CV Dylan: CORSA CONTRO IL TEMPO

Canada, 31 luglio 2010

Esco dalla doccia con l'asciugamano legato in vita. Mi guardo allo specchio e noto che c'è bisogno di dare di nuovo una sistemata alla barba. L'ho fatta solo qualche giorno fa, ma sembra crescere davvero in fretta! Che sia l'aria delle montagne? Apro il cassetto e recupero il rasoio e il dopobarba di Steve. Sono sicuro che il rampollo di casa Cox non si accorgerà di niente, con quei tre peli che si ritrova si farà la barba una volta all'anno!

Fischiettando mi schiaffeggio le guance.
Ho proprio un bel colorito questa mattina.

I miei occhi fissano il loro riflesso più del dovuto. Sono pronti. Sono perfettamente in sintonia con il mio corpo e con la mia anima. Sanno esattamente cosa fare e anche cosa esprimere.

Le mie labbra si muovono leggermente, lasciando uscire due sole parole: "Ti amo".

Non sarà così difficile. Basterà incrociare lo sguardo di Iris e lasciarmi andare, proprio come sto facendo adesso con la mia proiezione. La promessa si infrangerà, disgregandosi in mille pezzi, ma il mio cuore finalmente troverà pace, quella pace che ha gli stessi occhi verdi e cristallini dell'amore.

Quando esco fuori dal bagno, pulito e pronto per affrontare una stupendissima giornata, mi aspetto di trovare l'intera famiglia Cox a riempirsi la pancia di pancake al miele, invece nel salone non c'è nessuno. La sedia del capofamiglia è vuota e anche quella di Steve. Solo la signora Lydia è seduta al tavolo e, in piedi dietro di lei, la giovane domestica. 
Dopo i primi attimi di perplessità, per aver battuto tutti sul tempo, scendo la gradinata.

"Buongiorno!" esclamo con enfasi.

Lydia si volta e muove appena la bocca, in quello che dovrebbe assomigliare il più possibile a un sorriso, ma che in realtà è piuttosto simile a una smorfia indefinita.
La cameriera mantiene le mani incrociate sul ventre e gli occhi bassi. Strano che questa mattina non mi guardi affatto.

"Dove sono gli altri?" chiedo, mettendomi a sedere accanto alla signora Cox.

La donna fissa i ricami presenti sulla tovaglia di seta. Seguo i suoi occhi e studio la sua strana espressione.

"E' successo qualcosa?" indago, sentendo lo stomaco stringersi.

Lydia butta fuori un lungo respiro e finalmente si decide a riportare la sua attenzione su di me. "Mio marito è uscito presto, è andato in ospedale. Iris è stata chiamata per il trapianto"

Il sangue smette di scorrere nelle mie vene o almeno è questa l'immagine più simile alla sensazione che provo.

"Bill ha appena telefonato e ha chiesto a Steve di raggiungendo, stanno portando Iris in sala proprio adesso. Sai, lei voleva salutare il suo amico prima di chiudere gli occhi...."

Se pochi attimi fa mi sentivo privo di liquido corporeo, adesso mi sento anche privo di materia grigia. Smetto di pensare o, forse, le parole della signora Cox sono così grosse, che mi prendono quasi tutto il cervello.

Iris sta per essere operata. Iris vuole salutare il suo amico. Steve. Non me.

Non so quello che mi prende, ma è come se la sedia iniziasse improvvisamente a bruciarmi sotto al sedere. Scatto in piedi, senza occuparmi di rivolgere un saluto alla signora Cox o alla cameriera immobile affianco a lei. Corro fuori. L'aria e il sole mi investono, facendomi stringere gli occhi. Vedo la berlina uscire dal cancello e la porta della dependance spalancata. A quanto pare Steve si è preso le chiavi dell'auto che suo padre mi ha affidato.

La rabbia mi sorprende come una grande vampata di calore. Dallo stomaco fino alle tempie. Non può aver fatto una cosa simile. Non può essere scappato da solo in ospedale, lasciandomi qui. Mi sembra di impazzire.
Devo vedere Iris prima che venga addormentata. Devo farlo, perchè lei è necessario che sappia.

Io la amo. La amo come non mi è mai successo in tutta la mia vita. Lei, la sua semplicità e il suo mondo, così ingenuo e incantato, mi hanno stregato il cuore. Lo hanno rapito, ammanettandolo per sempre.

