45. UNUS NON SUFFICIT ORBIS

Il sole non si era mai levato tanto splendente a illuminare la terra come in quel mattino. Sembrava che persino l'astro lucente avesse atteso quel giorno. La sua luce accendeva la natura di colori lucidi e vivi, mentre la rocca di Laurëgil brillava di perla. 

La strada che si inerpicava sul fianco della collina, fino alle soglie della reggia, era addobbata a festa. Nastri candidi erano annodati ai rami carichi di foglie dorate e si agitavano nel vento. Le balconate erano ornate di arazzi e di fiori color pervinca.

A guardare quello spettacolo, era impossibile pensare alla guerra. Laurëgil sembrava del tutto estranea e incurante delle lotte, del sangue e della folle frenesia che si era scatenata qualche mese prima. Un mondo appartato, cristallino, distante dallo sconvolgimento dei reami vicini. Gli abitanti di quelle mura eburnee sembravano dimentichi di orrori e fatiche, paghi di godere della vittoria e della pace, trascurando il pensiero del prezzo con cui erano state pagate.

Perché così voleva il re e ogni sua volontà era legge.

Nella grande sala del trono, gli ospiti fremevano nell'attesa. Nessuno ignorava l'importanza di ciò che stava per accadere. Quella cerimonia era un segno nel tempo, un evento che avrebbe riscritto libri, ridisegnato carteggi, cambiato nomi e definizioni. Era una manifestazione di volontà autoritaria e inflessibile che arbitrariamente fondava un nuovo mondo.

La sala era gremita. I più eminenti rappresentanti dell'una e dell'altra razza erano riuniti insieme, disposti a destra e a sinistra del trono per ordine di rango. 

Gli Arconti dei cinque regni e tutta la nobiltà della Lega erano giunti nella capitale elfica. Assieme a loro, i membri delle famiglie aristocratiche più antiche di Laurëlindon, Foroddir e Helegdir. A far da ala al corridoio centrale, gli ufficiali dell'esercito in alta uniforme, con le armature da parata lucidate con la sabbia. 

Quando i valletti spalancarono le porte della sala, gli araldi levarono i loro squilli brillanti verso il cielo. L'aria tiepida della primavera si gonfiò di voci diverse che si rincorrevano nell'armonia di un canto solenne. Intonavano la grandezza del re.

La sua grandezza.

Galanár, fermo sul limitare della soglia, gettò una lenta occhiata su quello spettacolo. Si concesse di gustare la vista di quello stuolo colorato, elegante e ossequioso prima di incedere con passo maestoso verso il trono.

Si prese tutto il tempo per attraversare la sala. Per le diverse vicende che lo avevano condotto a cingere la corona di Foroddir, aveva acquisito il potere senza sperimentare l'ebbrezza della gloria. Era un pensiero sublime, quindi, lasciarsi annegare in quel perfetto momento di adorazione. 

Quando ebbe salito i gradini che lo portarono di fronte al trono, chiuse gli occhi e prese un profondo respiro, come se avesse voluto riempirsi l'anima con quella sensazione, prima di girarsi a fronteggiare i presenti. Il canto cessò e si fece silenzio nella sala.

Il maestro Aegis avanzò lungo un corridoio di porpora, seguito da uno stuolo di giovani elfe velate di bianco e oro. Indossava sia le insegne di Arthalion, sia i simboli del suo alto rango di incantatore. Con un gesto elegante e sicuro, diede inizio alla celebrazione. Le fanciulle si inchinarono al loro maestro delle cerimonie, poi al sovrano, prima di avvicinarsi alla sua persona.

"Il corpo del re è il corpo del regno", declamò Aegis con voce solenne. "Benedite il re e benedirete la terra".

Le giovani detersero le mani del re in un bacile d'oro sbalzato colmo di acqua fragrante e petali di rosa rossa. Gli versarono sul capo olio profumato e gli drappeggiarono sulle spalle un ampio e candido manto, il cui bordo era impreziosito da scaglie d'oro ed ermellino. Quindi, leggere e silenti, si allontanarono. Uno scudiero apparve al fianco del re, piegò il ginocchio e gli porse la corona di Foroddir, adagiata su un cuscino di velluto.

Galanár prese la tiara d'oro e se ne cinse il capo. Un secondo scudiero ripeté all'incantatore lo stesso gesto di offerta. Sul raso lucente poggiava il diadema che simboleggiava il potere di Laurëlindon. Aegis lo sollevò in alto, perché tutti potessero vederlo, quindi avanzò verso Galanár.

"La luce illumini le torri di Laurëgil", scandì il sovrano con voce musicale.

"E benedica la rocca di Arthalion", rispose l'elfo di rimando.

Con un altro passo gli fu dinnanzi.

