38. DESINE FATA DEUM FLECTI SPERARE PRECANDO
Si spostarono nell'ordine opposto a quello in cui erano scesi in campo, prima i guaritori e per ultimi i pochi cavalieri rimasti. Lo schieramento a forma di uccello si ricostituì e dispiegò le ali. Arcieri e balestrieri si allargarono a destra e a sinistra, sistemandosi e nascondendosi tra le pareti di roccia. Il loro compito era quello di abbattere i rinoceronti che trainavano i carri, per poi lasciare che la fanteria distruggesse il resto.
Aidan sembrò riprendere vita dopo che la terra aveva tremato sotto i piedi dei loro nemici. Iniziò a lanciare ordini senza sosta, da una o dall'altra parte. Voleva la sua seconda occasione.
Cercò il punto più alto tra le rocce in cui potersi sistemare e vi si arrampicò. Estrasse dalla faretra delle frecce speciali che aveva preparato per l'occasione, con le punte armate da piccole lame affilate. Le sistemò nel terreno accanto a sé, quindi si mise a scrutare il varco con occhi attenti. Non appena scorse i primi corni brillare nel sole, prese la mira e iniziò a scoccare all'indirizzo degli animali.
I primi furono abbattuti con facilità. Le bestie sbandarono e trascinarono nella loro dolorosa ira i carri che stavano trainando. Per i fanti, a quel punto, fu facile gioco assaltarli e finire i soldati nanici.
La buona sorte, però, non durò a lungo. I soldati del loro stesso esercito si erano fatti troppo vicini a quelli nemici. La lotta, dopo un primo istante di ordine apparente, precipitò di nuovo nella foga di una rissa sanguinosa. Colpire gli obiettivi divenne sempre più difficile e, quando gli arcieri pensarono di spostare la loro mira direttamente sulle macchine che transitavano tra le due ali laterali, dovettero fare i conti con la stessa evidenza che aveva già sorpreso Bellator: i carri erano diversi da quelli che avevano studiato. Le paratie laterali rendevano impossibile il loro lavoro.
Galanár attraversò in fretta lo spazio da una parte all'altra del suo schieramento. Voleva controllare ogni dettaglio, perché in quel momento persino una minuzia poteva venirgli in soccorso o perderlo per sempre. Appena fu in grado di osservare lo spettacolo dello scontro nella sua interezza, una rabbia sorda gli salì alla testa e gli fece pulsare le tempie.
Comprese perché il re dei Nani era stato così compiacente nell'accettare la sua proposta di procrastinare la battaglia, invece di tentare nell'immediato un assalto a una fortezza ormai vacillante. In tutto quel tempo, l'aveva studiato. L'aveva esaminato da capo a piedi, calcolando ogni sua possibile mossa e imparando le sue abitudini.
D'un tratto, anche una seconda illuminazione gli attraversò la mente, fornendo risposte a delle domande che troppo a lungo aveva trascurato. Ripensò alle sparute file di Troll che aveva visto fuggire a est durante la sua marcia verso Foroddir. Si era chiesto dove fossero diretti, ma li aveva presi per poveri sbandati senza futuro, che non avrebbero mai trovato accoglienza nelle magioni elfiche.
L'idea della loro disfatta e della loro disperazione aveva fermato la sua mano. Non aveva avuto il coraggio di ordinare l'uccisione di quei rari sfollati. Forse glielo aveva impedito quel brano letto nelle Cronache degli Elfi o forse la sua coscienza di militare, perché erano profughi e non guerrieri.
In quel momento, mentre la polvere più pura veniva sporcata dal sangue e dal sudore dei suoi uomini, maledisse se stesso. Perché quell'alleanza che aveva inventato per assecondare il suo gioco crudele, per mero divertimento e per giovanile dispetto, quell'alleanza che lui stesso aveva pagato con i soldi di Arthalion quasi senza pensare, era diventata reale e si stava rivoltando contro di lui.
I Troll si erano rifugiati a Est, presso l'unico popolo che avrebbe prestato loro orecchio, e avevano venduto ai Nani i suoi segreti. Ecco perché Gonthalion aveva cambiato le proprie strategie di guerra e persino modificato i propri leggendari carri.
Tutte le baruffe lungo il confine di Foroddir, e persino lo stesso assedio di Formenos, facevano solo parte di uno spettacolo montato a bella posta per tenerlo impegnato a fare ciò che più gli piaceva: guerreggiare. Al riparo delle loro magioni sotterranee, i Nani avevano lavorato per contrastare in segreto le sue armi più eccelse, e, almeno fino a quel punto, ci stavano riuscendo.
Galanár strinse gli occhi per trattenere una lacrima di puro furore, si portò le mani alla testa e urlò una maledizione al cielo.
Come aveva potuto essere così cieco?
