L'inizio della battaglia legale.

Anche il nuovo anno era arrivato: il 1924 si era intrufolato tra quelle sbarre, silenzioso e mesto. Senza rumori, senza scoppiettii e senza clamori. Senza chiedere il permesso a nessuno. Molte famiglie del paese non avevano avuto la benché minima voglia di festeggiare. Archiviate le vacanze Natalizie, si era rimessa in moto la macchina della quotidiana routine, abbracciando tutte le attività produttive e sociali. Non faceva eccezione l'ambito legale. La prima udienza del processo che avrebbe visto Rebecca Vicenti salire sul banco degli imputati era stata fissata per l'8 gennaio. Il povero avvocato Ciliberti non chiudeva occhio da una settimana, attardandosi fino alle prime luci del mattino per frugare tra le sue scartoffie. Cercava qualche cavillo legale a cui appellarsi, qualora la semi infermità mentale non avesse convinto fino in fondo i giudici. Sentiva già, in cuor suo, che quella causa l'avrebbe persa. Non poteva essere altrimenti. Ma chi gliel'aveva fatto fare? Perché aveva accettato quella sfida più grande di lui? Per dimostrare quanto valesse professionalmente? Ne avrebbe ricavato invece una sconfitta memorabile. Eppure, non voleva darsi per vinto, non ancora! Avrebbe fatto l'impossibile. Se avesse vinto quella causa, fuori dal suo studio, i potenziali clienti avrebbero fatto una fila chilometrica. E non dormiva neanche Rebecca. Non che le importasse chissà cosa di quella causa, anche perché era conscia di non meritare affatto la libertà. Eppure, doveva farlo: doveva lottare per uscire di lì e per stare accanto al suo Beppe. Avrebbe sfidato l'irremovibilità dei domestici e l'ira furibonda dei genitori. Si sarebbe anche lasciata picchiare a sangue, ma alla fine, avrebbe ottenuto di affiancare il suo amato durante la dolorosa agonia a cui l'aveva condannato. E avrebbe anche fatto visita a tutti quei ragazzi, sul cui capo pendeva la stessa spada di Damocle, implorando il loro perdono.

"Potresti smetterla di passeggiare di continuo su e giù? Sei riuscita a macinare chilometri in una cella di pochi metri, accidenti a te! Già fa un freddo bestiale, se poi ti metti a smuovere l'aria in questo modo..."- la ammonì Chiara.

"Scusa, hai ragione, è solo che...sono un po' tesa per l'inizio del processo!"- replicò la Vicenti.

"Rebecca, andiamo, c'è poco e niente che si possa fare in queste occasioni. Il tuo avvocato mi è sembrato il tipo che la sa lunga! Mettiti nelle sue mani, e spera in giudici con un livello di umanità e sensibilità almeno accettabile!"- consigliò la sua compagna di cella.

"Sì, ma... se sbagliassi qualcosa nel rispondere alle loro domande? Se... se guardando i volti dei genitori di quei ragazzi, la paura prendesse il sopravvento e mi paralizzasse?"

"Se, se, se! I se non riempiono sacco! Sii sicura di te. Mentre entri in aula, e per tutto il tempo in cui dovrai restarci, visualizza il volto di questo Beppe, che nomini almeno tremila volte al giorno"- le disse in tono deciso la Lonigro.

"Ci proverò, grazie, Chiara... grazie davvero. Mi hai sostenuta moltissimo da quando sono arrivata!"- esclamò la Vicenti, abbracciandola.

Scoccarono così le 9:00 dell'otto gennaio. Entrando, e in procinto di prender posto, Rebecca poté scorgere i volti cari di sua madre Esterina e della sua amica Irene. Non sapeva ancora se sarebbe stata richiesta la loro testimonianza, o se fossero presenti solo per supportarla. Il vederli, però, la confortò non poco. C'erano anche tutti i familiari dei giovani contagiati, ad eccezione dei genitori di Beppe Guglielmi.

"Silenzio, silenzio in aula!"- il giudice zittì il fastidioso ronzio che aleggiava, suonando dapprima la campanella, e poi picchiando tre volte con il martelletto. Ma quanto piaceva ai giudici giocherellare con quell'arnese? Usarlo anche quando non era indispensabile per sancire la forza del loro potere? Quel rumore ligneo bastò a innervosire Rebecca, che prese a tremare di rabbia, stringendo i pugni. Se ne avvide il Ciliberti, che le si avvicinò posandole una mano sulla spalla: "State tranquilla, signorina, andrà tutto bene se non vi lascerete pervadere dalla rabbia. Lasciate che sia io a parlare, e come vi ho già detto, limitatevi a risposte chiare e sintetiche".