Un nodo mi si ferma in gola, tanto che devo allentarmi il colletto della camicia.
E se non volesse vedermi? Infondo lei ha chiamato Steve, non ha chiesto di me.
Forse si è pentita di ciò che è successo questa notte. Forse non vuole avere niente a che fare con me o, più semplicemente, non mi vuole vicino in questo momento.

Ci sarà suo padre, ci saranno i suoi cari e Steve. Io non sono nessuno, infondo.
Non sono nessuno per lei.
Nessuno di davvero importante.

La furia, mescolata all'amore e al risentimento, creano una vera e propria bomba dentro al mio cuore. Una bomba che esplode, provocandomi una reazione fuori dal comune, fuori da ogni mio schema, anche quello più lontano.

Un grido, gutturale, di petto, si genera dentro la mia gola. I miei piedi si muovono veloci, correndo lungo il viale. I sassolini schizzano sotto alle mie scarpe. Sembrano piccoli petardi, lanciati per esplodere poco lontano.
Raggiungo le inferriate del cancello e vedo il retro della berlina svoltare l'angolo.

"Steve, fermati!" urlo.

L'auto si muove veloce e in pochi secondi si immette nella via principale.
Senza pensarci due volte, senza neanche razionalizzare la cosa e i fatti, mi getto nel suo inseguimento. So bene che non riuscirò mai a raggiungerla. E infatti Steve è a metri di distanza ed ha già ingranato la quarta o forse la quinta, sparendo completamente dalla mia vista.

Continuo a correre, fin quando le mie gambe non iniziano a tremare. Le mie ginocchia cedono e mi ritrovo a terra.
Mi prendo la testa tra le mani. Credo di morire, qui, sull'asfalto di questa via poco trafficata e in questo paese che non conosco, ma credo mi sia entrato dentro, tanto quanto la Grande Mela.

"Ehi, ragazzo, è successo qualcosa?"

Alzo lo sguardo e incrocio quello di un uomo. Non è un volto nuovo. Devo averlo visto già da qualche parte. Mentre sto cercando nella mia testa dove possa aver incrociato questi occhi sottili e scuri, il tizio mi tende la mano, aiutandomi ad alzare.

"Non dirmi che non ti ricordi di me!" esclama, lasciando andare la sua presa. "Mi hai offerto un bel malloppo perchè licenziassi la tua amichetta..."

La mia testa, confusa e avvilita, improvvisamente riprende a ragionare.

"Il proprietario della taverna" punto un indice contro il petto dell'uomo.

"Esattamente, Pedro" annuisce.

"Signore, io...io...credo di essere nei guai. Non proprio nei guai per qualcosa che ho fatto, sono piuttosto...disperato. Ecco sì, sono disperato!"

L'uomo mi scruta, serio.

"Iris sta per essere operata. Sta per avere un trapianto e io sono bloccato qui. Non ho l'auto perchè se l'è rubata il suo migliore amico, che sta correndo da lei. Non ho idea di dove sia l'ospedale e non so neanche se Iris mi voglia vedere. Ma io devo andare da lei. Le devo dire che mi sono innamorato. Devo farlo adesso. Ne ho bisogno. Iris deve sapere. Non posso aspettare, capisce? E se l'intervento non andasse come deve andare? E se le succedesse qualcosa? Io non posso vivere senza dirglielo. Io..."

"Ragazzo, calmati!" mi frena il tizio.

Un paio di moto ci passano vicine, fermandosi al semaforo poco distante.

"Capisco il problema e capisco che è anche piuttosto rilevante. Purtroppo io non ho un'auto, quindi non posso darti un passaggio, ma c'è un autubus per l'ospedale e credo che parta proprio tra qualche secondo. Vedi, la fermata è proprio là! " indica l'altro lato della strada. "Ci metterai un quarto d'ora ad arrivare, non di più!"

Non ho tempo per fermarmi a ringraziarlo, non ho tempo neanche per riprendere fiato. Guardo Pedro, che resta fermo sul ciglio della strada, e guardo la pensilina poco distante. Attraverso la strada proprio mentre un bus blu scuro sta arrivando. Il mezzo si ferma, così che io possa salire a bordo. Quando sono sopra mi butto sul sedile e riprendo fiato. Poi, prima che il pulmann parta, guardo fuori.