Lui, sempre così attento. Lui, che in battaglia aveva la fama di calcolare ogni cosa. Lui, che non si lanciava mai in un attacco senza prima aver disposto ogni pedina sulla scacchiera con cura quasi maniacale. Cosa, o forse chi, gli aveva impedito di vedere?
Oh, miei Dei! Maledetta, maledetta lei! E maledetto io che l'ho amata, senza più pensare ad altro!
Sfoderò la spada e si lanciò con ferocia nel centro della mischia selvaggia, ormai più che deciso a sfidare la sorte avversa al fianco dei suoi uomini.
La battaglia infuriava nello stretto valico in cui si erano ritirati. Dal punto in cui si era rifugiata, lo spazio per la vista era ridotto al minimo e Adwen non riusciva a scorgerne i dettagli. Percepiva soltanto un'accozzaglia di corpi che lottavano, spade stillanti di sangue, urla di furore e di dolore.
Il suo primo istinto fu quello di voltare le spalle a quello spettacolo e nascondersi, ma non lo fece. Sollevò attorno a sé un leggero scudo protettivo che potesse darle almeno l'illusione di essere al sicuro, poi cominciò a pregare.
Le lance e le spade urtavano sopra la sua testa, il sangue schizzava dai corpi martoriati dei feriti. Lei camminava facendosi largo in quella tempesta di colpi come se non la vedesse, ma il suo animo era pressato da un'angoscia che cresceva ad ogni passo. Avanzava alla cieca verso il fronte della battaglia, imponendosi di svuotare la mente dalle urla dei soldati.
D'un tratto uno spintone la allontanò dal suo percorso, scagliandola verso il fianco della gola, sulla sinistra. Lo scudo si infranse e si disperse nell'aria come pulviscolo dorato. La ragazza si puntellò su un piccolo anfratto roccioso e tentò di sollevarsi. Rimase immobile, sospesa sopra la battaglia, incapace di agire, fino a quando uno strattone la destò da quel sogno.
"Adwen, grazie al cielo..."
Fu un sussurro rauco e impercettibile quello che le giunse all'orecchio. L'elfa abbassò lo sguardo: qualcuno si era trascinato a fatica, poi si era abbandonato ai suoi piedi, coperto di sangue. Si chinò, girò il corpo e cercò di sollevarlo tra le braccia. In quel gesto ebbe l'impressione di perdere i sensi, di cadere a sua volta. Trattenne a stento le urla che, in quel frastuono, si persero comunque nel vento.
Si guardò intorno disperata, alla ricerca di una soluzione che non trovò. Cercò di rammentare qualcuno dei suoi incantesimi, ma il suo intelletto taceva. Disperata, cercò di arginare la ferita aperta con la pressione delle mani. Si sporcò di sangue il viso, i capelli. Cominciò a respirare con affanno.
Guariscilo! Guariscilo o morirà!
Quella voce, quelle parole le martellavano le tempie, ma lei era troppo spaventata. Strinse gli occhi per non vedere, per non sentire. Tirò fuori dalla sacca uno dei suoi unguenti. L'odore acre del sangue le faceva girare la testa, le urla di rabbia e di dolore attorno erano insopportabili.
"Vi prego, vi prego", lo supplicò, cercando di richiamarlo a sé, di farlo rinvenire.
Non ne sei capace?
La voce beffarda e la risata pungente di Silanna le aleggiò attorno. Adwen strinse i denti e inghiottì una lacrima che sapeva di sangue. Tutto era spaventosamente identico alla visione ricevuta la notte della Prova. Solo che non era Edhel quello che le stava morendo tra le braccia. Era Galanár.
Lui se ne stava andando e lei non era in grado di salvarlo. E se lui se andava, tutto sarebbe finito. Le sembrò con dolore di rivivere un incubo. La linea della resistenza indietreggiò e i soldati le vennero addosso. Sentì di nuovo la voce di Silanna che la tormentava, così come aveva già fatto in quella terribile notte.
È colpa tua, non l'hai salvato ed è morto. E anche gli altri moriranno. Moriranno tutti!
Sarebbe stato davvero così. Il lutto nel cuore le stava crescendo, la testa le bruciava per il troppo arrovellarsi attorno alla sua incapacità di agire.
"No", mormorò, allo stremo delle forze. "Io ne sarò capace".
Sì chinò sopra il corpo immobile di Galanár e armeggiò tra le sue protezioni alla ricerca di una lama.
Il repentino arretramento della linea di battaglia e lo spostamento dei corpi sulla sinistra aveva costretto anche Aidan a indietreggiare dalla sua posizione di tiro. Non aveva nemmeno avuto il tempo di riorganizzare i suoi uomini, che i balestrieri di Mellodin, contro ogni ragionevolezza, si erano lanciati in avanti e avevano tagliato loro la strada.