"La corte chiama a testimoniare il marchese Ludovico Resta e la sua consorte Clidia Solano!"- esordì il giurato.

Mentre i passi isterici della Marchesa si facevano sempre più vicini, lo sguardo di Rebecca diveniva sempre più basso, per non incrociare le iridi della nobildonna. Cosicché, la giovane non s'avvide dello sguardo che le fu riservato da Donna Clidia: pareva quello di un assassino in procinto di affondare la lama nelle interiora della sua vittima.

"Non guardarla, non guardarla negli occhi! Pensa solo a Beppe!"- ripeteva tra sé la Vicenti.

"Donna Clidia, a voi la parola!"- proferì il giudice La Manna.

"La voglio morta! Morta, signor giudice. Morta!"- sbraitò la Marchesa.

"Donna Clidia, contegno, vi prego!"-la ammonì il togato, picchiettando per l'ennesima volta con quel dannato martelletto.

"Contegno? Contegno? Contegnoo?! Signor giudice, voi osate chiedere contegno a una madre che giorno dopo giorno è costretta a essere testimone del lento omicidio del figlio? Perché di questo si tratta: di un omicidio premeditato, di un rogo a fuoco lentissimo. Mio figlio cammina sempre più a fatica, non può più mangiare per via di quelle ulcere sulla lingua e sul palato, va avanti solo con un po' di latte e qualche biscotto che ci spappoliamo dentro, e che ingoia a fatica. Avete idea di cosa voglia dire? E tutto questo è stato premeditato con furbizia, con malafede, con cattiveria, con l'obiettivo di condannare a morte"- s'infervorò ancor di più la Marchesa.

"Donna Clidia, credetemi, sto cercando di porre in atto tutta l'empatia possibile, ma in qualità di giudice mi occorre che i fatti siano esposti in maniera chiara e diretta. Quindi raccontatemi tutto dall'inizio, in modo conciso e lineare!"- s'impose il togato.

"Questa... questa megera è stata amica d'infanzia del mio povero figliolo, che ora si trova più all'altro mondo che in questo. Trovò il modo di adescarlo durante una festa. Io che ne potevo sapere? Credevo fosse la ragazza dolce e onesta che avevo conosciuto anni addietro. Invece sapete come sono le meretrici, no? Sfoderano tutte le loro arti seduttive, e i giovanotti ingenui come mio figlio, finiscono per cascare nella loro rete! Fu così che mesi dopo la loro frequentazione, si palesarono le prime avvisaglie del male. Nessuno voleva crederci, ma il medico non lasciò spazio a dubbi!"

A Rebecca quasi stava per venir da ridere: giovanotto ingenuo Giacomo? Se solo sua madre sapesse quanto gli fosse piaciuto giacere con lei, e prima ancora con tante altre fanciulle!

"Fatemi la cortesia, signor giudice! Quali giovanotti ingenui? Credete che ne esistano?"- si lasciò sfuggire l'imputata.

"Signorina Vicenti, sarò io a dirvi quando toccherà a voi poter parlare!"- la bloccò il giudice Lamanna.

La giovane, in tutta risposta, sbuffò contrariata.

"Don Ludovico, c'è qualcosa che volete aggiungere?"- domandò il giudice all'uomo coi capelli brizzolati e la faccia stanca, stretto nel suo cappotto.

"No, signor giudice: la mia signora è stata esaustiva. Non servirebbe, ai fini del processo, che io esternassi il mio dolore di padre!"

Lamanna abbassò lo sguardo. Chiese poi ai membri delle altre famiglie coinvolte se qualcuno volesse deporre la sua testimonianza. Nessuno però volle parlare. Le parole di Donna Clidia e Don Ludovico, avevano espresso il dolore di tutti. Come loro rappresentante legale, tutte le famiglie avevano scelto all'unanimità Ferruccio Ruggeri, quasi coetaneo di Rocco Ciliberti, e suo compagno di corso all'università.

L'avvocato Ruggeri avanzò sicuro di sé: "Signor giudice, sarò chiaro e sintetico, come voi avete raccomandato. Vi dirò soltanto che questo processo, a mio avviso, non avrebbe neanche avuto ragione di svolgersi. Data la gravità dei fatti commessi dall'imputata, si sarebbe dovuta applicare la condanna in contumacia! Questo io chiedo alla corte, per la famiglia Resta e per tutte le atre coinvolte"

"Avvocato, comprendo il vostro fervore, ma è mio dovere ascoltare ogni testimonianza, comprese le ragioni della difesa. Avvocato Ciliberti, a voi la parola!"- esortò il giudice Lamanna.