Pedro mi alza il pollice. Lo faccio anche io per poi rigettare indietro la testa e liberare un respiro lungo e profondo.
Quindici minuti per l'ospedale.
Solo quindici minuti.
Spero che bastino. Spero che siano sufficienti.

Ormai non ho più certezze, solo di una cosa sono sicuro: questo sarà il viaggio più breve e più lungo di tutta la mia vita.
***

Quando arrivo alla reception all'ingresso dell'ospedale, chiedo dove sia stata portata Iris Sanders. Una donna, al telefono, mi guarda da sotto un paio di piccoli occhiali e mi dice di attendere un attimo.

La conversazione via cavo sembra non finire più. I secondi passano ed io inizio ad agitarmi. Sono sudato per la corsa che ho fatto, sono sconvolto per la notizia ricevuta ma, soprattutto, sono terrorizzato di non essere più in tempo. Così, preso dalla frenesia emotiva, mi sporgo sul bancone e ringhio contro la signora tranquilla e serena di fronte: "Ho detto che cerco Iris Sanders. Me la trovi, subito!"

La donna mi guarda con una espressione tra sorpresa e spavento. I miei occhi immagino non siano la cosa più rassicurante di questo mondo e neanche i pugni che tengo stretti lungo il corpo.

"Terapia intensiva" dice, posandosi la cornetta del telefono sul petto.

"Grazie! Visto? Non era poi così difficile!"

Mi guardo intorno alla ricerca di qualche indicazione. Seguo i cartelli che mi portano a salire di un paio di piani. Svolto a destra e a sinistra, tra gente che va e viene e dottori con camici bianchi. E' tutto caotico intorno a me. Ho quasi paura di essermi perso, quando, improvvisamente, vado a sbattere contro qualcuno. Sto per chiedere scusa, ma poi alzo gli occhi e incontro quelli della signora con la quale mi sono appena scontrato.

"Dylan!" La donna scuote la testa e allenta un semplice sorriso.

"Eva" sussurro. Poso le mani sulle ginocchia e cerco di riprendere fiato.

"Iris è stata portata via poco fa..."

"Portata dove? Io...io devo parlarle! Io..."

"Dylan, è troppo tardi..." Le parole della donna mi rimbombano in testa, confondendomi e riempiedola in modo esagerato.

"Dov'è?"

Eva si volta appena, sfuggendo al mio sguardo. Dietro di lei, su sedie di plastica rosse ci sono tutti. Mike Sanders, immobile, con la testa tra le mani. La piccola Rose con le sue guance rosse e i suoi occhi vivi e familiari. Bill Cox, che mi fa un cenno con la mano e suo figlio, che evita di guardarmi, fingendo di scrutarsi le unghie.

"Iris sta scendendo in sala operatoria" dice la sua matrigna, "ci hanno fatto uscire dal reparto. La aspetteremo qui fin quando non farà ritorno"

Scuoto la testa, incapace di darmi per vinto. Faccio qualche passo indietro. Prima lentamente, poi sempre più veloce. Alla fine quei piccoli passettini si trasformano in una corsa vera e propria.

Eva mi richiama: "Dylan, che vuoi fare? Dove vai?"

La sua voce sparisce nel corridoio. Torno a guardare i cartelli. Questa volta quelli che indicano le sale operatorie.
Scendo la rampa di scale a tutta velocità.
Sento il sudore incollarmisi dietro la schiena e anche dietro la nuca. Sento i capelli schiacciarsi contro la fronte ma, soprattutto, sento le lacrime pungermi gli angoli degli occhi.

Mi soffermo, posando il palmo contro una delle colonne. Alzo lo sguardo e di fronte a me c'è la porta delle sale operatorie. Sto per gioire, ma non lo faccio. L'entrata è chiusa. Ovvio.

Lo sconforto ormai ha la meglio su di me.
Non riuscirò a salutare Iris.
Non riuscirò a farlo.

