11. Il mare non aspetta

«Non capisco perché dobbiamo registrare la nostra conversazione, tutto qui». Il nervosismo fa pulsare una vena sulla tempia sinistra, e io la massaggio con vigore, senza ottenere particolare giovamento.

La Neves sospira. «Te lo ripeto di nuovo: queste registrazioni non saranno pubbliche. Rappresentano una garanzia, ma solo per te stessa. Saranno una prova tangibile del tuo stato mentale, del quale, te lo ribadisco, io sono già certa», spiega, con lo sguardo serio puntato nel mio.

«Hum». Come potrei darti risposte più naturali come mi hai chiesto, dottoressa, se trovo tutto ciò stupido e artificioso? Muoio dalla voglia di urlarle in faccia questa risposta, ma non lo faccio perché non so che immagine potrebbe dare di me a un eventuale ascoltatore delle registrazioni. È un dannato circolo vizioso.

«Non ci sono cose giuste o sbagliate che tu possa dire, Âmbar.»

Ah, benissimo, si è messa anche a leggere nel pensiero.

«Ti sei sempre fidata di me, finora. Ti chiedo solo di continuare a farlo, ok?»

Io tardo a rispondere, e lei mi lancia un'occhiata eloquente. «Ok.»

«Bene, cominciamo. Quali sono i tre aggettivi con cui descriveresti te stessa?»

«Ma che domanda è?» Mi accorgo troppo tardi di aver articolato il pensiero ad alta voce e la consapevolezza di aver fatto una figuraccia mi fa bruciare le guance di vergogna. Se la Neves potesse incenerirmi con lo sguardo, sarei già polvere. «Sembra l'inizio di un appuntamento al buio». Provo a sdrammatizzare, con un pizzico di velata ironia.

«Âmbar, rispondi», mi rimprovera lei.

Mi prendo qualche attimo per pensarci e delibero: «Debole, irrazionale e... codarda.»

Lei appunta qualcosa sul quaderno, poi rivolge di nuovo l'attenzione a me. «Perché ti ritieni debole?»

La linea dritta che formano le sue labbra mi fa mettere in discussione l'atteggiamento scettico che ho avuto finora. Questa situazione non mi sta per niente bene, sia chiaro, ma se qualcuno dovesse ascoltare ciò che dico, vorrei che sapesse l'inferno che ho dovuto affrontare. Quindi se dobbiamo giocare, giochiamo. «Perché chi resta a subire è un debole.»

«È vero, ma essere debole a volte non è una condizione che si può scegliere». La Neves aggrotta la fronte e dilata un po' gli occhi. Mi sta mettendo in guardia, mi sta dicendo di prestare attenzione alle sfumature. «Non trovi?»

«In effetti la mia debolezza deriva dalla famiglia in cui sono nata. E quella non ho potuto sceglierla», replico schietta.

«Credo che tu possa concordare con me se ti dico che hai trovato lo stesso il modo di reagire. Hai deciso di denunciare una situazione che non era più sostenibile.»

«Sì, ma l'ho fatto solo grazie al suo aiuto. E al sostegno di Te... Dell'agente Carmo.»

La Neves mi fa l'occhiolino, soddisfatta della mia risposta. «Vorrei farti riflettere proprio su questo. Hai appena ammesso che ciò che ti ha reso debole è non aver mai chiesto aiuto.»

«Ho chiesto aiuto, invece», sottolineo. «Ogni volta che mio padre mi picchiava ho chiesto aiuto alla mamma, ma lei non ha fatto nulla per evitare che accadesse ancora.»

«Forse non ti ha difesa perché aveva paura di lui». Io scrollo le spalle. Rifletto in silenzio per una manciata di minuti, e la Neves ne approfitta per incalzarmi di nuovo. «Nella deposizione hai dichiarato che tuo padre concentrava le violenze solo su di te. Sai spiegare perché?»

Rido. È una risata amara, la mia, piena di rassegnazione. Verità taciute che hanno trovato il modo di venire alla luce mi pizzicano il cuore come punture di spillo. Mi fanno soffrire ancora, nonostante tutto. «La cittadina da cui provengo è piccola e molto legata ai precetti religiosi, essendo una parrocchia civile. Mio padre stesso è un uomo vicino alla fede, come lo sono stati i nonni. Vede, dottoressa, il fatto è che sono stata concepita fuori dal matrimonio. Ho costretto mio padre ad abbandonare gli studi e sposarsi a diciannove anni. Io esisto, e questa è la mia colpa più grande.»

