XXIX Dylan: WHISKY E CANNELLA

Canada, 1-2 luglio 2010

Varco il grande cancello, allontanandomi da casa Sanders.
Abbandono il tubero che ho tra le mani a un lato della strada. Non sarà una patata a risolvere il dolore alla testa.
Per quello ho io in mente un rimedio molto più efficace!

Percorro la strada a ritroso, fino a raggiungere le vie del centro. Entro nel supermarket, dritto all'area degli alcolici.

Le bottiglie sono disposte sullo scaffale una di fianco all'altra in modo alquanto invitante.
Scelgo quella contenente whisky e cannella. Sembra essere una specialità del posto.

La cassiera non reclama un documento, si limita a battere meccanicamente il prodotto e chiedermi i relativi dollari.

Non aspetto di arrivare alla dependance.
Mi fermo a metà percorso, nascondendomi dietro al muro di una abitazione fatiscente, e porto la bottiglia alle labbra.
Incollare la bocca al vetro è la sensazione più bella degli ultimi giorni.
E' come un salto nel tempo.
Di nuovo a New York, nel mio appartamento, nel mio guscio di sicurezze.

Il liquido mi scende in gola.
E' caldo e ha un retrogusto decisamente dolce.
Potrei quasi ricredermi sul Canada.
A quanto pare, in questo paese, qualcosa di buono esiste.

Rimango quasi un'ora seduto a terra.
La nuca contro i vecchi mattoni e le scarpe di pelle sull'erba incolta.
Bevo alcool e cerco di ritrovare me stesso.
Bevo alcool e fingo che tutto vada bene.
Bevo alcool e, semplicemente, provo a smettere di pensare.
***

Sono le dieci e mezza della sera.
Dovrei dormire, domani mi aspetta un altro risveglio da incubo.
Mi giro e rigiro nel letto, senza riuscire a prendere sonno.
Cerco sotto al materasso la bottiglia di whisky. Ne do alcuni sorsi, sperando di tranquillizzarmi.
In realtà sembra che l'alcool provochi l'effetto contrario, agitandomi ancora di più.
O forse è solo colpa delle tracce di cannella presenti all'interno.

In testa mi frullano pensieri di ogni tipo. Ricordi dell'incidente in auto, mescolati a immagini più nuove e reali.

Gli occhi di Iris, il suo sorriso sincero e spregiudicato. La sua voce.
Il suo modo di muoversi e parlare.

Non ho mai pensato così tanto a una ragazza e non ne capisco affatto il motivo.

La semplicità di Iris è qualcosa di sconvolgente, qualcosa di irreale, paragonato alla gravità della sua malattia.

Se fossi al suo posto sarei arrabbiato con i miei genitori, con la vita, con il mondo intero. Invece lei è serena.
Adora il padre e non odia la madre per averla abbandonata.
Iris sembra vivere come qualsiasi altro individuo sulla faccia della terra, anzi in modo molto più autentico e reale.
Lei sembra vivere e basta, senza chiedere niente in cambio.

Il solco che il liquore canadese lascia, pian piano riempie le mie lacune, placando ansia e inutili domande sul senso del mondo. Purtroppo lo fa solo in parte.
Non riesce a distrarmi da Iris.

E' come un pensiero fisso nel pieno della notte.
Un martello pneumatico al lavoro.
Iris è un imprevisto. Fastidio e curiosità.
E' psicosi.

Nascondo la bottiglia ormai vuota di nuovo sotto al materasso.
Scosto le coperte e scivolo giù dal letto.
Indosso i jeans sopra i pantaloni del pigiama. Cerco un golf e una giacca più pesante all'interno della valigia. Nonostante la stagione estiva, il vento e l'aria alle pendici delle montagne sono piuttosto freschi a quest'ora.

Esco dalla dependance cercando di non fare nessun tipo di rumore.
Le strade, illuminate dalla fioca luce dei lampioni, sono deserte.

Mi manca la Grande Mela.
Mi mancano le insegne al neon e le paninoteche aperte tutta la notte.
Il via vai di gente, la frenesia, i taxi e i clacson che non smettono di suonare.
Mi manca il caos.

O forse, più semplicemente, la tranquillità di questo posto mi fa paura.
Il silenzio è rumore.
È un frastuono che non conosco affatto.
E' molto più forte di quello delle strade di New York, delle feste universitarie e dei suoi ritmi pieni.
E' una vibrazione che ti entra dentro, dandoti modo di pensare, anche quando non vorresti farlo. Anche quando desidereresti semplicemente chiudere gli occhi e dormire.

Passo dopo passo arrivo a casa Sanders.
Mi soffermo. Non so perchè sono venuto fino a qui. Non ce n'è alcun motivo apparente.

Respiro a pieni polmoni la brezza notturna. L'odore buono dei fiori del giardino si diffonde tutto intorno.
Nei cespugli si intravedono alcune lucciole.
Mi incanto a guardarle accendersi, spegnersi e accendersi di nuovo.
Mi sembra di stare meglio.
Forse camminare mi ha aiutato a distrarmi, ad allontanare l'angoscia residua.

