43. UNDENAM CELEBRIOREM GLORIAM

Aidan.

Aidan stava urlando e la sua voce era l'unico suono che le riempiva la testa.

Senza un apparente motivo, Silanna avvertì un dolore capace di annullare ogni altra percezione e comprese che la sua non era una visione. Aidan stava urlando davvero, anche se lei non sapeva perché.

Si agitò, strinse le redini e incitò il cavallo perché la riportasse indietro, dove poteva vedere. Si fermò sull'orlo del precipizio, si sporse sul collo dell'animale per poter dominare la scena e sperimentò la morte in un solo istante.

Sul fondo della spianata, Aidan era in ginocchio. Fissava il cielo disperato e la bocca non aveva più fiato per gridare. La sua ragione si rifiutò di annotare gli altri dettagli. Gli occhi le si riempirono di lacrime, il cuore precipitò e si schiantò in quell'abisso.

Cercò una strada per raggiungerlo. Il vento freddo del nord le frustò il viso con una ciocca di capelli che le si incollò sulla guancia bagnata, e le sussurrò all'orecchio una risata. Alzò la testa di scatto e guardò a est, come se una calamita avesse attirato il suo sguardo: dall'altura dove si trovavano in precedenza, Vargas fissava la stessa immagine con un sorriso soddisfatto.

I loro sguardi si incrociarono. Lui la sfidò con gli occhi maligni e lei si arrestò di fronte a una decisione straziante: correre da Edhel o lanciarsi contro l'incantatore? Immergersi nel dolore o scatenare una tempesta?

Esitò. L'Alto Elfo girò il cavallo e le diede le spalle con un gesto altezzoso. Silanna chinò il capo e lasciò che si allontanasse. Lei non poteva staccarsi da Edhel.

Cercò un punto per scendere a valle ma, giunta a metà, dovette fermarsi. Un'ombra aveva coperto Aidan e lo aveva nascosto alla sua vista. Un cavallo si era fermato a pochi passi dall'arciere, poi un secondo. Galanár e Mellodîn. 

Con l'anima a pezzi e le lacrime agli occhi, rimase immobile, incapace di avanzare, incapace di allontanarsi.

Aidan non dava segno di aver notato il loro arrivo, né gli altri soldati che a piccoli gruppi gli si erano fatti da presso. Galanár osservò la scena dall'alto della cavalcatura, ma evitò di soffermarsi troppo sui dettagli. Prese un profondo respiro e rivolse lo sguardo verso la parete rocciosa che gli si innalzava di fronte.

La vide e lei vide lui.

Per un istante infinito guardarono l'una nell'animo dell'altro. Lei non indietreggiò né fuggì. Rimase composta sulla cavalcatura, le mani strette attorno alle redini, i capelli al vento e le lacrime che, lo indovinava a distanza, dovevano inondarle il viso. Era bella e dolente, e sosteneva il suo sguardo con tanta dignità che Galanár provò una furia cieca verso di lei. Verso quella donna che non mostrava la minima paura, ma rivendicava il diritto di stare accanto a colui che amava. E che non era lui.

Il respiro gli si fece più rapido. La rabbia, ancora a fior di pelle dopo la battaglia, gli offuscò la ragione.

"Mellodîn, la tua balestra", ordinò senza staccare gli occhi da lei.

Anche il comandante aveva visto l'incantatrice. Guardò di sbieco il generale e non si mosse. Non obbedì. Se Galanár voleva affondare nella follia, quella volta l'avrebbe fatto da solo. Il re comprese il messaggio. Con il suo abituale fare sprezzante, si chinò di fianco e staccò da sé il balestrino che Mellodîn aveva agganciato alla sella. Incoccò la quadrella, sollevò l'arma e tese la corda. Mirò con lentezza e precisione glaciali, mentre Silanna continuava a fissarlo immobile. I suoi occhi avevano lo stesso dolente languore di un lento tramonto.

Il re tenne la balestra puntata finché i muscoli del braccio non cominciarono a tremare. Quella muta battaglia tra loro, tra le loro più recondite intenzioni, iniziava a logorargli l'anima. Deglutì e cercò di ricacciare indietro la rabbia. Senza smettere di tenerla sotto tiro, le rivolse un cenno impercettibile con il capo.

