Addio, amore mio!

"Salvamelo, Salvamelo!"- implorava Rebecca nel rivolgersi a Dio.

"Prenditelo! Prendilo con te: ti consegno mio figlio. Non posso più vederlo soffrire in questo modo!"- pregava invece Ginevra. Presto, il Padreterno avrebbe ascoltato le preghiere della Marchesa. Una notte, verso l'una e mezza, mentre la casa era abbracciata dal silenzio, Beppe chiamò a sé la madre e l'amata, che provate dalle tante notti di veglia, s'erano sopite sulle sedie, collocate agli estremi opposti del letto.

"Mamma, ti chiedo una prova del tuo amore. Se davvero tieni a me, trova la forza non dico di perdonare Rebecca, ma almeno di non odiarla. Hai visto come si è prodigata? E trova la forza di perdonare me, per la sofferenza che ho arrecato a te e al papà!"- disse il giovane stringendo la mano di sua madre.

La Marchesa gli accarezzò la fronte, per poi baciargliela: "Tesoro mio, non dirlo neanche! Non è stata colpa tua, capito? Io e tuo padre ne siamo consapevoli, ed anzi, saremo sempre fieri e orgogliosi di te, del coraggio da leone con cui stai lottando!"

Beppe le sorrise e la implorò di lasciarlo da solo con Rebecca. Ginevra guardò la giovane con disappunto intriso d'odio, e pur di accondiscendere a uno degli ultimi desideri del figliolo, lasciò la stanza. Rebecca si sedette sulla sponda del letto, prendendo ad accarezzare il suo amore con tutta la dolcezza di cui era capace. Una dolcezza che aveva scelto di riservare solo a lui. "Amore mio, credo sia arrivato il momento! Ho sbagliato a rinviare tanto a lungo il colloquio chiarificatore al quale anelavi fin dapprincipio. Forse, però, sono ancora in tempo"- le disse con voce affannosa e sofferente- "Voglio che tu sappia che io ti ho amata e che muoio amandoti. Faccio ancora un'enorme fatica a comprendere come tu abbia potuto fare del male a quegli sventurati, ma ho la certezza che con me non l'avresti mai fatto. Prova ne è il modo in cui ripetutamente ti negasti alle mie avances. Se avessi voluto il mio male, non avresti esitato a giacere con me fin dalla prima volta, così come hai fatto con gli altri. Tu hai cercato di proteggermi, pur nascondendomi per paura la verità. Sono stato io a insistere, portandoti a credere che il concederti sarebbe stata per me un'importante prova d'amore. Mi stavi proteggendo: e solo ora comprendo quanto amore ci fosse in quel tuo negarti"- la debolezza e l'affaticamento costrinsero Beppe a interrompersi. Subito, Rebecca gli versò dell'acqua dalla caraffa, e con delicatezza gli avvicinò il bicchiere alle labbra.

Appena la sua respirazione fu tornata regolare, sfidando quelle violente "scariche di dolore", il giovane riprese il suo discorso: "Io ti chiedo perdono a nome dell'intero genere maschile per tutto il male che hai dovuto subire da alcuni di noi e voglio che tu..."

"No, no Beppe! Non posso accettare che sia tu a chiedere perdono a me per il male che altri hanno causato!!"- lo interruppe una disperata Rebecca.

"Ti prego, lasciami terminare: è importante! Vorrei che tu mi facessi un'unica promessa: mai più, mai a nessun giovane dovrai fare una cosa simile. Giuramelo! E se questa tua malvagità, che tuttavia non t'è mai veramente appartenuta, morirà assieme a me, allora sì, potrò andarmene sereno"- continuò Beppe.

"Te lo giuro, te lo giuro... te lo giuro! Tra l'altro Valenti mi ha confermato che non sono più contagiosa, anche se dovrò fare un'altra settimana di trattamento per pura precauzione. Ma come avrei potuto gioirne con te in queste condizioni? Comunque sia, tu non andrai da nessuna parte, capito? Hai già dimenticato tutte le cose che faremo assieme quando sarai guarito?"- lo incoraggiò lei.

