La sentenza

"Avendo vagliato la diagnosi redatta dal Dottor Fabrizio Demichele, questa corte può pronunciarsi in maniera netta e definitiva in merito al caso giudiziario in esame. Appurato senza margine di dubbio alcuno che la signorina Vicenti sia affetta da turbe mentali, la corte ne dispone l'internamento in manicomio, ove sarà attenzionata giorno e notte da due guardie, oltre che dal personale, medico e , operante nella suddetta struttura!"- disse il giudice con voce greve e decisa.

Rebecca si sentì morire e l'avvocato, incredulo, trasecolò.

"Ma... ma... vostro onore... la mia cliente potrebbe benissimo ricevere a domicilio tutte le cure del cas.."- provò a dire Ciliberti, con il tono metallico di una persona non in grado di percepire neanche il suono della propria voce, se non sotto forma di eco insensato.

"Avvocato, vi siete battuto per dimostrare l'infermità mentale della signorina Vicenti, e ci siete riuscito. Non vedo proprio cosa possiate ora obiettare. Il manicomio è il luogo in cui vengono curati i pazienti come la signorina Rebecca!"- lo zittì La Manna.

Il giudice si rivolse poi al dottor Demichele, presente anch'egli in aula: "Dacché siete stato voi a visitare l'imputata e a diagnosticarne la patologia, sarebbe cosa opportuna affidarla alla vostra clinica. Disporrò che il trasferimento avvenga domani stesso. Sarete voi a valutare il tempo necessario per il quale dovrà essere assoggettata alle cure!"

"No, in manicomio tra i pazzi no, ve ne scongiuro!"- piagnucolò Rebecca.

"Signorina Vicenti, come spiegavo pocanzi al vostro avvocato, non si tratta di un albergo per pazzi, ma di un luogo in cui vengono curate le persone che ne hanno necessità, per esser restituite alla società. Sono convinto che il dottor Demichele e il suo personale vi tratteranno con tutte le cautele e con tutta la professionalità del caso. Non è vero, dottore?"- domandò il giudice, cercando con lo sguardo il giovane medico.

"Certo, vostro onore!"- annuì quello.

Ciliberti ebbe invece una tremenda crisi di nervi: "DANNAZIONE, DANNAZIONE, DANNAZIONE!"- urlò, prendendo a calci e pugni il banco dietro cui era stato per l'intera durata dell'udienza.

"Avvocato, un simile comportamento non ve lo consento! Devo forse dedurre che manchino più ingranaggi mentali a voi che alla vostra cliente?"-lo redarguì ancora il giudice.

L'uomo rimase ammutolito: s'udì solo lo stridere dei suoi denti, e gli si videro gonfiare le vene sulla fronte e sulle mani, strette in due pugni che non potevano colpire.

"Ci ho provato, Rebecca, davvero, ci ho provato con tutte le mie forze!"- sussurrò mortificato alla sua cliente, prima che la riportassero dietro le sbarre.

"Non preoccupatevi, avvocato, avrei dovuto essere io a dissuadervi. Sapevo che non sarebbe stata affatto una buona idea, e immaginavo che di certo non mi avrebbero rispedita tranquilla e beata a casa. Ma va bene così! Solo mi dispiace dover dire addio all'ultimo sogno che avevo..."- emise la ragazza con voce strozzata, facendo chiaro riferimento al riabbracciare il suo amato.

In cella, Chiara Lonigro, che di mestiere avrebbe potuto far la sensitiva, s'accorse che qualcosa di grosso e di brutto dovesse essere accaduto. "Non è andata come speravate tu e il tuo avvocato, vero? Fammi indovinare: ti trasferiranno in qualche clinica per matti, non è così?"- predisse la bionda.

"Non so come accidenti tu facessi a saperlo, ma è andata proprio come dici! Chiara, questa sarà l'ultima notte che trascorrerò in cella e me ne dispiaccio. Qui almeno avevo trovato un'amica con cui confidarmi, mi sentivo ormai quasi a casa. Dove mi porteranno invece... beh...credo sarà severamente abolita ogni possibilità di rapporto umano. Inoltre, non potrò più sperare in alcun modo di rivedere Beppe. Ma la colpa non è esclusivamente di Ciliberti. È anche la mia, perché mi sono prestata a questa pantomima! "- confessò la mora sdraiandosi sulla sua branda con lo sguardo perso nel vuoto del soffitto, assumendo lo stesso atteggiamento di quando era entrata in carcere. Quella flebilissima speranza aveva fatto sì che il suo morale si mantenesse elevato, ma ora, anch'essa era svanita.

"Io già li detesto gli addii, figuriamoci scambiarseli in anticipo! Ah, al diavolo: godiamoci quest'ultima serata!"- asserì Chiara, sintetica ed essenziale come sempre.

"Trovo tu abbia ragione: il qui e l'adesso sono le uniche cose che vanno vissute. Dovremmo provare a dormire un po' ora!"- replicò Rebecca dopo aver ricambiato l'abbraccio. Sapeva che non ci sarebbe riuscita affatto, ma disse la prima cosa che la mente le suggerì per non cedere alla commozione.

Al mattino le guardie vennero di buonora ad aprir la cella: "Vicenti, è ora di andare, cocca"- disse uno di quegli omoni.