Va' via. Veloce!

Silanna sembrò intuire quella silenziosa offerta. Girò il cavallo e risalì verso la cresta rocciosa. Spronò l'animale e sparì. 

L'aveva lasciata vivere. Aveva pagato il suo danno. Non le doveva più nulla.

Gettò il balestrino nella polvere con dispetto. Scese da cavallo e si avvicinò al fratello.

"Aidan, andiamo".

Il ragazzo non reagì. La voce di Galanár gli arrivava da distanze siderali e non lo toccava.

"Io devo...", biascicò. "Devo portarlo via da qui... e... trovare Aegis. Lui saprà cosa fare per onorare la sua morte".

Il re sollevò un sopracciglio con disappunto e la sua espressione si fece di ghiaccio.

"Niente onori per i traditori del regno".

Quelle parole scaraventarono Aidan dentro la cruda realtà del campo di battaglia. Allentò la stretta con cui ancorava un fratello al proprio corpo e si voltò a guardare l'altro con gli occhi sgranati. 

"Che stai dicendo?"

L'espressione di Galanár restò immutata. La sua voce risuonò inflessibile nel silenzio che si era creato attorno a loro.

"Niente onori. Nessuna sepoltura per i traditori del proprio sangue. Che il suo corpo sia lasciato qui, come banchetto per i corvi e come monito per tutti".

Aidan adagiò il corpo del gemello sulla polvere e si alzò in piedi per fronteggiare il re.

"È stato Edhel a salvarci. Dovresti celebrarlo come un eroe ed essere grato per il suo sacrificio invece di parlare così".

"Sono gli sconfitti ad avere bisogno di celebrare il sacrificio dei propri eroi, non i vincitori. E sono i vincitori che decidono come andrà scritta la storia. E adesso muoviti, andiamo!"

L'arciere fece cenno di no con il capo e sfidò il fratello con lo sguardo. La mano gli si serrò attorno all'elsa della spada. Galanár percepì quel gesto con la coda dell'occhio e la sua ira divampò senza controllo.

"Nessuna clemenza, Aidanhin!", esclamò fuori di sé. "Venga pure l'ira degli Dei, io non sono venuto fino a qui per essere misericordioso! Non ho sacrificato i miei uomini su questa polvere per elevare un traditore. E tu, tu hai fatto un giuramento ed è giunta l'ora di rispettarlo".

Aidan si accorse di aver già smesso di ascoltare. Era ancora in piedi, di fronte a Galanár, ma aveva cancellato la sua presenza. Nella mente c'erano solo le parole di Edhel e le promesse che gli aveva fatto. Lo aveva perduto, ma non avrebbe vanificato il suo sacrificio. Grazie a quel pensiero, recuperò la calma e concesse al fratello un assenso appena accennato.

"Sta bene, ma questi soldati sono con me".

Sciolse le dita dalla spada e indicò gli Elfi superstiti alle sue spalle.

"Sono fedeli a me e non verrà torto loro un capello. Saranno liberi di restare qui o di tornare a Laurëlindon. Quanto a me, domani stesso mi metterò in viaggio. Perché io, e io soltanto, tratterò con Laurëgil".

Galanár scosse il capo e storse la bocca, contrariato, ma Aidan non gli diede il tempo di ribattere.

"Ti metterò tra le mani la tua corona di sangue di persona, e con questo il mio servizio sarà concluso".

Il re considerò quell'ultima affermazione per qualche istante, poi fece solo un gelido gesto di consenso. Si voltò, risalì a cavallo e fece cenno a Mellodîn di andare.

Aidan li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano. Il comandante si girò e lanciò una rapida occhiata a Edhel. Provò un remoto senso di colpa, simile a quello sperimentato l'ultima volta che si erano visti. La pesante sensazione di non aver fatto abbastanza. Il suo sguardo incrociò poi gli occhi di Aidan e Mellodîn comprese che il ghiaccio aveva già cominciato a farsi strada nel suo cuore.

La spianata di Hákala, lattea e deserta, sembrava aliena e irriconoscibile sotto il pallido lucore della luna.

