CVII Dylan: DENTRO A UNA LACRIMA

Canada, 31 luglio 2010

Iris mi ama.
Cosa c'è di così strano e incomprensibile?
Mi ama. Mi a-m-a.
Ripeto queste due parole in modo ritmico e ripetitivo. Suonano bene. Sembrano fatte apposta per essere ascoltate, cantate e pensate all'infinito.

Percorro il corridoio in uno strano stato di trance. Ci sono, ma non mentalmente. 

Ho la testa in un luogo lontano e il cuore dentro la sala operatoria, affianco a quello di Iris. E' la prima volta che provo un affetto così grande. La prima volta che confesso i miei sentimenti a qualcuno e, forse, la prima volta che scopro cosa sono realmente in grado di provare io stesso. Nessuna donna prima di Iris mi aveva fatto leggere dentro. Nessuna donna mi aveva aperto gli occhi e l'anima nello stesso frangente.

Ho vissuto da cieco fino ad oggi e, proprio adesso che inizio a vedere le prime luci di un mondo nuovo e bello, sono costretto ad attendere. Devo aspettare che la porta dalla quale Iris è stata inghiottita si riapra. Devo attendere in silenzio. Solo io e l'amore per lei a farmi compagnia.

I minuti passano lenti. Sembrano giorni, se non addirittura mesi.

Dovrei recarmi al piano superiore, in sala di aspetto, per far compagnia agli altri, ma non ne ho alcuna intenzione. Non voglio vedere la faccia di Steve. Il solo pensare a lui mi fa salire la rabbia. Il suo comportamento è stato inaccettabile. Ha fallito questa volta. Come amico e anche come uomo.

Mi appoggio al muro e mi lascio scivolare a terra. Intorno a me si muovono le persone.
C'è un flusso continuo di gente, ma nessuno fa caso alla mia presenza. Nessuno si sofferma a guardarmi, anche solo per un istante, perchè nessuno sa che sono in attesa di una persona davvero importante, una persona che in questo momento sta facendo i conti con la propria vita e la propria malattia.

Chiudo gli occhi e lascio scorrere il tempo.
Non mi addormento, l'ansia che ho dentro non mi permette di farlo. Sento ogni istante che passa e lascio che mi logori il fegato.
Lascio che mi mangi a morsi, insanguinandomi.

Dentro la mia testa faccio a pugni con i ricordi. Ricordi di questa strana vacanza, del dolore e della vitalità di Iris. E' strano come nella ragazza che ho conosciuto possano convivere entrambi i sentimenti. La vita e il dolore. Tutti e due in un solo corpo, senza fare a pugni.

Le immagini mi passano davanti agli occhi come guizzanti flash. Il primo giorno che ho visto gli occhi verdi di Iris; ero un volontario alle prime armi, spaesato e imbranato.
Ogni film, ogni singola pellicola interpretata mi scorrono dentro. Per un attimo immagino che scorrano anche nelle vene di Iris, insieme all'anestetico che la fa dormire. Solo qualche muro ci sta separando. Se mi concentro, se strizzo le palpebre e trattengo il fiato posso sentirla respirare dentro alla maschera, posso sentirla dormire e sognare. Spero di esserci anche io in un angolino dei suoi sogni. Io e lei. Insieme.

L'orologio sembra non muoversi mai, anche se la lancetta dei minuti batte senza perderne neanche uno. Ciò che Iris sta subendo è un viaggio di andata e ritorno.
E' la sua chiave per il futuro.
Ed io sono qui, con lei. La supporterò, qualsiasi cosa accada.

Ho visto le sue lacrime e ho sentito il suo cuore battere in perfetta sincronia con il mio.
Noi ci amiamo e lo faremo per sempre.

