LVII Dylan: WHEREVER YOU WILL GO

Canada, 17-18 luglio 2010

Una settimana.
Sette lunghi giorni che provo a non pensare a ciò che è successo, ma la mia mente torna sempre lì, alla mattina che Iris è venuta a bussare alla mia porta.

I suoi occhi e il suo volto non riesco a cancellarli. Erano disperati e mi odiavano.

Non avevo messo in conto una simile reazione quando ho deciso di aiutarla.
Ho solo pensato a fare del bene a qualcuno meno fortunato di me.

Non mi piaceva vederla lavorare fino a tardi. Non mi piaceva nemmeno il modo nel quale il padrone del locale la trattava. Dentro di me sentivo che non era giusto.

Dove ho sbagliato, o meglio, come avrei potuto agire diversamente per darle una mano?

Più me lo chiedo e più non so rispondermi.

Non ho mai fatto beneficienza, nè niente che potesse anche solo avvicinarcisi.
Sono inesperto e inadatto.

Adesso Iris ha perso ogni fiducia in me. Crede che ho costruito un complotto a sue spese, che le ho raccontato un sacco di bugie.

Non l'ho più vista da quel mattino. Non sono andato a cercarla e lei non è venuta a cercare me.

Ho seguito il consiglio della signora Cox, ovvero darle del tempo, anche se, mi sembra che il tempo non passi mai.

Guardo fuori dalla finestra. Sono appena le dieci e mezza della sera e il cielo è una lastra buia di cemento. Mi sposto dal divano al letto e poi ancora al divano. Il frigo è vuoto. Ho esaurito tutte le scorte per la fame nervosa.

Questi ultimi giorni oltre a mangiare continuamente mi sono buttato sul lavoro, barcamenandomi tra le ore di volontariato e quelle passate a dormire. Tutto pur di non pensare troppo a lungo.

Ho visto Steve uscire molto questa settimana. Forse ogni volta è andato da Iris.
Uno strano senso di nausea mi sale dallo stomaco fino alla gola.
Ovvio che è andato da lei. Sono amici e avrà dovuto starle sicuramente vicino, proteggerla dal mostro che invece sono io.

Il solo pensiero di Steve mi fa uscire fuori di testa. Corro a vedere sotto al materasso.
Le mie scorte di alcol sono esaurite.
Ci sono solo i vetri.
Ho fumato anche tutte le sigarette, il pacchetto è vuoto.

Mi sembra di impazzire.
Devo uscire da qui. Assolutamente.

Indosso frettolosamente la giacca e prendo le chiavi della Rolls Royce.

Non so dove andrò. Spero solo di trovare un posto in questo paese sperduto dove bere e ascoltare un pò di musica.

Passo davanti allo specchio e mi guardo prima di uscire. Ho gli occhi persi e il profilo sciupato.
Sono uno straccio e per poco non mi riconosco neanche io stesso.

"Hai visto cosa succede ad abbassare la guardia?" dico al mio riflesso," non hai ancora capito che il bene non esiste, che l'amore non è di questo mondo? Torna in te, Dylan Prince. Torna il ragazzo che eri a New York. Niente sentimentalismi, niente compassione, niente altruismo. Riprendi il controllo della tua vita. Fallo adesso o domani sarà troppo tardi!"

Faccio un cenno affermativo con la testa, apparentemente convinto.
Poi mi chiudo la porta alle spalle.

Ho venti anni e una notte tutta mia.
Guardo in alto. E' una notte senza luna.
***

La voce dei The Calling si sente fin dalla strada. Wherever you will go aleggia nell'aria, donando un'atmosfera quasi triste al locale.

Non mi lascio intimorire dalle note malinconiche. Accosto l'auto e scendo.

Questo posto ha un'aria retrò e fatiscente, ma è l'unico con un po' di vita che sono riuscito a trovare nel raggio di qualche chilometro.

Ci sono soprattutto donne e giovani dai jeans attillati e camicie floreali. C'è anche qualche vecchio ubriacone. Si riconoscono nella calca perchè barcollano da un lato all'altro della sala con grandi boccali di birra.

Raggiungo il bancone e ordino un Mojito.

La barista è carina.
La guardo mentre preme le foglie di menta all'interno del bicchiere. Ha le mani delicate. La fronte corrugata per la concentrazione e la frangetta leggermente sudata sulla fronte.

Un flash e mi viene in mente Iris quando era lei ad essere dietro al bancone. Senza che possa farci niente torna a galla il motivo del perché sono qui e tutto il resto.
Merda! Sono venuto per togliermi quella ragazza dalla testa e mi ritrovo a pensarci come non mai.

Paragono i modi di Iris a quelli della barista, i suoi capelli e anche il colore della sua pelle.

Prima che la giovane termini di preparare il mio drink mi allungo e glielo strappo dalle mani.

"Ehi! Che fai?" mi rimprovera.

Mi attacco al bicchiere con foga. La voracità con cui mando giù i primi sorsi sorprende pure me stesso. Alcol ho solo bisogno di alcol.

La ragazza rimane a fissarmi storto per alcuni istanti, indecisa se parlare di nuovo o lasciarmi perdere. Alla fine opta per la prima. Posa i palmi sul bancone e mi dice: "Tu hai seri problemi, ragazzo!"

Vorrei farle notare che seri è ben poco.
Ho problemi gravi, gravissimi, insormontabili, invece mi ritrovo a ridere, come se mi avesse raccontato la barzelletta più divertente del mondo.

