedicarmi la sua attenzione. «Raccontami che è successo. Comincia dall'inizio e dimmi tutto. Da dove sei partita, a dove ti sei fermata, le persone che hai incontrato... Cerca di ricordare più particolari possibili.»

Inalo una lunga boccata d'aria e inizio a raccontare, provando a controllare il tremito nella voce. «Oggi sono andata a vedere una stanza in affitto. Ti ho detto che venerdì mi hanno cacciata dal convento e ho bisogno di una nuova sistemazione». Lei annuisce, e io continuo: «La casa dista solo pochi minuti dall'appartamento di Ileana, così ho deciso di andarci a piedi. Sono uscita dal palazzo, e sulle panchine lì davanti c'era questo signore con un giornale in mano. Lo ricordo per via dello strano cappello a tesa larga che aveva indosso. Poi...»

«A che ora sei uscita?» m'interrompe Teresa.

«Intorno alle dieci.»

«È questo l'uomo di cui mi hai parlato a telefono?» Annuisco, e lei insiste ancora: «Ricordi qualche particolare in più di quel momento? Un cappello è un po' poco.»

L'immagine di stamattina fluttua, nitida come una fotografia, davanti ai miei occhi. «Il giornale gli copriva il viso e la parte superiore del corpo. Mi ricordo solo il soprabito nero, appoggiato accanto a lui sulla panchina.»

Teresa frena bruscamente, fermandosi appena prima di bruciare un semaforo rosso. Le iridi scure si posano sul mio volto e lo studiano come se lo stessero guardando per la prima volta. «Meglio di nulla. Alle dieci sei uscita di casa e ti sei diretta all'appartamento. Continua da qui.»

«In un quarto d'ora sono arrivata alla fermata São Sebastião della metro. Lì ho incontrato la signora Flores, la proprietaria, e insieme a lei ho visitato l'appartamento per circa mezz'ora. Quando siamo scese di nuovo in strada ho riconosciuto subito lo strano cappello dell'uomo tra la folla. Camminava con il cellulare all'orecchio, e ho pensato che si trattasse solo di una coincidenza. Dopotutto, è plausibile rivedere la stessa persona nel giro di poco tempo, nello stesso quartiere, no? Lui lì sembrava solo di passaggio.»

«Sei sicura che fosse lo stesso uomo?»

Annuisco, convinta. «Sicurissima. Aveva il soprabito nero appoggiato al braccio e il giornale in mano.»

«E il suo viso? L'hai visto?»

«No. Non abbastanza bene da memorizzarne i particolari, almeno. Ricordo solo di aver notato che avesse la barba corta e scura.»

Teresa resta in silenzio, la mascella all'infuori e gli occhi stretti. Il mio sguardo, invece, corre fuori dal finestrino. Ci troviamo in una parte della città dove non sono mai stata. Palazzi colorati rivestiti di azulejos* mi sfilano davanti agli occhi, ma io non riesco a dedicargli l'attenzione che meritano. Pensieri cupi si insinuano nella mia testa e sussurrano paure sconosciute, fino a quando la voce di Teresa rompe il maleficio e mi fa tornare alla realtà. «Quando sei uscita dall'appartamento a São Sebastião eri sola? Continua da qui.»

«No, la signora Flores era ancora con me. Abbiamo preso un pastel de nata* in un bar poco distante dalla casa e ci siamo salutate alle undici e venti. Lo ricordo perché ho controllato l'ora e mi sono accorta di essere in ritardo per l'appuntamento con la dottoressa Neves. Dalle dodici alle tredici sono stata in terapia e dopo ho deciso di prendere il bus per tornare a casa di Ileana. Nel tragitto verso la fermata ero ancora scossa per la seduta e non ho prestato attenzione a chi avevo intorno», ammetto, prima che lei me lo chieda. «Sono salita sul bus dalla porta sul fondo e ho visto l'uomo entrare da quella centrale. I nostri sguardi si sono incrociati per pochi secondi, poi lui si è seduto, dandomi le spalle. Mi sono ricordata subito di lui perché l'avevo già visto». Inalo lunghi respiri, ma espirare non mi provoca alcun sollievo; la fame d'aria che sento è dettata da un panico che mi stringe la gola e fa uscire strozzata la voce quando proseguo. «Sabato sono andata con Ileana e Viviane al Bairro Alto a fare compere. Uscendo da un negozio, un tizio è venuto a sbattermi contro. Quel giorno non indossava il cappello, ma mi è rimasta impressa la cicatrice sull'occhio sinistro, la stessa dell'uomo col cappello di oggi. Era lui, Teresa. Era lui.»

L'auto imbocca una stradina acciottolata in salita, che fa vibrare il sedile sotto le gambe. «L'hai visto sabato della scorsa settimana e oggi, ma l'avevi mai visto prima? Ad Alcains o nella tua vecchia università? Pensaci bene, Âmbar.»

Scuoto la testa. «Sono certa di non averlo mai visto prima di adesso. Me ne ricorderei di sicuro.»

«E cos'hai fatto poco fa, quando l'hai riconosciuto?»

«Poco prima che le porte si chiudessero sono scesa dal bus e ti ho chiamata. E sono entrata nel primo bar che ho trovato, come tu mi hai detto di fare.»

C'è un posto libero tra i cassonetti e le strisce pedonali; Teresa lo nota all'ultimo e fa una manovra parecchio discutibile per infilarcisi dentro. Spegne il motore e si volta a guardarmi. «Sabato le ragazze, le tue amiche, hanno visto anche loro quest'uomo?»