Non so quante volte mi ritrovo a ripetere nella mia testa la parola amore, forse tutte quelle che ho evitato nell'arco di questi venti anni. Tutte quelle volte che l'ho rifiutato o anche soltanto disdegnato. La faccia di mio padre si materializza come un fantasma dentro al mio cervello. Lo monopolizza, facendomi improvvisamente rendere conto della realtà. Solo adesso capisco. Solo adesso riesco veramente a vedere senza filtri.

Mio padre e mia madre non sono stati i genitori migliori del mondo, ma mi hanno amato. Mi hanno cresciuto a loro modo e hanno cercato di garantirmi il meglio.
Sono io che non ho mai apprezzato niente di ciò che hanno fatto. Li ho snobbati e odiati. Li ho accantonati, senza rendermi conto del male che stavo facendo a me e anche a loro.

Pian piano mi metto in piedi. Cammino, camuffandomi tra la folla. Vago senza una meta per tornare poi allo stesso identico punto. E' come se una calamita mi attraesse fino a qui. E' come se non potessi restare troppo a lungo lontano da questa porta. Ed ogni volta che si apre spero sempre che sia Iris, per rendermi conto invece che si tratta di qualcun altro.

Mi avvicino alla finestra. Fuori il sole è alto nel cielo e ci sono persone sedute sul prato antistante il nosocomio a mangiare. Prendo il cellulare e guardo l'ora sullo schermo. Le due. Sono passate quasi cinque ore. Trecento lunghissimi e infiniti minuti. Li ho sentiti tutti, uno a uno. Hanno scoccato dentro di me, facendomi sentire l'enorme peso del tempo.

Mi volto verso la porta. E' ancora chiusa.
Ma quanto dura un intervento del genere?

Mi prendo la testa tra le mani, posando i gomiti sul piano della finestra. Infilo le dita dentro ai miei ricci e comprimo le tempie. Hanno iniziato a pulsare e non è per niente una sensazione piacevole. Ci vorrebbe dell'alcol, un paio di sigarette, una radio con la musica a palla, oppure ci vorrebbe semplicemente tanta pazienza. Tanta forza e decisamente tanta fede.

Prima di rimettere il cellulare in tasca accedo alla rubrica. Schiaccio quel tasto che mai avrei pensato di premere e faccio partire la chiamata che mai avrei pensato di fare. E' come se tutto a un tratto dovessi confessarmi, così, senza un motivo ben preciso.

"Sì, pronto..."

"Papà.."

"Dylan!" La voce di mio padre è quasi sorpresa.

"Scusa se non ho risposto alle tue chiamate e ai messaggi, ho avuto da fare e..."

"Dylan, è tutto okay?"

Un groppo mi si ferma in gola. Non è affatto tutto okay, ma annuisco.

"Mi ha chiamato Brian qualche giorno fa. Lui e Tara hanno dato disdetta per la casa, credo che abbiano intenzione di prenderne una da soli, in un'altra zona, ne sai qualcosa?"

"Oh...beh...io e loro abbiamo avuto una discussione..."

Mio padre si schiarisce la voce: "Che tipo di discussione? E adesso cosa hai intenzione di fare? Prenderti un appartamento da solo? Sai quanto sia difficile trovarne uno a buon prezzo. Non che abbiamo problemi economici, ma gli affitti vicino al campus sono davvero eccessivi e..."

"Papà, ci penseremo. Non è importante, davvero. Troverò qualcos'altro o farò richiesta per una stanza dento al campus come tutti gli altri..."

"Tu in una stanza dentro al campus? Ma vuoi scherzare?"

"Papà, per favore. Non è il momento adesso. Io...io ti ho chiamato per un altro motivo..."

Mio padre rimane in silenzio. Sento il suo respiro infrangersi nella cornetta.

"Credo che sia arrivato il momento di ringraziarti. Sì, devo ringraziarti per avermi spedito fin quassù. Ho capito perchè lo hai fatto e penso anche mi sia servito...ecco io...sono cambiato. Sono davvero cambiato molto..."