Poi, quando ogni speranza sembra persa, vedo arrivare un'infermiera con alcune cartelle in mano. La seguo. I miei occhi sono un tutt'uno con la sua figura. Non appena giunge alla mia altezza mi scaglio contro di lei. Con un braccio le stringo il polso e con l'altra mano le tappo la bocca, così che non si metta a urlare richiamando l'attenzione dei presenti.
Odio la violenza, odio dovermene servire.
Ma qui si tratta di sopravvivenza ed ogni mezzo è lecito.

"Aprimi quella porta!" le ringhio all'orecchio.

La donna trema sotto alla mia presa, cercando di liberarsi.

"Non ti farò del male. Non l'ho mai fatto a nessuno. Devo solo parlare con una persona prima che la addormentino. Devo dirle...io...lei...deve sapere che la amo...."

La giovane infermiera smette di agitarsi.
Mi guarda terrorizzata, ma non oppone resistenza e, senza che insista più di tanto, digita il codice di sicurezza.

La lascio andare ed entro dentro, furtivo.
Il corridoio è lungo è c'è silenzio.
Le stanze che si trovano ai lati sono chiuse e la luce è fioca, quasi buia.
Mi guardo intorno, incapace di orientarmi.
Poi, il rumore di quattro ruote che girano nel linoleum mi sorprende alle spalle.
Mi nascondo dietro ad un paravento e lascio che una infermiera passi, spingendo una barella. Se mi vede mi farà uscire immediatamente e non troverò mai Iris.

La donna si sofferma, apre uno degli armadietti appesi alle pareti e prende un paio di zoccoli verdi. Toglie i suoi e indossa i nuovi. Mentre compie questa manovra i miei occhi si posano sulla figura stesa sopra la barella.

Il mio cuore si ferma.
In realtà tutto si arresta intorno a me.

"Iris!"

La mia voce rimbomba nello stretto corridoio.
L'infermiera si riscuote e si volta, sgranando gli occhi impaurita.

Iris si mette seduta sulla barella. I nostri sguardi si incontrano e le nostre labbra si piegano in un sorriso. Ce l'ho fatta. Sono riuscito a trovarla. Sono riuscito a vederla e adesso non mi resta altro che correre da lei e abbracciarla. Stringerla forte e dirle quello che provo da quando l'ho vista, da quando ci siamo parlati la prima volta e da quando i nostri mondi si sono incontrati.

"Tu non puoi stare qui!" dice l'infermiera, riprendendosi dallo shock della mia presenza. "Devi uscire, subito!"

Ignoro le richieste della donna e raggiungo la barella.

"Iris, perchè non volevi vedermi? Perchè non volevi salutarmi? Ti sei pentita per quello che è successo tra noi? E' questo il motivo?"

Iris aggrotta la fronte.
Porta una cuffietta vede, che mette decisamente in risalto i suoi occhi.

"Pentita? Io...io non sono affatto pentita. Di niente. Ho chiesto a Bill di avvertire te e Steve, ma è arrivato solo lui, proprio un attimo fa, appena in tempo per salutarmi prima che mi caricassero in ascensore. Oh, Dylan! pensavo che tu non te la sentissi, che non ne avessi voglia o...non so cosa pensavo..."

"Stai scherzando? Steve non mi ha detto niente, è scappato con la berlina ed io ho preso un autobus per arrivare...credevo di non farcela, credevo..."

Iris abbassa la testa. La sua fronte si posa contro la mia.

"Steve non cambierà mai. La sua gelosia...ma adesso sei qui..." sussurra.

"Sì sono qui! Sono qui" mi spingo contro di lei e la abbraccio. La stringo più forte che posso. Più forte di quanto sia possibile immaginare.

"Ragazzo, adesso devi uscire. Questo è un luogo riservato e non dovresti stare qui. Se qualcuno dovesse vederti...Iris, per favore..."

La donna cerca di dividerci, ma non ci riesce. Le mie braccia sono incollate al busto della ragazza che mi ha sconvolto e arricchito l'esistenza.

"Solo cinque minuti" chiede Iris alla donna, supplichevole.

L'infermiera sospira. Si guarda intorno guardinga e alla fine si lascia andare in un: "E va bene, ma non un secondo di più!"

Iris sorride, ringraziandola ed io torno a respirare a pieni polmoni.

Cinque minuti.
Cinque minuti solo per noi.
Cinque minuti per dire alla ragazza che ho di fronte che è l'amore più grande della mia vita.
L'unico.

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