Il bagliore che avevano prodotto aveva ridotto tutto in cenere, a esclusione degli eletti. Nessuno avrebbe potuto immaginare che quella distesa di polvere e sassi era stato lo scenario di un'atroce battaglia. Solo il vento scorrazzava in quello spazio, sollevando mulinelli di cenere che spingeva per qualche metro, prima di disperderla nel silenzio.

Il bagliore che abbiamo prodotto.

Ad Aidan sembrava impossibile pensare che fosse accaduto appena qualche ora prima. Il luogo era immutato, solo il tempo creava uno iato tra l'azione più incredibile che avesse mai compiuto e il nulla. Tra il tempo in cui era con Edhel e la solitudine assoluta.

Era stato così vicino a lui, così connesso con il suo spirito, da sentire freddo alla sola idea di avvicinarsi a chiunque altro. Così aveva scelto di andare da solo e di restare seduto sulla polvere arida, le spalle contro la stessa parete rocciosa che aveva vegliato sulla loro portentosa magia. Lo spazio davanti a lui si stendeva per metri, vuoto come il suo cuore.

Non lo avrebbe lasciato, non ci riusciva. Lo aveva coperto con il suo mantello di raso bianco, che la polvere e il sangue avevano macchiato, ma che era sufficiente perché il cuore di Aidan si illudesse di averlo in qualche modo protetto.

Non lo avrebbe lasciato, non poteva. Le creature della notte non lo avrebbero avuto. Sarebbe rimasto accanto a lui, a fargli da custode. Sarebbe affondato in quel deliquio per l'eternità.

Un leggero rumore di passi sfiorò la terra. La luce lunare disegnò davanti ai suoi occhi una sagoma che per Aidan aveva lo stesso splendore delle stelle.

"Sei davvero un dono degli Dei", mormorò.

Adwen lo fissò con uno sguardo triste e preoccupato. Le sue ciglia erano ancora incrostate di lacrime.

"Che fai ancora qui?", bisbigliò, come se temesse di essere ascoltata perfino in quel deserto. "Galanár è furioso. Ha giurato che avrebbe mozzato le mani a chiunque avesse osato disobbedire al suo ordine".

Lui accolse quella notizia con assoluta indifferenza.

"Che venga a farlo, se ne ha il coraggio".

La fanciulla raccolse la veste con una mano e gli si inginocchiò di fronte. Piantò nel terreno la torcia che le aveva rischiarato la strada e la fiamma li illuminò nel blu indistinto che li circondava.

Aidan aveva un aspetto terribile. Il sangue e la polvere gli si erano rappresi tra i capelli e ne avevano sporcato l'oro. Gli occhi gli brillavano come se avesse la febbre. La stanchezza cominciava a farsi pressante, rintuzzata solo dalla sua ossessiva decisione di restare vigile. Adwen intrecciò le dita a quelle di lui.

"Ti prego, andiamo via".

Aidan scosse il capo.

"Ho promesso che sarei partito per Laurëgil all'alba. Non andrò via prima".

"Non ti farò andare da nessuna parte in questo stato. Devo vedere se sei ferito, prima. E devi riposare".

Gli sfiorò il viso e lo obbligò a prestarle attenzione. Aveva bisogno di ancorarlo alla realtà perché non perdesse la ragione. Lasciò scivolare la mano lungo i muscoli del collo e gli scostò il lembo della camicia, che lui aveva slacciato assieme alla brigantina. Il ciondolo che gli aveva affidato prima della battaglia non c'era più.

"La foglia di Laurëgil è ritornata alla Terra".

Il Daimon della Terra vedevano oltre i piccoli occhi di Uomini ed Elfi: Nor aveva mantenuto il suo patto e salvato colui che amava. 

Gettò uno sguardo al drappo bianco che copriva il corpo di Edhel, poi tornò a fissare il viso di Aidan. Erano stati a un passo dal condividere la stessa sorte e, in qualche modo, era stata anche lei a influenzare quella deviazione del fato. L'idea di avere operato una simile scelta, la fece rabbrividire.

Non sempre i nostri desideri si realizzano nella maniera in cui li abbiamo immaginati.