Mio padre sorride adesso, posso percepirlo da come il suo respiro è variato dentro l'apparecchio.

"Salutami mamma" aggiungo.

"Lo farò" dice lui, "sono felice di sentire queste tue parole. Puoi tornare quando vuoi, ti aspettiamo a casa. Hai capito la lezione e questo è sufficiente..."

All'improvviso mi sento tirare un lembo della camicia. Mi volto.

La piccola Rose mi guarda dal basso verso l'alto. I suoi occhi sono dello stesso verde di Iris ed è quasi impressionante stare qui a vederli.

La bambina non dice niente, si limita soltanto a puntare un dito in direzione del corridoio, dove una barella viene spinta da un paio di infermieri e altrettanti dottori.

La persona distesa ha una maschera che le copre quasi tutto il viso ed ha una cuffia sulla testa. E' stretta dentro a un telo color argento. Non riesco a vedere niente se non le mani abbandonate lungo il corpo. Le sue dita, così uniche e imperfette.

"Iris" sussurro, abbassando il cellulare dal mio orecchio.

Rose annuisce.

Chiudo la chiamata con mio padre e prendo la bambina per mano. La trascino verso la carovana di medici e paramedici in movimento verso l'ascensore.

"Iris! Iris!" La mia voce è rauca, nonostante cerchi di essere chiara e distinta.

"Voi qui non potete entrare" ci blocca una delle infermiere.

Allungo la testa, cercando di vedere Iris e il suo viso nascosto, ma la porta dell'ascensore si chiude prima che io possa scorgere anche un solo centimentro della sua pelle.

"Maledizione!" impreco, battendo un piede a terra.

Senza farmi prendere dal panico, stringo la mano di Rose nella mia e corro al piano superiore. La ragazzina per fortuna tiene il mio passo senza problemi. Salto i gradini a due a due, trascinandola con me. Arriviamo al piano di sopra in meno di mezzo minuto.

Il dottor Cox si alza per primo, venendoci incontro.

"Abbiamo visto Iris uscire dalla sala operatoria proprio adesso" dico all'uomo, riprendendo fiato.

Rose mi stringe la mano più forte. E' leggermente sudata e io capisco che deve essere in ansia tanto quanto me.

"L'hanno portata su dentro ad un ascensore. Ci chiameranno per vederla? Lo faranno non è vero?" mi agito.

Alle spalle del dottor Cox arrivano anche Mike e Eva. Li guardo, scorgendo nelle loro espressioni la stessa tensione che c'è nella mia.
Credo di avere lo stomaco così stretto che non riuscirebbe a contenere neanche una sola goccia di acqua.

Poi la porta del reparto si apre.
Tutti restiamo immobili. Non muoviamo niente, neanche un singolo muscolo.

Uno dei medici che spingeva la barella dalla sala operatoria all'ascensore si avvicina a noi. Ha una cuffia di stoffa in mano e la fronte visibilmente imperlata di sudore.
Due profonde occhiaie gli solcano il volto, dimostrando quanto duro e delicato debba essere il suo mestiere.

"L'intervento è andato come previsto. Iris adesso ha dei polmoni nuovi e sani. E' sedata e resterà così per l'intera giornata. Domani, se i suoi parametri si manterranno stabili, potremo svezzarla dal ventilatore..."

Il signor Sanders si scambia uno sguardo fiducioso con il dottor Cox.
Sembra che sia andato tutto bene.

"Possiamo vederla?" chiede Eva, rivolgendosi al medico.

L'uomo annuisce: "Solo qualche minuto e, mi dispiace, ma posso far entrare al massimo un paio di persone..."

Il signor Sanders si fa avanti. E' sua figlia ed è giusto che sia lui il primo a vederla.
Il medico guida il padre di Iris dentro, indicandogli un camice, una cuffia e un paio di sovrascarpe da indossare. Poi la porta si chiude.

"Io entrerò dopo di lui" dico, cercando il consenso di Eva e del dottor Cox.