«Perché?»

«Rispondi», replica lei in tono piatto.

Giungo da sola all'unica conclusione logica sul perché me lo stia chiedendo. «Tu non mi credi», sussurro. Il cuore vorrebbe volarmi via dal petto, come un uccello impazzito rinchiuso in una gabbia troppo stretta.

«Âmbar». Teresa pronuncia il mio nome grevemente, abbassando le palpebre. «Certo che ti credo! Qui, però, non è questione di cosa credo io. Sei in cura dalla dottoressa Neves perché un giudice ha chiesto di provare la tua sanità mentale e mi stai dicendo che pensi che un uomo, che non è tuo padre, né nessuno che conosci, ti stia seguendo, in una città in cui ti sei trasferita da appena qualche mese.»

«È quello che è successo», replico, digrignando i denti.

«Lo so», risponde Teresa. Sul viso della poliziotta non c'è traccia dell'espressione arcigna che ho imparato ad associare all'impegno professionale. Al suo posto c'è una maschera di preoccupazione sincera, che mi persuade che non stia mentendo. E che la situazione è molto più seria di quanto pensassi. «Senti, in questo momento ti parlo come Teresa, non come agente Carmo. Potrei avviare un'indagine formale e, nel caso in cui trovassi quest'uomo, potrei interrogarlo, magari tentare di capire chi l'ha mandato e cosa vuole da te. Ma se non riuscissi a cavargli nulla o, ancora peggio, non trovassi nessuno, saresti in guai molto seri. Immagina se l'avvocato dei tuoi venisse a saperlo... Potrebbe convincere il giudice che soffri di manie di persecuzione, e questo potrebbe far pendere la bilancia dalla parte della tua famiglia. Nemmeno Ines potrebbe più aiutarti a quel punto. Hai troppo da perdere, Âmbar.»

Non riesco a muovermi. Sono come lobotomizzata dal terrore, soprattutto perché non trovo una sola obiezione logica da contrapporre alle sue parole.

«Forza scendiamo, hai bisogno di una passeggiata», mi incita lei.

«No, Teresa, credo di voler tornare a casa.»

«Non è una richiesta», puntualizza.

Sospiro e seguo Teresa in una strada poco affollata. L'andatura veloce della donna riflette il ritmo dei miei pensieri, ma devo ammettere che questo esercizio di muscoli e nervi scrolla via un po' di tensione. Incrociamo diversi gruppi di bambini per strada e sto giusto per chiederle dove siamo dirette, quando scorgo l'insegna dell'ingresso dello zoo a pochi metri da noi.

«Che ci facciamo qui?»

Teresa varca il cancello. «Vedrai». Tira fuori una tessera dal portafogli e la mostra alla ragazza al botteghino, che ci lascia entrare.

«Una possibile soluzione ci sarebbe», dice lei dopo un po'. «Se qualcun altro fosse insieme a te mentre quell'uomo ti segue, sarebbe diverso. Avresti un testimone, e la tua parola non potrebbe essere messa in dubbio. Per cui esci da sola il meno possibile. Chiedi alle tue amiche o a quel ragazzo che lavora sulla barca con te di accompagnarti. Sempre. Sarebbe preferibile che non sia io a dover testimoniare, perché potrei essere rimossa dal caso, e ti verrebbe assegnato un altro agente.»

«Non posso costringere i miei amici a seguirmi come cagnolini!»

«Se hai un'alternativa migliore, sei pregata di esporla.»

Resto in silenzio a pensare, ma non mi viene in mente nulla di meglio. «Come sai tutte queste cose?»

«Anni di servizio. E poi ho studiato criminologia, diversi anni fa.»

«Ah. Sei anche tu una psicologa?»

«No. Non mi sono più laureata». Il tono della donna si inasprisce, ma quell'accenno di rimpianto dura appena un battito di ciglia. «A proposito di psicologhe... Sai che le sedute con Ines sono registrate, no?»

Capisco subito a cosa allude Teresa. «Non gliene parlerò». Lei annuisce, senza aggiungere altro, e si dirige a passo deciso verso un tavolo addobbato da palloncini a forma di pallone da calcio, attorniato da bambini urlanti. «Dove mi stai portando?»

Un bambino riccioluto si allontana da un campo da gioco improvvisato e corre incontro a Teresa. «Mamma!» Lei lo stringe a sé e si china per stampargli un bacio sulla guancia. «Sei venuta!» trilla lui, allegro.

«Certo, amore mio», risponde Teresa.

Il bambino punta gli occhioni verdi nei miei e, con un'espressione indagatrice spaventosamente simile a quella della madre, chiede: «Mi hai regalato una tata per il compleanno?»

«No, Miguel, lei è una nostra amica. Si chiama Âmbar.»

«Oi*, Âmbar.»

Sono così impegnata a trattenere le lacrime che temo di non riuscire a parlare. «Oi*, piccolo». Teresa mi guarda con gli occhi lucidi di emozione e un sorriso che non le avevo mai visto sul volto serioso. Mi ha portata a conoscere suo figlio, e questa è la più grande dimostrazione di fiducia che potesse darmi.


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Dizionario di portoghese:

*Oi = Ciao

*Azulejos = piastrelle di ceramica decorate tipiche del Portogallo

*Pastel de nata = dolcetto tipico portoghese

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