Cercò di trattenere una lacrima e si sforzò di trovare qualcosa su cui concentrarsi. Si accorse che Aidan indossava un altro monile. Lo prese tra le dita e lo sollevò per poterlo studiare alla luce della torcia. Era certa di averlo già visto: lo indossava Edhel, la notte in cui l'aveva condotta alla Prova. Lo lasciò cadere e, per la prima volta, Aidan sembrò mostrare interesse per qualcosa che non fosse il suo personale delirio. Sfiorò le pietre del ciondolo, poi fissò la ragazza.

"Ho la testa piena di immagini e di parole. Non so da che parte cominciare. Lui ha detto che mi avresti aiutato".

Dal tono di quella frase, Adwen capì che Aidan non avrebbe più pronunciato il nome di suo fratello.

"Si fidava di te", continuò l'arciere con un lieve sorriso. "Diceva che avevi saputo comprenderlo come nessun altro. Mi faceva arrabbiare, sai? Perché ero geloso del vostro legame. E perché pensavo di essere io, quello che lo aveva sempre compreso".

Adwen scosse il capo.

"Tu ed Edhel siete uno, non ti occorre comprendere ciò che è già parte di te".

"Che strano... ho già sentito questa frase".

"Per questo motivo tu non lo perderai mai, anche se adesso sei convinto del contrario".

A quelle parole, Aidan la guardò come se gli avessero spalancato dinnanzi un mondo prima sconosciuto. Si drizzò sulla schiena e si tese verso di lei. Le intrecciò le dita tra i capelli, l'attirò a sé e la baciò senza darle il tempo di un sospiro. Quel bacio bruciava di urgenza, e lei ne percepì ogni lacrima e ogni dolore. Senza nemmeno rendersene conto, si ritrovò tra le sue braccia e appoggiò la guancia sulla sua spalla. Restarono a consolarsi in quella stretta per un tempo infinito.

"Non sono sicuro di sapere cosa fare", mormorò Aidan d'un tratto, nel silenzio. "Ha detto che ho visto tutto, ma i miei ricordi sono così imperfetti. Ho visto il Sogno dei bardi, l'Idra che dava fuoco a Laurëgil..."

"Suppongo tu conosca già la profezia fatta a tuo fratello, no? L'erede di Arthalion avrebbe distrutto la capitale degli Elfi e con essa l'intera stirpe reale".

L'arciere esitò un istante, come se stesse cercando di comporre i pezzi di un mosaico.

"Ma ha detto di essere lui, l'Idra! Ha senso, per te?"

La ragazza si staccò dal suo petto per guardarlo.

"Che altro hai visto?"

"C'era una strana bestia. Un leone con ali e zampe di falco. Con gli artigli lacerava la gola dell'Idra e la città era salva".

Lei chinò le ciglia e sospirò.

"Non conoscevo questa parte del Sogno. Se è vera, allora Edhel potrebbe aver avuto ragione, nonostante ciò che gli Alti Maestri ci hanno insegnato. Lui era l'Idra, Custode del Fuoco. Il leone rappresenta il Re, e tuo fratello è re adesso. E il falco è l'animale sacro del dio Arandor, è il Giovane Cacciatore".

Il falco che ha ucciso l'Idra.

Aidan strinse le palpebre per non sentire il dolore che gli inondava la testa.

"Era tutto necessario", ripeté, come se avesse preso coscienza di quelle parole. "Anche la vita".

Adwen non rispose. Sapeva che Aidan doveva discendere da solo l'abisso e trovare la strada per risalire. Poteva solo aspettarlo sulla soglia, al limitare tra la luce e l'ombra. Tornò a rifugiarsi nel suo abbraccio e attese che il respiro di lui si calmasse.

"Il falco è capace di percorrere grandi distanze per raggiungere il proprio obiettivo", gli sussurrò infine all'orecchio. "Significa che devi avere uno scopo, un amore, una passione. Che devi tradurre il sogno in realtà".

Aidan guardò le stelle.

Toccare l'infinito. Essere l'infinito. Avere uno scopo e tradurlo in realtà.

Era ciò che Edhel gli aveva insegnato. Non poteva deluderlo.