Gli occhi chiari della dottoressa si stringono, e il suo volto si piega alle emozioni che le suscitano quelle parole. «Pensi che anche tua madre ti incolpasse per questo?»

«Non lo so... No, credo di no.»

«E cosa le diresti a riguardo se lei fosse qui?» sussurra la Neves.

Serro i pugni e cerco di controllare la voce, prima di emettere la mia sentenza. «Che aveva il dovere di proteggermi.»

La dottoressa annuisce ancora, in modo appena percettibile, e io capisco che, senza dirlo apertamente, mi sta guidando in un viaggio del quale entrambe conosciamo la destinazione.

«Ora vorrei che mi dicessi perché ti reputi irrazionale.»

«Nell'ultimo periodo mi sono aperta molto con gli amici, come lei mi ha suggerito di fare. Parlare con loro di ciò che è successo e di tutte le cose che ho subito mi ha fatto capire che non ero lucida. Mi sentivo persa senza nessuno accanto». In ospedale è stata proprio la Neves a dirmi che l'accettazione arriva con l'apertura. Allora non riuscivo a capire cosa significasse, ma adesso sì. «Per questo credo di essere stata irrazionale», concludo.

«E hai ragione, lo sei stata. Per lo stesso motivo per cui eri debole: non hai avuto nessuno che ti aiutasse a elaborare quello che è stato. E ti ritieni codarda perché?»

«Sono stata codarda perché prima di andare via di casa non avevo mai compiuto azioni non imposte. E quando sono arrivata qui la libertà di scegliere mi ha destabilizzata. Credo... Credo sia stato per questo che ho intrapreso la strada più semplice». Respiro, seguendo il ritmo affannoso e irregolare del cuore, con la voce che trema perché la mia è un'ammissione di colpa nei confronti di me stessa. «Sono stata una codarda.»

«Ma ora non è più così, no? Hai scelto di avere degli amici, un lavoro. Cosa ti ha fatto cambiare idea?» chiede lei e annuisce per incoraggiarmi, perché sa già cosa sto per rispondere.

«Essere sopravvissuta al tentato suicidio. Le ho già raccontato in ospedale che, poco prima di svenire, c'è stato un momento in cui ho realizzato di aver fatto un errore. E se adesso me ne rendo conto è solo grazie alle persone che mi hanno teso una mano quando nemmeno l'ho chiesta. È per loro che sto camminando da sola, con le mie gambe.»

La mano sinistra della Neves si alza e forma un piccolo cerchio con il pollice e l'indice per indicarmi che ha approvato la risposta. «Analisi magistralmente accurata, alla quale non mi sento di aggiungere nient'altro. Dopo la nostra chiacchierata, quindi, vorrei riproporti il quesito iniziale. Descrivimi te stessa con tre aggettivi.»

«Debole, irrazionale, codarda.»

La dottoressa mi lancia un'occhiataccia. «Sii seria. Pensa a quello di cui abbiamo parlato e ricomincia.»

Sospiro in modo teatrale. Devo dirle quello che vuole sentirsi dire, o non mi farà più uscire di qui. «Credo che ciò che ho passato mi abbia reso tenace, che il tentato suicidio mi abbia resa consapevole, e che la seconda possibilità che ho avuto abbia tirato fuori il mio coraggio.»

Lei sorride, soddisfatta, e poco dopo mi congeda. Nel corridoio affretto il passo fin quasi a correre. Sono in ritardo e, come dice Louis, il mare non aspetta.


⚓︎


La banchina turistica del porto è affollata, come ogni pomeriggio a quest'ora. Felipe cammina disinvolto in mezzo a tutta quella gente. Ha poco tempo per raggiungere la Louisa, ma non se ne preoccupa; non gli importa se dovrà subire l'atteggiamento scostante del vecchio, oggi ha voglia di camminare piano, di godersi l'aria frizzante di fine ottobre, di guardare i colori del tramonto come tutte le persone che lo circondano. Qualcuno gli urta la spalla, e lui volta la testa appena in tempo per riconoscere Âmbar. Lo ha superato di gran carriera, senza neanche accorgersi di essere andata a sbattere proprio contro di lui.