Loro annuiscono, cedendomi volentieri il posto.

"Invece io credo proprio che tu debba metterti in coda!"

La voce di Steve si materializza alle mie spalle, fastidiosa.

Ci voltiamo tutti verso di lui, che arriva a passo svelto, fino a porsi a un centimetro dal mio viso. La sua faccia tosta non si smentisce neanche in un frangente simile.
Mi rendo conto che sono ancora mano per mano con Rose, la quale osserva Steve con occhi aperti e sorpresi. Credo che non le sia mai successo di vederlo in versione: difensore della mia migliore amica che non è affatto innamorata di me. 

Lascio andare il palmo della piccola Sanders e punto un indice dritto al petto di Steve.

"Tu sei un codardo!" sputo fuori a denti stretti. "E non mi vergogno se te lo sto dicendo qui, davanti a tuo padre, in una sala di ospedale. Perchè questa mattina non mi hai aspettato? Perchè mi hai rubato le chiavi e sei scappato con la mia auto? Ti ho rincorso e tu sei fuggito come un ladro! Credevo che avessimo chiarito, ma a quanto pare non abbiamo chiarito proprio un bel niente! Credevo che volessimo entrambi il bene di Iris, ma adesso ho capito che tu vuoi bene solo a te stesso!"

Steve si incendia. Le sue guance diventano più rosse del solito e insieme alle lentiggini creano uno strano alone violaceo.

"Io non ti ho visto" si limita a rispondere.

Mi scappa di ridere, ma solo perchè sono così nervoso che se potessi lo prenderei a calci e pugni.

"Bugiardo" soffio fuori. "Tu sei un bugiardo!"

Steve gonfia il torace o almeno quelli che hanno le sembianze di due pettorali.
I suoi occhi si stringono nei miei, ricordandomi che ieri sera l'ho deriso e mi sono pure divertito a farlo. Il suono dei suoi singhiozzi mi sfiora, ma solo leggermente.

In amore c'è sempre chi vince e chi perde, ma lui non accetta quest'ultima opzione, proprio non vuole ficcarsela in testa.

"Ragazzi, per favore non litigate. Non adesso" dice Eva, mettendosi in mezzo.

Il dottor Cox prende sotto braccio suo figlio, allontanandolo da me.

"Entrerò io dopo Mike! Non Dylan!" esplode Steve, lasciandosi trascinare dal padre fino alle sedie poco distanti.

Stringo i denti e caccio dentro tutta la rabbia che le sue parole e la sua sola presenza mi provocano.

Rose allunga di nuovo la mano sulla mia.
"Dylan, stai calmo. So che vuoi vedere mia sorella, anche io vorrei farlo, ma lascia entrare Steve. Sai, credo che a Iris non farebbe piacere vedervi litighiare così..." dice, con la sua flebile voce da bambina.

Il mio cuore si stringe alle sue parole.

Rose mi sorride, lo fa in modo innocente.
Lo fa come farebbe una madre con il proprio figlio, come una piccola donna saggia.
La sua mano mi tira la manica della camicia, facendomi abbassare alla sua altezza. Poi allunga leggermente il collo e mi sussurra all'orecchio: "Non importa che tu non riesca a vedere mia sorella, quello che conta è che lei riesca a vedere te. E lo sta facendo. Lei sta dormendo adesso ed è te che sta sognando, ne sono sicura!"

Una lacrima mi solca il viso.
La sento scendere, calda e lenta.
Dentro quella lacrima ci sono le cinque ore di attesa. Ci sono tutte le mie paure e tutto il mio grande, enorme e potente desiderio che Rose abbia ragione.

Con poche parole la piccola Sanders è stata in grado di placare la mia furia, la mia sete di vendetta. Il mio dolore.
Adesso non resta altro che cedere a Steve il mio posto ed aspettare che arrivi domani.
Spero solo che non ci metta troppo.

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