Strinse la testa di Adwen contro il petto e si sorprese a scoprire come la sua mano riusciva a proteggerla, a ripararla dal mondo. Intrecciò le dita ai suoi capelli e si abbandonò alle emozioni. Erano la sola luce nell'ombra, la vita che resisteva alla morte. Sì facevano scudo l'un l'altra contro il dolore insensato che era stato scagliato loro addosso.

"Forse non è così che avevi sognato questo momento, e di certo non è questo il posto, ma... sposami, Adwen. Non voglio affrontare questo mondo senza di te".

Lei chiuse gli occhi e si lasciò cullare dal brivido che aveva attraversato la sua voce, poi si strinse ancor più a lui.

"È proprio questo il posto, e questo il momento. Non può esistere notte più sacra in cui formulare un simile giuramento".

Aidan sollevò la mano di lei, che teneva intrecciata alla propria e se la portò alle labbra. Quello era il solo contatto che, con il tempo, avrebbe potuto guarirgli l'anima.

"Mi accompagnerai a Laurëgil, domani?"

"Ti ho chiesto di non andartene mai, come potrei farlo io? Quindi verrò con te in qualsiasi posto".

Aidan si chinò a baciarla con dolcezza. Si accorse che lei stava tremando per il freddo e cercò di proteggerla con le sue braccia.

"Sono ingiusto a tenerti qui, ma non riesco ad andarmene. Non posso lasciarlo da solo".

Adwen sentì il calore di una lacrima che le bagnava la fronte.

"Dovremo farlo. Galanár non ti perdonerebbe una disobbedienza in questo momento".

"Non potrei ricevere onore più grande che da questa disobbedienza".

"Non è ciò che Edhel vuole da te, però".

Lui le strinse le braccia e l'allontanò da sé per poterla guardare, come se la sua osservazione gli avesse fatto balenare in mente un'idea improvvisa.

"Chiama Silanna!"

Lei sbatté le ciglia, confusa.

"E come potrei?"

"Non lo so. Esisterà un modo".

Adwen scosse il capo. Non era così semplice indirizzare la magia a quello scopo ma Aidan, testardo, sollevò il ciondolo, le strinse la mano attorno alle pietre e la sigillò con la sua.

"Ti prego, Adwen! Tra qualche ora il sole sorgerà e noi dovremo essere lontani da qui".

Vinta dal suo sguardo e dalla sua disperazione, l'elfa iniziò a evocare i Daimon.

Un impercettibile brillio di diamante e un delicato lampo verde si accesero nell'intreccio delle loro dita, ma i due giovani non se ne accorsero nemmeno. Erano sprofondati in quella preghiera, mani nelle mani, lacrime nelle lacrime, terra che si univa alla terra e vento che correva nel vento.

"Chiama Silanna. Dille che venga a prenderlo".

NOTA DELL'AUTORE

Questo capitolo mi è molto caro perché contiene un piccolo tributo a uno dei personaggi femminili più belli della letteratura di tutti i tempi.

Undenam celebriorem gloriam, ovvero Mai gloria più fulgida, è la traduzione latina di uno dei versi più celebri dell'Antigone di Sofocle.

Antigone è contravvenuta all'ordine dello zio Creonte, nuovo re di Tebe. Ha dato sepoltura al fratello Polinice, cui erano stati vietati gli onori funebri in quanto considerato nemico (nello scontro contro il fratello Eteocle, aveva assediato la città di Tebe).

Interrogata da Creonte, Antigone non nega di aver trasgredito il decreto, di cui era al corrente, ma piuttosto rivendica con orgoglio e determinazione il suo gesto:

Ma donde mai gloria più fulgida acquistare potrei, che al mio fratello dando sepolcro? E lode a me darebbero tutti costoro, se terror le lingue non rinserrasse: privilegi ha molti la tirannide; e questo anche fra gli altri: che dire e far ciò ch'essa vuole può.

La sepoltura dei defunti è un rito voluto dagli Dei, così Antigone difenderà fino alla morte gli àgrapta nòmima (le consuetudini ritenute di origine divina e prerogativa del génos, dei vincoli di sangue) in quanto superiori al nòmos, ovvero le leggi della pólis, stabilite dagli uomini.

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