"Arrivo, solo il tempo di raccattare le mie cose!"- rispose la mora. Chiara le si fece incontro e l'abbracciò ancora: "Dai, che magari ci rivedremo davvero fuori di qui, e mi farai conoscere anche il tuo Beppe di cui e gli amici di cui mi hai parlato!"- le disse soltanto

"No, Chiara: da un carcere si può uscire, presto o tardi, ma da un manicomio, se ti ci fanno uscire è solo dentro una cassa. Ad ogni modo, promettimi che sarai tu ad uscire di qui, e a vivere anche per me, d'accordo?"- le rispose la compagna di cella, consapevole del destino a cui stesse per andare incontro. Chiara tirò su col naso e annuì.

Rebecca fu quindi scortata al treno, con ai polsi le manette che si addicevano a una "criminale" come lei. Una volta in carrozza, le due guardie le sedettero di fianco: un omone alla sua destra e l'altro alla sua sinistra, senza rivolgerle una sola parola per tutto il viaggio. Ormai era troppo stanca, anche solo per piangere. Decise perciò di fare l'unica cosa che in quel momento le avrebbe arrecato un po' di sollievo: dormire. Dormire con la testa appoggiata al finestrino, senza degnare della minima attenzione lo scorrere del paesaggio. Il viaggio durò più di un'ora, poi il treno si arrestò, e lo scalpitio dei passeggeri, che s'affrettavano a scendere, svegliò Rebecca. Ci mise una buona manciata di secondi a realizzare perché fosse salita su quel treno e soprattutto quale fosse la destinazione.

"Avanti, si scende. Ci sarà da camminare un bel po'!"- l'avvertì uno dei due cerberi che avevano condiviso il viaggio con lei.

La struttura del dottor Demichele si trovava a circa 2km dalla stazione della capitale pugliese, e Rebecca li percorse muta e capo chino, con in testa un solo pensiero, un solo nome.

S'intravidero in lontananza le mura dell'imponente ospedale psichiatrico: incuteva paura quel grigio fatiscente. Con molta probabilità, era stata edificata a inizi Ottocento e chissà quante persone c'erano morte lì dentro. Rebecca inspirò a pieni polmoni. Quasi sicuramente, non avrebbe più avuto la possibilità di respirare l'aria al di fuori di quel posto. Chissà, magari avevano un bel giardino dove far passeggiare quegli zombie a cui l'anima era stata cacciata fuori dal corpo a suon di farmaci ed elettroshock. L'aria di fuori, però, era tutt'altra cosa.

Il dottor Demichele si fece trovare ad attenderla assieme a due infermiere.

"Signorina Vicenti, benvenuta. State tranquilla, qui ci occuperemo di voi al meglio"- esordì il medico in tono gentile. Gli uomini in divisa le slegarono i polsi e porgendo il saluto militare, e si diressero verso la stazione.

"Vi mostro parte della struttura: vi ci troverete bene, quasi come in un hotel!"- asserì Demichele. Rebecca sgranò gli occhi, chiedendosi come potesse sostenere una simile assurdità con tanta convinzione.

"Questo è il nostro giardino: visto il periodo, ci sono ancora solo i bucaneve, i ciclamini e pochi altri fiori invernali. In primavera però è un tripudio di colori"- sorrise Demichele. In virtù della sua esperienza di medico, qualcosa in quella ragazza continuava a non convincerlo. Conosceva alla perfezione lo sguardo dei matti, e quello di Rebecca non vi somigliava affatto. Ma il giovane medico sapeva meglio di chiunque altro quanto certi pazienti potessero, loro malgrado, riuscire a dissimulare. E dissimulavano al punto da alternare momenti in cui apparivano sanissimi, ad altri di pura e spaventosa follia. La Vicenti e il Demichele si inoltrarono quindi all'interno della struttura. Nel corridoio, la luce verdognola, che funzionava a intermittenza, ora più vivida ora più smorta, conferiva all'ambiente un'aurea macabra e quasi "cimiteriale". Le urla agghiaccianti provenienti dalle stanze poste l'una di fianco all'altra, ai due lati del corridoio, spaventarono Rebecca.

"Oh Signore!"- esclamò la giovane- "Che cosa stanno facendo a quei poveri cristi?"

Il dottor Demichele tacque per un po': come si poteva spiegare a una nuova paziente ciò che era meglio non sapesse, ma di cui si era accorta? E se nel posto sbagliato.

"Non dovete preoccuparvi, Rebecca. Questa è l'ala della struttura in cui si trovano i pazienti più problematici. Ma non è qui che alloggerete voi. La vostra stanza è al piano di sopra, dove si trovano i pazienti meno gravi, e quindi con più possibilità di guarigione!"- spiegò cercando di ostentare sicurezza. La porta di una delle stanze s'apri, e una ragazza dai capelli rossicci e arruffati, che doveva avere all'incirca la sua età, le urlò: "Fuggi via, fuggi via! Qui ti ci fanno prima impazzire e poi morire! Fuggi, fuggi via!"

Subito un'infermiera l'afferrò prima per i capelli e poi per i polsi, trascinandola in camera. Demichele ridacchiò: " È più che evidente che quella ragazza non sappia quel che dice, che abbia perso ogni contatto con la realtà. Voi siete consapevole che qui non maltrattiamo nessuno, ma aiutiamo solo a guarire, vero?"

Rebecca lo fissò con sgomento, poi, abbozzando un sorriso forzato, asserì un semplice: "Ma certo!"

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