All'improvviso il rumore di alcuni passi sul sentiero di ghiaia e sassi, mi fa tornare bruscamente alla realtà.
Smetto di sobbarcarmi il cervello con le mie stupidità e mi nascondo dietro a un albero poco distante.
Non so chi possa essere, ma non vorrei mai che nè il signor Sanders, nè un visitore mi vedessero nei paraggi.

I passi si fanno più vicini, fin quando non raggiungono le inferriate del cancello.
Con mia grande sorpresa non ne viene fuori un ospite, e neanche il padrone di casa.
La figura che esce, tranquilla, avvolta dentro a un ampio scialle, è Iris in persona.

Ma dove sta andando a quest'ora?

La risposta alla mia domanda è una sola: Seguirla!

Le sto alle calcagna per tutto il tragitto che compie, avendo l'accortezza di restare abbastanza distante perché non possa vedermi.

Iris procede calma, dritta e senza esitazioni. Attraversa un piccolo ponte di legno, lasciando le vie del centro.

Non sono mai stato in questa zona del paese. Le abitazioni sono più rade, mentre la vegetazione si intensifica maggiormente.
Resto indietro e scopro la ragazza entrare in una piccola casetta di legno.

Quando sono abbastanza sicuro che nessuno possa vedermi, mi avvicino all'entrata dell'edificio.
Un paio di uomini escono barcollando.
Non sembrano molto sobri.

Alzo gli occhi sull'insegna.
Un'unica parola: " Pedro".

Cosa può farci una donna a quest'ora in un posto del genere?

Anche in questo caso la risposta sembra più facile di quanto possa pensare: Spiarla!

C'è una finestra alta sulla parete laterale del locale. Salgo su uno dei tavoli esterni e mi affaccio al vetro.
Nella sala c'è molta gente, soprattutto di sesso maschile. Poi tra la folla riesco a individuare Iris. Ha una pannuccia rossa legata in vita e un blocchetto in mano. Si muove esperta, prendendo ordinazioni da un tavolo all'altro.

Una cameriera!
Quindi è questo che è venuta a fare.
Lavoro.

Appollaiato sopra il tavolo, con il viso schiacciato contro il vetro rimango per molto tempo. Forse qualche ora.
Non è male come posizione.
Posso seguire Iris senza perderla di vista un solo momento.

Mi concentro sul sorriso che rivolge ai clienti, sul suo togliere e mettere la penna dietro l'orecchio. È divertente. È pure rilassante.

Pian piano la taverna si svuota, fin quando non resta più nessuno.
Solo Iris e quello che credo sia il padrone del locale. E' un uomo di mezza età, apparentemente di orgini sudamericane.

Iris rimette in ordine.
Sposta le sedie e aggiusta i centrotavola.
Non ha più la fluidità di inizio serata.
Sembra provata.
Il suo viso è pallido e deve fermarsi più volte a riprendere fiato.

Il padrone è seduto dietro il bancone e sta facendo i conti dell'incasso.
Possibile che non si accorga di niente?
Possibile che non noti quanto la ragazza sia stanca?

Iris è malata. Non può lavorare.
Non così duramente!

La mia mente si annebbia completamente.
Non sono un tipo irascibile.
Non mi importa né della gente né dei loro problemi, ma in questo caso sento come un fuoco dentro che mi spinge ad agire.
Limitarmi a guardare senza muovere un dito, non è la cosa migliore, non in questo caso.

Sto per scendere dal tavolo, pronto a una battaglia che, forse, non sono nemmeno chiamato a combattere, quando lo scricchiolio delle assi di legno all'ingresso, mi frena.

Nel buio riconosco le scarpe da ginnastica di Steve.

Mi schiaccio contro la parete.
Cosa ci fa anche lui qui?

Lo guardo mettersi a sedere sull'ultimo scalino, con la schiena contro la ringhiera.

La fioca luce della luna gli illumina il viso. Porta una mascherina bianca e azzurra e ha gli occhi completamente impastati dal sonno.

Riporto l'attenzione dentro al locale.
Iris lascia la pannuccia sul bancone, prende il suo guadagno ed esce.

"Ehi, ragazza!" Steve si solleva, andandole incontro, "come è andata la tua serata?"

"Bene" dice lei.
Il tono di voce che assume è un debole sospiro.

Steve la prende a braccetto.
Iris nasconde il viso dentro il suo scialle.
Non cammina come ieri sera.
I suoi piedi si trascinano, tirandosi l'uno con l'altro. La sua schiena è curva, protesa verso l'amico. Sembra non avere più alcuna energia.

I due si allontanano così, vicini e simili, nel buio della tre.

Mi scrollo dallo stato di trance nel quale sono momentaneamente finito e mi impongo di fare quello che era mio intento fino a pochi minuti fa. Senza alcun tentennamento salto giù dal tavolino ed entro nel locale.

Il suono della campanella alla porta, nel silenzio della notte, echeggia fino a farmi vibrare il cuore.

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