"Galanár, figlio di Maldor e di Laurëloth di Laurëgil, siete giunto fin qui con l'augurio degli Dei e avete vinto con le vostre gesta il diritto di cingere la corona degli Elfi".

I loro occhi si incontrarono in uno sguardo eloquente. 

"Giurate di sostenere questa terra con la vostra vita, e la vostra vita con questa terra, perché il re e il regno sono una cosa sola".

Il sorriso si dissipò sul volto di Galanár, ed egli si fece serio.

"Lo giuro".

Aegis sollevò il diadema al di sopra delle loro teste.

"Il re consacrato dal fuoco della battaglia e fortificato dal sangue dei nemici ha prestato il suo giuramento solenne. Benedizione dell'Acqua e della Terra, benedizione del Fuoco e dell'Aria, benedizione della Luce e dell'Ombra, benedizioni tutte qui evocate".

Le voci si levarono dal fondo della sala e riempirono l'aria con un canto. Aegis sovrappose il diadema di Laurëlindon sopra il cerchio che Galanár aveva indossato e si inchinò di fronte al primo re che entrambe le razze riconoscevano, senza differenza, come proprio sovrano.

Quando la cerimonia dell'incoronazione ebbe fine, Galanár dovette procedere con la parte che più lo annoiava: elencare le nuove disposizioni del regno e distribuire le cariche di potere.

Lunga, snervante, ma necessaria.

Aegis, in veste di consigliere, lo assistette in quelle operazioni e, quando ebbe esaurito il suo compito, sedette alla destra del re. Seguì un lungo minuto di silenzio in cui tutti si chiesero cos'altro dovesse accadere, a quel punto. Galanár sembrava cercare qualcuno con lo sguardo tra i molti volti che lo circondavano.

"Aidanhin", esclamò con voce chiara. "Fratello del nostro cuore".

A quella voce, il capo biondo del giovane si sollevò dalla coorte di ufficiali che si trovava alla destra del trono. Il principe si fece avanti e si fermò al centro della sala. L'armatura lucente, impreziosita sul pettorale e sugli spallacci dalle ali e dal corpo flessuoso dell'idra di Arthalion, aveva preso il posto dell'abituale giubbetto di cuoio. 

Era bizzarro vederlo col fianco scoperto, privo della spada e dei suoi inseparabili pugnali, ma il lucore del metallo e il colore violaceo del mantello attiravano lo sguardo e facevano risaltare la sua corporatura proporzionata. I capelli d'oro brillavano sotto il riverbero bianco della sala e i suoi occhi azzurri scintillavano. 

Era splendente. Sembrava rivestito di una nuova consapevolezza. Non vi era in lui alcun segno del lutto che tutti immaginavano, né traccia della rabbia e del furore cieco cui i suoi soldati l'avevano visto abbandonarsi alla fine dell'ultimo scontro. 

Si inchinò di fronte al trono. Galanár gli lanciò uno sguardo benevolo. Doveva ad Aidan molto più di quanto fosse disposto ad ammettere, e la fedeltà che il fratello gli aveva dimostrato era un patto che lo vincolava, suo malgrado, a un rispetto altrettanto grande.

"Partecipa alla gloria di questo momento. Poiché hai diviso con noi i cupi giorni del sangue e dell'onore, sarai assieme a noi nei giorni della gioia".

"Ve ne sono grato, maestà".

Sollevò il capo e fissò gli occhi del fratello, in attesa delle sue parole.

"Per la tua fedeltà e per la tua nascita, cingerai la corona e sarai re, e ci assisterai nella costruzione del nuovo regno. Scegli per te ciò che più desideri. Ti daremo qualsiasi terra, a eccezione di Laurëlindon, che è nostra di diritto".

Aidan non mostrò la minima esitazione. Sembrava che non gli occorresse pensare. Non sorrideva, ma la sua espressione era sicura e decisa.

"Maestà, io chiedo per me e per la mia discendenza il regno di Helegdir".

Un moto di stupore si diffuse tra gli astanti. Tutti si domandarono perché mai il giovane principe avesse scelto per sé proprio quella terra così fredda e inospitale. Tutti lo fissarono con incredulità e smarrimento. Solo Aegis annuì, mentre Mellodîn abbassava appena il capo e sorrideva tra sé.

Galanár, invece, accolse quella richiesta con la stessa sorpresa degli astanti ma, poiché aveva deciso di lasciare al fratello libertà di scelta, non batté ciglio.

"E così sarà, secondo i tuoi desideri. Alzati, dunque, perché da questo momento sei re".

Aidan si levò in piedi, ma non si mosse. Il fratello interrogò la sua esitazione con uno sguardo eloquente.

"Col vostro permesso, maestà, ci sono ancora due richieste che vorrei farvi".

Con un gesto elegante, Galanár lo invitò a proseguire. 