Da quel punto dell'insenatura, Aidan non riusciva a vedere, e quindi non riusciva a capire cos'altro avrebbe potuto fare. Si aggrappò ad alcuni spuntoni che emergevano dalla parete rocciosa e raggiunse infine uno spiazzo più elevato, che lo esponeva alla vista del nemico, ma gli permetteva di osservare meglio gli scontri.
La disfatta sembrava inarrestabile. Le ali d'argento non svettavano più alla testa dell'esercito. Non vedeva Galanár e non vedeva Adwen, né la sua aura dorata. Sapeva quale rischio aveva scelto di correre. Sapeva anche che lei era un Daimonmaster, ma nemmeno un Daimonmaster è immortale.
Correva voce che Amalion fosse morto, e con lui tanti altri con cui aveva bevuto e scherzato fino alla notte precedente. Ovunque volgesse lo sguardo, non vedeva che sangue e miseria: era il collasso di un mondo, l'ultimo e disperato anelito dell'Idra ferita e sanguinante.
Edhel.
Il sole inondava il campo di raggi intensi e mobili, come una madre che, folle di dolore, corre urlando in mezzo ai corpi dei caduti, alla ricerca dei propri figli.
Se solo tu vedessi quello che hai fatto.
La testa gli girava, non poteva più sopportare quello spettacolo.
Edhel, è la fine.
La mano gli scivolò lungo il fianco. Con un dito accarezzò la lama del pugnale. Lo sfilò dalla guaina, lo fissò con un misto di curiosità e voluttà. Lo tentò un pensiero infelice, di sottrarsi da sé alla sventura che gli alitava sul collo, per non doverne essere spettatore fino alla fine.
Un grido gli ferì l'orecchio. Aidan sentì urlare il suo nome e sussultò. Il riflesso dei suoi occhi sulla lama del coltello si scompose e si frammentò.
Il ragazzo abbassò l'arma e cercò con lo sguardo la fonte di quel richiamo.
"Venite con me, principe Aidanhîn!"
Guardò il cavaliere che gli era apparso dinnanzi con sguardo singolare. Studiò con calma innaturale il suo volto impolverato e gli abiti strappati.
"Maestro Aegis", replicò con voce stanca. "Come siete arrivato fin qui?"
Quello sembrò non badare alla domanda e si limitò a tendergli una mano.
"Venite con me", ripeté.
L'arciere fissò il palmo aperto che l'incantatore gli porgeva dall'alto della propria cavalcatura, poi scosse il capo.
"Lasciatemi qui".
Aegis fece un mezzo giro con il cavallo, come se tentasse di arginare il nervosismo dell'animale e anche il proprio, e lo fissò con uno sguardo severo.
"Non è una richiesta, capitano. È un ordine del comandante Mellodîn".
Aidan impallidì e lo fissò come se gli avesse appena trapassato il cuore con un dardo. Dunque era così: Mellodîn aveva tagliato la strada ai suoi arcieri per allontanarlo dalla linea di tiro e dare a Aegis il tempo di trovarlo, di portarlo lontano e di salvarlo.
Morire in tanti per salvare una sola vita.
Era una scelta, quella, che Aidan non aveva mai compreso. Gli vennero le lacrime agli occhi, a quell'idea. Scosse il capo, con rabbia e con dolore. Strinse la mano di Aegis e montò dietro di lui, senza una parola.
L'incantatore spronò il cavallo nella direzione opposta alla battaglia. L'animale fece resistenza al suo conduttore, prima di decidersi a rimettersi in marcia. Scalciò irrequieto, girò in tondo, riottoso. Aegis, spazientito, tirò le briglie e la bestia si volse. Per un istante, dalla loro posizione, i due uomini riuscirono a scorgere lo scontro selvaggio che si stava consumando sul fronte. Rimasero immobili, in silenzio, di fronte a quello spettacolo. Aegis allentò appena le redini, socchiuse gli occhi e mormorò una preghiera. Aidan, sconcertato, non riusciva a distogliere lo sguardo da quell'immagine tremenda.
"Aegis", mormorò con la voce rotta dalla desolazione, "che cosa succederà adesso?"
L'elfo non si mosse, non si voltò. Non dava segno di voler rispondere. Aidan udì infine un lungo, dolente sospiro.
"Non lo so, principe. Non lo so. Adesso siamo sulle ginocchia degli dei".
NOTA DELL'AUTORE
Desine fata deum flecti sperare precando (Cessa di sperare di cambiare i fati degli dèi con la preghiera - Virgilio, Eneide, VI, 376) è la frase che la Sibilla Cumana rivolge a Enea nell'Ade. Il Fato decretato dagli dèi non può essere cambiato, alle volte nemmeno dalla divinità stessa (persino Giove, nella mitologia classica, deve obbedire alle Parche).
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