Natale in cella Vicenti-Lonigro

"Forza, sveglia"- una delle guardie, a suon di scossoni e con poca delicatezza, interruppe il sonno della giovane, che s'era lasciata andare tra le braccia di Morfeo dopo una serie di notti insonni. Era la mattina dell'antivigilia di Natale.

"Forza, bella: hai visite!"- ripeté l'uomo in divisa.

Gli occhi di Rebecca s'aprirono: "V-visite?"- chiese, pensando subito all'avvocato Ciliberti, unica persona che forse avrebbe avuto ancora qualcosa da dirle, qualche questione in merito a cui aggiornarla. Si diresse verso il parlatorio, focalizzando già nella sua mente l'immagine dell'avvocato dagli occhi color cobalto. Lo stupore nel trovarvi sua madre e i suoi amici, Irene e Luigi, fu enorme.

"Cosa ci fate voi qui?"- chiese la ragazza sgranando gli occhioni.

"Figlia mia, è pur sempre Natale e... una madre, per quanto in certe occasioni debba fare la dura, non smette mai di amare una figlia. - le sorrise la donna.

"Mamma... vi ringrazio tutti!"- disse Rebecca incurvando le labbra come a voler sorridere, volgendo anche ai suoi amici uno sguardo commosso.

"Cerca di non lasciarti andare, d'accordo?"- sussurrò Irene tenendo il capo basso, perché l'amica non si accorgesse che stava soffocando le lacrime.

"Credevo foste arrabbiati a morte con me... non avrei mai immaginato che..."- provò a dire la Vicenti.

"E 'quasi Natale, e a Natale si prova a comprendere, per quanto le azioni da te commesse restino irrazionali e inspiegabili. Si prova a comprendere e a perdonare. È il senso di questa festa, no?

"G-grazie!"- mormorò Rebecca

Seguirono alcuni momenti di spettrale ed eloquente silenzio, poi Rebecca proseguì: "Credete di riuscire a perdonarmi, un giorno?"

"Il fatto che siamo qui significa che abbiamo già voluto muovere i primi passi verso il perdono, perché... quella che ha agito come tu hai agito, non è la vera Rebecca"- sostenne sua madre. Tutti dovettero asciugarsi una lacrima, mormorando all'unisono "Buon Natale", anche se sarebbe stato così diverso da tutti gli altri. Rebecca aveva ricevuto il suo inaspettato regalo: la visita delle persone care e un germoglio di perdono. Avrebbe desiderato quello di Beppe, ma era ben consapevole che non sarebbe mai arrivato.

A Villa Guglielmi, intanto, il marchese Attilio e la Marchesa Ginevra attendevano dietro la porta chiusa di una delle stanze. Dentro c'era il dottor Valenti, intento da una buona mezz'ora a visitare il povero Beppe.

"Tanto ormai lo sappiamo quale sarà la diagnosi!"- disse con voce stanca e strozzata Attilio Guglielmi.

"Aspettiamo a sentenziare: di medicina non ci capiamo nulla."- gli ripose sua moglie, più speranzosa.

"Ma fammi la cortesia, Ginevra! I sintomi sono fin troppo eloquenti. Quelle ulcere su tutto il corpo (e io gliele ho viste) e poi anche sulla lingua e sul palato. Per non parlare della dolenzia e dell'intorpidimento delle gambe. L'altra sera mi diceva che non aveva più sensibilità!"- precisò Attilio portandosi una mano alla fronte. Finalmente, il Valenti uscì dalla stanza, richiudendo la porta alle proprie spalle.

"Dottore, allora?"- incalzò subito il marchese Guglielmi, balzando in piedi.

"Marchese, sono desolato, ma i vostri e i miei sospetti, sono purtroppo confermati!"- proferì Valenti a capo chino.

"Ma... siete proprio sicuro?"- mormorò il marchese spalancando gli occhi.

"Sì, Marchese. Alla luce di quanto ho constatato, non nutro alcun dubbio"- replicò l'uomo, prendendo cappello e cappotto dall'appendiabiti.

"Ma... non c'è davvero niente che si possa fare? E soprattutto, credete che la malattia avanzerà rapidamente? Perderà le facoltà mentali?"- Attilio Guglielmi espresse totale fiducia nell'operato del Valenti, ma proprio per questo, non esitò a sommergerlo di domande.

"Comprendo benissimo che siano diagnosi spiazzanti, marchese. C'è poco che possiamo fare, oltre alle cure previste dal protocollo in questi casi. Si tratta di iter che si protraggono anche per anni, ma... sono a conoscenza di casi in cui tutto si è consumato in maniera molto più rapida, soprattutto lì dove sono sopraggiunte complicazioni a carico di altri organi intaccati. Posso solo garantirvi che tenteremo il tutto e per tutto, ma se anche vostro figlio guarisse, non sarebbero da escludersi conseguenze permanenti, che si trascinerebbe dietro per la vita. Spero di essere stato il più esaustivo possibile. Malgrado tutto, cercate di vivere questi giorni di Festa facendo un po' di posto alla speranza. Fatelo anche e soprattutto per vostro figlio!"- spiegò il Valenti.