Felipe affretta il passo, ma in quel mare di teste tutte uguali la perde di vista. La intercetta di nuovo solo dopo aver superato il valico che divide la zona turistica da quella commerciale – dove rimangono pochi avventori a camminare lungo il molo. La ragazza non è molto distante, e lui la raggiunge senza particolare sforzo. Prima che lei lo veda, Felipe ha tutto il tempo di assaporare l'espressione selvaggia dipinta sul suo viso. I capelli si agitano attorno alle guance, gli occhi ambrati sono lucidi a causa del vento, la bocca è socchiusa per sputare fuori l'aria e accoglierne di nuova. Realizzare quanto trova bella Âmbar in quel momento è un pugno nello stomaco per Felipe. «Hey, dove corri?»

Âmbar si ferma di colpo, ansante. Porta una mano al petto, che si alza e si abbassa al ritmo sconnesso del suo respiro, e risponde: «Da voi. Sono in ritardo.»

«Non siamo in ritardo, abbiamo ancora quattro minuti circa», constata lui, strappandole una risata. Non aveva notato le due fossette che compaiono ai lati del suo mento quando ride così. «Non sei abituata a correre, eh?» la prende in giro.

«Da cosa l'hai notato?» replica Âmbar con il fiato corto.

Lui sistema le bretelle dello zaino che gli sono scivolate dalle spalle durante la corsa. «Dal tuo leggero affanno.»

«Dici?»

Felipe non ricorda di averla mai vista sorridere come adesso, e la sua allegria lo contagia tanto che non riesce a trattenersi. Si affida all'istinto e le confessa: «Vorrei ballare con te. Qui, adesso.»

Il sorriso scivola via piano dal volto della ragazza, che risponde, esitante: «Non c'è nemmeno la musica.»

«Che importa?»

Lei fa scivolare a terra lo zaino che porta sulla schiena e gli tende la mano. «Non so ballare, lo sai.»

«Ti guido io». Le loro dita si toccano, e a Felipe basta una leggera pressione sul palmo perché Âmbar si avvicini. Le appoggia con cautela una mano dietro la schiena, le iridi fisse nelle sue, mentre i loro corpi si sfiorano senza mai toccarsi. La stoffa di cotone della camicia di Âmbar è sottile, non riesce a contenere il calore che emana la pelle sottostante, né la forza del battito del suo cuore, ancora accelerato dalla corsa. «Piede sinistro avanti, pronta? Destro, sinistro. Ora mezzo giro e... indietro!» Felipe avverte l'energia fluire tra loro, come la prima volta che hanno ballato insieme. Il giro è finito, ma a lui non basta, e reclama: «Di nuovo». I capelli della ragazza si accendono di riflessi caldi quando gli ultimi raggi del sole li accarezzano, e alle narici di Felipe arriva anche il lieve odore di fiori che emanano. «Durante il giro abbandona la testa all'indietro, te la senti?»

«Ci provo.»

«Ti tengo», le assicura Felipe e apre la mano alla base della sua schiena quando lei si lascia andare. Âmbar risale, ma perde l'equilibrio e finisce contro il suo petto nell'attimo stesso in cui i loro sguardi si allacciano di nuovo. L'affinità che sente con lei Felipe non l'ha mai provata con nessun'altra donna, lo lascia con il cuore palpitante e il fiato corto. Restano immobili, a condividere la poca aria che li separa, ed è il suono di applausi e fischi a riscuoterli. Felipe lascia la presa sulla ragazza e si volta verso quel baccano. I marinai della Concordia e della Belga stanno applaudendo dal ponte delle loro barche; Hugo fischia con le dita e la sirena della Catalina romba nelle loro orecchie.

«Abbiamo rivoluzionato l'intero porto!» ride Âmbar.

Felipe, però, sente il suono di una sirena in lontananza che lo riscuote, una sirena che riconoscerebbe tra mille: quella della Louisa. «Dobbiamo salpare, corri!»

Âmbar si china a recuperare lo zaino, gli tende la mano e insieme corrono più veloci di prima, verso l'oceano che li aspetta.︎ 

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