Al futuro, verso cui Rebecca si proiettava, Beppe rispose adoperando il condizionale passato: "Raccontami ancora tutto quello che avremmo fatto se io fossi riuscito a vincere questo male!"- la incitò, come i bimbi che vogliono sentirsi raccontare la loro favola preferita. Sanno che è una favola, e che personaggi e dinamiche non hanno nulla a che fare con la realtà, ne conoscono anche il finale, ma esigono che quella favola gliela si racconti ogni sacrosanta sera. Rebecca insistette quindi con il suo fantasioso futuro: "Oh: la prima cosa sarà viaggiare. Accidenti se viaggeremo! Francia, Egitto, America e poi ci spingeremo fino ai paesi scandinavi. L'aurora boreale non potremo mica perdercela. Ah, e dovremmo scrivere la nostra storia. Ne risulterebbe un romanzo appassionante. Ci lavoreremo a quattro mani e sarà..."- La giovane s'interruppe d'improvviso, accorgendosi che il suo interlocutore non l'ascoltava. La presa di Beppe, che fino a quel momento stringeva decisa la sua mano, era divenuta molto flebile.

"Beppe... Beppe... Beppee!!"- urlò continuando a scuoterlo. Se da una parte voleva credere che si fosse solo addormentato, dall'altra ebbe sentore della compiuta tragedia. Con una serafica curva di sorriso sul volto, Beppe Guglielmi dormiva ormai il sonno della morte. Il sonno di chi sogna ciò che non potrà più avere. Il suo era il riposo del guerriero ferito nel corpo e nello spirito, che viene sollevato da ogni sofferenza e incoronato di eterna e meritata pace. D'impulso, Rebecca gli scoprì il petto, iniziando a praticare un grossolano massaggio cardiaco, ma il cuore non riprese battito alcuno. La giovane Vicenti non si diede per vinta, e volle provare anche con la respirazione bocca a bocca, sperando di restituire al suo Beppe il soffio della vita appena fuggita da lui. Nessun segno di ripresa. Attonita, Rebecca lanciò un urlo disperato e agghiacciante, che ebbe massima ridondanza in ogni angolo della grande magione. Fu quasi simile al verso che le mucche emettevano quando, al mattatoio comunale, venivano strappati loro i vitellini, per essere macellati. L'urlo rimbalzò di parete in parete e subito, accorsero Donna Ginevra, Don Attilio e i domestici. La Marchesa non tardò ad accorgersi dell'irreparabile, una volta tastati il polso e la vena giugulare del figlio. Il primo istinto fu quello di mettersi in contatto telefonico con i dottori Valenti e Dubois. Ginevra afferrò l'apparecchio telefonico, ma le mani non smettevano di tremarle, impedendole di comporre qualsiasi numero. Finalmente ci riuscì. Il primo ad arrivare fu Dubois, che si precipitò nella stanza dell'ammalato, intimando a tutti i presenti di uscire. Poté entrare solo il collega Valenti, giunto una decina di minuti più tardi.

Di fuori, non s'udiva volare una mosca: ogni respiro era sospeso, benché nessuno, ad eccezione di Rebecca, osasse ormai aggrapparsi a una concreta speranza. Rebecca ebbe bisogno di credere che per il suo Beppe ci fosse ancora un barlume di speranza, ancorato all'esperienza dei medici. Ecco l'atteso scatto della maniglia: Dubois uscì dalla stanza con un'espressione già di per sé molto eloquente. Rebecca gli corse incontro.

"Dottore! Si è.... si è risvegliato, vero?"- domandò laconica.

"Mademoiselle, Je suis désolé, ma il ragazzo aveva già cessato di vivere al nostro arrivo!"- fece il medico contrito.

"Ma no, no dottore! Non può essere! Voglio dire... da voi in Francia la medicina e le sue tecniche sono molto più avanzate, e non è possibile che non ci sia nulla che possiate fare. Riprovateci, ve ne supplico"- s'accanì la Vicenti.

"Mademoiselle, vi sto spiegando che abbiamo fatto tutto il possibile. Condoléance a voi e alla famiglia!"- ribadì il francese. Anche il Valenti lasciò la stanza di Beppe, prendendo da parte Ginevra.

"Marchesa, vi esprimo anch'iole mie più sentite condoglianze" - le disse prima di compilare il certificato di morte. Dopodiché, lui e il collega francese lasciarono villa Guglielmi, con la delusione che pesa sulle spalle di ogni medico, allorché non riesca a salvare un suo paziente. Rebecca, frattanto, ne aveva approfittato per sgattaiolare nella stanza del defunto. Fu in quel momento che la verità le si rivelò: nuda e minacciosa. Proprio nello stesso modo in cui s'era posta lei di fronte a tutti quegli uomini. Beppe era morto: era morto il cuore, che aveva palpitato per lei con tutta la sua ingenuità; era morto il cervello, che non l'aveva avvertito razionalmente di un pericolo immane, ed eran morti gli occhioni neri, profondi e limpidissimi, che troppe lacrime avevano dovuto versare. Rebecca rimase paralizzata, incapace del benché minimo e involontario movimento facciale. Le si pietrificarono perfino le lacrime. Con passo metallico, riprese poi il suo posto sulla sponda del letto. Accarezzava la fronte di Beppe, madida di un sudore diventato gelato. Stava per chinarsi su di lui, così da donargli ancora un bacio, ma proprio in quell'istante, si sentì tirare per capelli.