"Preparane un altro, hai delle mani d'oro!" dico spavaldo.

Lei abbassa la testa e riprende a mescolare rum e succo di lime.

Non mi dice più niente. Forse pensa che io sia uno squilibrato, che sia pericoloso o, più semplicemente, ha capito che ho bisogno di dimenticare.

Dopo tre cocktail mi sento già meglio.
Abbandono la mia postazione sullo sgabello del bancone e vado alla ricerca di una toilette.
Avanzo tra donne che parlano e bevono in mezzo alla sala.

Quando arrivo al bagno lo trovo occupato.
Ci sono alcune persone in fila. Fingo di non vederle e mi getto sulla porta a pugni serrati.

"Devo pisciare! Sono ore che siete chiusi là dentro!" grido.

Un paio di ragazze si allontano impaurite dalla mia foga, mentre un tipo molto magro resta a guardarmi con una buffa faccia da pesce lesso.

"Se non aprono spaccherò la porta" lo informo, "oppure la farò qui. Ho la vescica della grandezza di un pallone da basket! Preparati al botto!"

Il ragazzo indietreggia, decisamente sconvolto.

La porta del bagno si apre, lasciando uscire due donne. Non ho mai capito perché il gentil sesso debba sempre recarsi in bagno a coppia.
Forse è una questione di praticità o di aiuto reciproco.

Mi chiudo nel gabinetto. Le scritte sulle mattonelle sfuocano di fronte ai miei occhi mentre mi impegno a svuotare tutta la vescica.
In particolare una di esse attira la mia attenzione. E' ben marcata e recita così:
<<Tanto io mi sono abituato a sanguinare >>

Le parole dello sconosciuto mi arrivano dritte al cuore. Tiro su la cerniera dei jeans, porto le mani alla testa e mi siedo sulla tazza.

Non ricordo quando è stata l'ultima volta che ho pianto, sicuramente molti anni fa, ma le lacrime si manifestano in modo irruento e improvviso, senza che io possa fare niente per fermarle. Le sento riempirmi gli occhi e la faccia. Sono fredde e dense di alcol.

Nel cesso di un locale di cui neanche conosco il nome, per una stupida scritta lasciata sulle piastrelle sporche, come il suo autore, anche io sanguino. Sanguino tutto il mio dolore.

I singhiozzi non mi danno scampo.
Non sapevo che un essere umano fosse in grado di farne così a ripetizione.
In realtà non sapevo nemmeno che un uomo potesse piangere.
In genere sono le donne a farlo.
Le donne deboli e anche quelle forti come Iris. Piangono perchè spesso non possono farne a meno.

Immancabilmente penso alla promessa.
Il mese più bello della vita di Iris.
Trenta giorni senza lacrime, solo sorrisi e cinema. Un sogno. Una vanità.

Chissà se quella promessa è ancora valida...
Io vorrei che lo fosse.
Lo vorrei davvero tanto.

Mi asciugo il naso con la manica della camicia. Qualcosa nel mio stomaco si mette a girare.
Mi alzo spinto dai conati e vomito.
Riempio la tazza di coctkail e foglie di menta. 

"Ehi! Tutto bene là dentro?"

Ci sono alcune voci fuori e sembrano tutte piuttosto concitate. Le ingoro e continuo a vomitare.

Poi improvvisamente qualcuno gira una chiave e la porta si apre.

"Lo sapevo! Lo sapevo! Non avrei dovuto prepararti tutti quei drink!"

Le stesse mani di prima, delicate ed esperte nel darmi da bere mi sollevano i capelli dalla fronte e mi aiutano ad alzarmi.

Mi sembra di essere un fantoccio.
Ho le gambe molli e la testa pesante.
Un'altra figura femminile si avvicina, sostenendomi per la vita.

"Ma cosa hai combinato?"

La voce di questa seconda donna non mi è nuova. Focalizzo lo sguardo su di lei.
Capelli castani, leggermente mossi e occhi grandi. Scendo appena allo scollo della camicetta. Una quarta di seno abbondante. Sofia Loren. No, Anastasia.

"Anastasia?" biascico con la bocca impastata.

La donna alza gli occhi al cielo e mi conduce su una delle sedie in fondo al locale.

"Coraggio, mettiti qui seduto" mi ordina.

Mi lascio cadere a peso morto.
La giovane cameriera mi gira intorno. Parla in modo apprensivo e ripetitivo, tanto da farmi scoppiare il mal di testa.

"Tranquilla" la frena Anastasia, "ci penso io a lui. Torna pure al tuo lavoro..."

La ragazza si allontana, continuando a parlottare.

Anastasia si prende cura di me. Mi pulisce la bocca con della carta e poi mi mette alcune pezze bagnate sulla fronte.
Mi sento un deficiente e un buono a nulla.
Tra tutte le persone nelle quali potevo imbattermi questa sera proprio il mio capo?

Sono così stanco e abbattutto che mi impongo di non pensarci. La nausea è ormai padrona del mio corpo. Ho il volto sudato e pieno di lacrime. Ho il cuore a pezzi. Lo sento.

"Coraggio Dylan, usciamo da questo posto. Ti porto da me"

Anastasia butta via le pezze umide dalla mia fronte e mi accompagna fuori.
Cammino fino alla sua auto in silenzio.
Non sono in grado di replicare e nemmeno di proporre un'alternativa migliore.
Se riesco a stare in piedi e non cadere è già qualcosa di buono.

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