"Come indennizzo di guerra, il re di Gonthalion sarà chiamato a rendermi una parte delle terre di Lossmir. Intendo ricostruire Valkano e quel luogo sarà proclamato santuario per tutte le razze. Nessuno potrà portarvi armi né combattere. Qualsiasi scontro armato o faida sarà punito con la vita".

Il re chinò il capo a quella richiesta.

"È in tuo potere disporre delle tue terre, ed è in tuo potere richiedere un indennizzo di guerra, poiché tua è stata la mano che ha distrutto Gonthalion. Qual è la seconda richiesta?"

Aidan esitò un istante.

"Chiedo licenza di prendere moglie".

Non era affatto ciò che Galanár si sarebbe aspettato. Un matrimonio era l'ultimo dei suoi pensieri. Sebbene la sua mente avesse già elaborato dei progetti per una possibile unione di suo fratello, sorrise e decise di accondiscendere.

"Non troviamo nessun ostacolo al tuo desiderio, se la dama che hai scelto ha già dato il suo consenso".

Aidan fece un cenno con il capo e nascose un lieve imbarazzo. Non aveva certo immaginato di fare una simile richiesta di fronte a tanta gente. L'idea gli era balenata sul momento e non aveva resistito alla tentazione di cogliere quell'occasione.

"Potete verificarlo da voi, poiché ella è in questa sala".

"Ne conosciamo il nome?", chiese il re con un sorriso.

"Dama Adwen, figlia di Elles".

Una volta di più nella sala serpeggiò un brusio di stupore, e una volta di più Mellodîn ne approfittò per sorridere non visto. Non avrebbe potuto aspettarsi nulla di diverso dal suo ragazzo.

Il re attraversò con uno sguardo le figure degli Uomini e degli Elfi che lo circondavano, quindi la chiamò alla sua presenza. Adwen si fece strada con timidezza, si fermò a un passo da Aidan e rivolse al re un profondo inchino. Galanár la fissò per tutto il tempo in cui si era mossa, fino a fermarsi di fronte a lui. 

No, non le somiglia. Non somiglia a lei.

Quel pensiero sembrò rasserenarlo e spingerlo a compiere un gesto che nessuno si sarebbe mai aspettato: si sollevò dal suo seggio, scese i gradini e le tese una mano. Lei vi appoggiò sopra la sua, che tremava per la sorpresa.

"E così, mia signora", le chiese con voce gentile, "avete udito la richiesta del re di Helegdir?"

Adwen annuì, senza levare lo sguardo su nessuno dei due, mentre gli occhi di Aidan erano fissi su di lei, come se dovesse vegliarla.

"Ho chiesto il consenso agli Alti Elfi di Valkano e mi è stato concesso, maestà".

Galanár rise, con la sua abituale disinvoltura.

"Lo credo bene!", ironizzò. "Come potevano rifiutare un principe di Arthalion? Ma è la vostra risposta, quella che volevo conoscere".

L'elfa sollevò piano le ciglia e lo fissò con i suoi occhi color pervinca.

"Sì", pronunciò con semplicità, mentre il cuore di Aidan si fermava di fronte a quella risposta.

Il re sorrise e la fece avanzare di qualche passo.

"Allora, da questo istante, voi sarete per noi come una sorella".

Prese la mano di Aidan e le unì entrambe in una stretta.

Era l'inizio di un nuovo mondo, che cambiava la geografia così come era stata conosciuta fino a quel tempo, eppure era cominciato nella maniera più semplice e antica possibile: una redistribuzione di titoli, due incoronazioni e un matrimonio. 

Niente più di un paio di tratti d'inchiostro a sigillo ultimo di un mare di sangue, con cui Galanár sanciva la nascita del suo regno. Un regno solo in apparenza pacificato, popolato da due  razze diverse, ma troppo stanche e fiaccate dalle reciproche battaglie per non accettare l'egida di un unico comandante. 

Un regno distrutto e da ricostruire. Un regno della possibilità e della speranza.

La speranza.

Era ciò che si festeggiava quella notte, durante il sontuoso banchetto che animava la reggia di Laurëgil.

La speranza che qualcosa potesse davvero cambiare. Che il passato potesse essere dimenticato, che il futuro potesse essere migliore.

Non è quello che tutti si augurano, dopo una guerra?

Aidan salì sulla torre più alta, quella che guardava a ovest.

Occaso. Il punto dell'Acqua.

Glielo aveva insegnato Edhel.

Gli spalti erano deserti e da lì riusciva quasi a sfuggire ai rumori della musica e delle risate.

Si fermò contro la balaustra più esterna e guardò in alto.

"Brindo alle stelle che ci separano, fratello".

Sollevò il calice di vino che aveva portato con sé e lo indirizzò al cielo.

"Al nostro sangue e alla nostra vendetta".

NOTA DELL'AUTORE

Unus non suffici orbis = Un solo mondo non basta

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