"Vi ringrazio dottore. Buone feste anche a voi!"- mormorò la Marchesa.

Andato via il medico, i genitori corsero nella stanza del figliolo, che piangeva silenzioso, con lo sguardo fisso al soffitto.

Ginevra gli si avvicinò, baciandoli la fronte che ribolliva a causa della febbre.

"Potrebbe essere il mio ultimo Natale con voi: voglio che lo si viva al meglio!"- scandì Beppe.

"Figlio mio, che dici? Noi ne avremo tanti, tantissimi di Natali assieme!"- gli disse suo padre abbracciandolo. Sarebbe stato un triste, tristissimo Natale quello in casa Guglielmi, come in tutte le famiglie coinvolte in questa assurda tragedia. Beppe riuscì a persuadere i suoi ad allestire Presepe e albero in salone. Voleva, nonostante tutto, sentirsi ancora vivo. Voleva dimenticare le sue sventure, per quei pochi giorni di festa, quelli che volevano via più in fretta degli altri. I primi pensieri di odio e repulsione verso Rebecca, nonostante tutto, si erano trasformati in un gran senso di vuoto e mancanza. Arrivò la sera della Vigila, e le guardie carcerarie portarono in cella una cena diversa dalla solita brodaglia insapore e dal solito pane raffermo. Tortellini al sugo e polpettine dal sapore pessimo, preparate con lo scarto di una carne già di qualità scadente. C'erano anche dei panini dolci con le uvette, che avrebbero dovuto sostituire il panettone.

"Accidenti: che lusso stasera. Potremmo quasi abituarci, sapete"- sorrise sarcastica Chiara Lonigro.

"Biondina, è Natale anche per i rifiuti della società come voi. Il direttore vuole che siate trattate da esseri umani, almeno la sera del 24 e il giorno del 25 dicembre"- rispose uno degli omoni in divisa.

"Il problema riguarda tutti gli altri giorni, perché non cambiano forma, diventando buoi o asini. Restiamo sempre esseri umani!"- si lasciò scappare Rebecca. La guardia la fissò con disappunto e disgusto, sparendo poi dall'altra parte delle sbarre assieme ai colleghi. Le due ragazze mangiarono con grande appetito. Il silenzio imbarazzante proseguì poi fino allo scoccare di una mezzanotte annunciata dai rintocchi dei campanili di ogni Chiesa.

"Posso descriverti il Presepe che faceva mio papà?"- domandò a un tratto la Vicenti.

"Certo!"- sorrise la Lonigro.

"Però devi fare come me, devi chiudere gli occhi e immaginarlo"- la incitò la sua compagna di cella. La bionda e la mora, chiusero gli occhi all'unisono, e Rebecca iniziò a parlare di come dal legno nascessero le casette e i castelli. E poi i ponticelli, i recinti con le galline, i conigli e i maialini, i fiumiciattoli e la neve creata con il cotone. E ancora le descrisse i volti di ogni singolo pastore: la lavandaia, in procinto di stendere una camicina immacolata, gli zampognari con gli occhi socchiusi, che parevano suonare e pregare allo stesso tempo. La vecchia che filava, i due giocatori di carte, seduti l'uno di fronte all'altro, a simboleggiare i due solstizi. E poi c'era lui, Benino, l'addormentato. Il pastore della meraviglia che non può essere svegliato, perché dormendo sogna il Presepe, e se si destasse, l'incanto svanirebbe. Chiara ascoltò rapita, e come a Benino, anche a lei parve di vedere quello che in realtà non c'era. Le due si riabbracciarono, non vergognandosi di abbandonarsi ancora una volta al pianto.

"Buon Natale, Rebecca. Magari, un giorno, quando usciremo di qui, lo allestiremo insieme un bel Presepe, e ci riprenderemo questo Natale perduto!"- la incitò la Lonigro.

"Buon Natale, Chiara. Speriamo che avvenga quanto tu dici! Tieni, assaggia qualcuno di questi dolcetti: li hanno fatti mia madre e una cara amica di famiglia. Sentirai che buoni. Facciamoci la bocca dolce, e mandiamo giù il veleno!"

Mentre mangiavano con gusto, l'udito delle due compagne di cella fu catturato da un suono singolare. Riuscirono ad identificarlo solo quando si fece più nitido e vicino: era il suono di zampogne. Qualcuno aveva deciso di portare qualche nota di speranza anche presso uno dei luoghi in cui si soffre di più. La piccola finestra della cella, con troppe sbarre per guardare giù, impedì alle ragazze di vedere di chi si trattasse, ma benedissero quei suonatori misteriosi, venuti a ricucire un po' i loro cuori.

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