"Non osare più toccare mio figlio, sgualdrinella!! Adesso lui è in pace!"- le urlò addosso Ginevra.

"Ahi! Marchesa, mi... mi fate male!!"- mugugnò.

La donna non lasciò però le ciocche corvine, tirando con forza ancora maggiore: "Ti faccio male? Oh, ma povera, innocente fanciulla! Guarda: guarda cosa sei stata capace di fare tu, invece!"- strillò additando con la mano libera il corpo esanime del figlio, che giaceva su quel letto.

"Lo sapete che non avrei mai voluto e che ho sofferto e soffro quanto voi"- mormorò dolorante la giovane.

"Non osare paragonarti a me, meretrice! Non paragonare la tua falsità e cattiveria al dolore autentico e straziante di una madre!"- urlò la Marchesa- "Anzi, sai cosa ti dico? Adesso la farsa è finita: ti voglio fuori di qui al più presto. I patti erano chiari, ricordi?

"Donna Ginevra, vi supplico, consentitemi di restare solo per la veglia e per le esequie. Dopo, non sentirete più parlare di me, statene pur certa"- le disse Rebecca guardandola con gli occhi annacquati.

"Tu non sei proprio in condizioni di avanzare alcuna richiesta! Non c'è più il tuo Beppe ad invocare il tuo nome. Adesso comanda donna Ginevra, e donna Ginevra esige che tu te ne vada!"- asserì perentoria la donna.

La giovane non rispose: a capo chino, si diresse nella piccola e umile stanzetta che divideva con la domestica, per dismettere la camicia da notte e riempire il suo bagaglio a mano. Quando tornò di sotto, i domestici avevano già rivestito Beppe. Gli avevano spruzzato la sua amata acqua di colonia: Rebecca ne fu subito certa! Quel profumo le colpì ancora le narici. Avrebbe voluto avvicinarsi per riempirsene i polmoni, dato che poi non avrebbe più potuto sentirlo. Peccato solo che Ginevra non glielo avrebbe consentito. Attilio, quel "marito ombra" avrebbe conformato la propria alla volontà della consorte. Se Rebecca avesse però usato i modi giusti... magari... li avrebbe convinti a compiere quell'ultimo gesto di pietà.

"Don Attilio, Donna Ginevra, come vi testimoniano il mio bagaglio e il fatto che io sia vestita di tutto punto, m'accingo ad andarmene, a sparire per sempre dalle vostre vite. Ho però l'ardire di chiedervi un estremo favore: posso salutarlo ancora una volta? Non lo sfiorerò, mi limiterò solo a respirare il suo profumo. Ve ne scongiuro, sarebbe come portare con me l'essenza della sua anima!"- implorò la giovane.

"Vattene! Fuori di qui: lasciaci piangere il nostro ragazzo in pace!"- strillò la Marchesa.

"Ginevra, ti prego!"- suo marito la trattenne con una leggera pressione sull'avambraccio- "Sai bene che Beppe lo avrebbe voluto. Hai avuto la forza di ospitare in casa nostra la signorina Rebecca, lo hai fatto per il bene di nostro figlio. Cosa cambia se prima di andarsene gli porge l'estremo saluto? È un qualcosa che non si dovrebbe negare a nessuno, non credi?"

Le parole del marito riuscirono a persuaderla: "E sia! Ma faccia alla svelta!"- sentenziò arcigna la Marchesa.

Rebecca si chinò su di lui: non lo sfiorò, inspirò solo profondamente. Due lacrime, pesanti come piombo, caddero sula fronte bianchissima di Beppe.

Titta, l'autista, s'offrì di riaccompagnarla.

"No, Titta. Grazie, ma non è il caso. E poi, pesa molto di più il fardello che ho sul cuore del bagaglio che mi trascinerò dietro!"- rifiutò la ragazza.

"Grazie per avermi consentito di stargli vicino: so bene quanto vi sia costato!"- disse soltanto prima di congedarsi. In quel momento il pendolo scoccò le 3 in punto. Ancora una rapida occhiata al suo amato dormiente per sempre e Rebecca Vicenti oltrepassò quella soglia. L'attendeva la più lunga di tutte le sue notti.

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