"Vostro onore, debbo, per dover d'onestà, sottolineare che la tragedia per la quale ci troviamo oggi in quest'aula, è una di quelle matasse in cui nulla in realtà è come sembra. Tutti possono risultare cattivi, a seconda di quale lingua parli di loro. Dietro le atrocità commesse dalla mia assistita, c'è un dolore indescrivibile. Avete mai sentito parlare di Antonio Colaleo o di Giulio Svaldi, quei due loschi cacciatori d'eredità ormai spariti nel nulla? Ebbene, hanno entrambi distrutto la vita della mia assistita, facendole credere che le avrebbero offerto amore, sicurezza, stabilità. Invece, volevano solo approfittare delle ricchezze della famiglia Vicenti. E nonostante la delusione già ricevuta dal Colaleo, la mia assistita si è fidata ancora. Si è fidata di Giulio Svaldi, che le ha sferrato il colpo di grazia!"

Ciliberti continuò: "Fu forse Giulio ad attaccarle la terribile malattia, che in fondo è la vera imputata di questo processo. Causò complicazioni gravissime durante la gravidanza, anche se pochi e di marginale rilevanza furono i primi sintomi. Cosicché, la piccola nacque morta. Avete idea di cosa significhi perdere una figlia, ma anche la dignità? Gli averi di cui Giulio la derubò sono ciò che in fondo conta meno... ma il cuore e i sentimenti..."

"Aspettate, avvocato! Se quanto affermate è vero, vorrei sentire dalla viva voce dell'imputata perché non ha sporto denuncia alle autorità, nel momento in cui questo giovane l'avrebbe derubata"- intervenne il giudice.

Rebecca prese coraggio: "Per il semplice motivo che io sono donna, e noi donne, anche quando veniamo abusate, denigrate, derubate fuori e dentro, non veniamo mai credute. I cosiddetti "galantuomini", che di galante e gentile non hanno proprio nulla, sono sempre dalla parte del giusto. Noi siamo solo degli "scaldaletto".

Lamanna la guardò: "Che ne direste, signorina, di proseguire voi il vostro racconto, senza affidarlo al vostro avvocato? Fu per vendetta, in maniera premeditata, che architettaste questa strage?"

"Vostro onore, la mia assistita non è grado di rispondere a questa domanda. Vi stavo appunto spiegando quale impatto abbia potuto avere sulla sua salute mentale ciò che le è toccato vivere e...."- intervenne Ciliberti.

"Avvocato, ho detto che voglio sentirlo dalla ragazza!"- insistette il giudice- "Proseguite, signorina!"- intimò dunque alla Vicenti

"Io... non ricordo quasi niente di quanto sia avvenuto con quei giovani. E'... è come se fosse stata un'altra me a compiere quelle azioni, voglio dire... una persona estranea, che io stessa aborrisco!"- farfugliò la giovane, ricordando l'ammonimento del suo avvocato.

"Vostro onore, constatate voi stesso, con i vostri occhi e con le vostre orecchie? Una psiche ormai minata che non sa più scindere il vero dal sogno annebbiato; che non è in grado di affermare se abbia o meno compiuto una data azione"- emise con decisione l'avvocato Ciliberti.

Il giudice lo fissò perplesso, lisciandosi il pizzetto con l'indice e il pollice: "Avvocato, nessuno aveva richiesto il vostro intervento!"- disse poi, riappropriandosi della propria severità giuridica.

"La corte chiama a testimoniare il medico del paese. Dottor Valenti, fatevi avanti!"- lo esortò Lamanna -"Da voi, vorrei sapere con quanto anticipo fu diagnosticata la malattia della signorina Vicenti, rispetto all'insorgere dei primi sintomi nei giovani infettati".

"Vostro onore, mi state chiedendo se Rebecca sapesse già della sua malattia nel momento in cui decise di giacere a turno con quei giovani?"- rispose il Valenti - "Sì, lo sapeva, poiché io stesso le parlai molto chiaramente, nel consegnarle la diagnosi redatta. Cosa sia poi scattato nella sua mente, quale forma di patologica alienazione o dissociazione possa aver avuto luogo, io non posso saperlo".

Il giudice appuntò qualcosa su di un foglio: "Molto bene, Valenti, potete andare, se lo desiderate. 

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