37. DULCE ET DECORUM
Era stato disarcionato, ma era arrivato a liberarsi dal groviglio degli staffili e, grazie alla dragona, Ariendil era ancora legata al suo polso. Così Galanár si era preso la sua vendetta sull'assalitore, infliggendogli un violento fendente che lo aveva tagliato in due.
Il sangue ribolliva, la testa era in fiamme. Non riusciva a respirare perché l'aria era piena di terra. Si allentò le fasce che fissavano l'elmo e tossì via la polvere. Mentre riprendeva fiato, gli venne in mente una frase che Mellodîn gli ripeteva spesso: la prudenza è la parte migliore del valore.
Sì, quel vecchio detto era nel giusto. Doveva soffocare in sé l'istinto della battaglia, la febbre e l'ebbrezza che lo prendevano quando, in sella al suo cavallo, si abbandonava al gioco della spada. Tanto più che non aveva nemmeno il cavallo!
Cercò con lo sguardo un luogo dal quale avere una visione migliore della battaglia. Strisciò via dalla mischia, facendosi strada tra i corpi straziati e le armi spezzate nel terreno, tra i rantoli degli animali abbattuti e i lamenti dei feriti, e riuscì ad appigliarsi ad una piccola roccia, sulla quale si issò per osservare il terreno di scontro. La vista che ebbe da lì lo riempì di sgomento.
Sembrava che ciascuna delle due parti, stanca di guerreggiare, si fosse abbandonata a una lotta bestiale e sanguinaria, che non seguiva più alcuna logica. Tutto sembrava ridursi a un feroce corpo a corpo, dove la vittoria era affidata soltanto alle abilità del singolo combattente.
Non c'è ordine, non c'è ordine!
Si sforzò di recuperare lucidità. Quella confusione non era del tutto avversa ai suoi piani: il caos gli dava tempo. Finché i suoi uomini avessero avuto la forza di bloccare quell'attacco, in qualsiasi modo essi avessero scelto di farlo, lui avrebbe potuto attendere il giusto momento per giocare la sua carta.
Era l'ultima possibilità ed era pronto a tutto per tenerla in mezzo al mazzo finché il tempo non fosse stato propizio. Avrebbe perfino ordinato di erigere barricate con i corpi dei suoi stessi soldati, se fosse stato necessario per rallentare ancora quei Nani assetati di sangue.
Fu mentre elaborava quel terribile pensiero che la valle risuonò di un rombo cupo. Il terreno franò e Galanár dovette appigliarsi alla roccia nuda per non cadere. L'aria si riempì di un rumore ritmico e crescente, mentre le scosse si irradiavano sempre più frequenti sotto i piedi dei soldati.
Il generale lanciò lo sguardo oltre il furore degli scontri. Ciò che aveva temuto nei suoi sogni più terribili si era materializzato: i Nani avevano messo in campo i carri da guerra e avanzavano compatti contro le linee del suo esercito.
Kolridge scosse il capo, abbandonò le bende nelle mani di un giovane curatore e afferrò uno scudiero.
"Svelto, corri davanti e poi torna qui a riferirmi cosa succede".
Il ragazzino sgattaiolò tra i corpi dei feriti. Il vecchio curatore lo vide sparire e sospirò. Non era facile restare lì, nelle retrovie, e vedere sempre e soltanto gli estremi rigurgiti della battaglia, senza sapere fino all'ultimo se fosse stata vinta oppure persa.
Il flusso di corpi feriti che aumentava di minuto in minuto gli suggeriva, per esperienza, che la fanteria era già entrata nel vivo della battaglia. Avrebbe atteso che lo scudiero tornasse con qualche notizia, quindi avrebbe cercato di raggiungere Aegis.
I minuti passarono senza che giungesse nessuno.
Kolridge si guardò attorno, spazientito. L'unica consolazione era che Adwen, se era ancora viva, si trovava in testa allo schieramento, intenta a proteggere la vita del re. Si chinò a mormorare qualcosa all'orecchio dei suoi assistenti, che annuirono e corsero a recuperare altre bende e unguenti da una sacca di cuoio. Appena si fu accertato che avessero eseguito il suo ordine, montò a cavallo. Sarebbe andato di persona a controllare, per quanto rischioso potesse essere.
Avanzò, penetrando tra le linee della fanteria. Man mano che procedeva, la battaglia attorno a lui si faceva sempre più viva. Il fragore delle armi che si scontravano con gli scudi era l'unico rumore che riempiva le orecchie. Si fermò quando si accorse di essere ormai circondato da corpi che lottavano, stretti con ferocia in un abbraccio di morte. La polvere che si levava dal terreno gli impediva di vedere oltre. Cos'era successo all'avanguardia?
Mentre ancora rifletteva su come procedere, dalla nuvola di fumo che si levava davanti ai suoi occhi, vide emergere una strana sagoma. Avanzava a stento, come se non riuscisse a camminare. Kolridge la fissò con timore crescente, quindi si mosse per andarle incontro: aveva riconosciuto le insegne sull'elmo sporco di sangue.
"Bellator!", gridò all'indirizzo del cavaliere.
Quando gli fu più da presso, smontò da cavallo.
"Bellator!"
Il guerriero sollevò il capo e diede segno di averlo notato. Kolridge si arrestò a pochi passi da lui, raggelato: il capitano era stravolto, il viso sporco di terra, lacrime e sangue. Gli occhi, stralunati e rossi, lo fissavano come se non lo riconoscessero. Non aveva addosso né spada né scudo. Si fermò di fronte al guaritore e gli lanciò uno sguardo sfigurato dal dolore.
"Kolridge, vi prego", mormorò a stento, con la voce rotta dal pianto.
Si tese verso l'uomo più anziano. Tra le braccia teneva il corpo di Amalion, la testa riversa all'indietro, il pettorale squarciato da un profondo colpo d'ascia. Da quella ferita scivolava via il sangue che lo ricopriva. Kolridge lo aiutò a sostenere il peso del compagno.
"Sono troppi", continuò Bellator, preso dal delirio del terrore. "Sono troppi, e sono immortali. Io l'avevo detto ad Amalion, ma non mi ha ascoltato".
"Bellator, calmatevi".
"Kolridge, vi prego", ripeté come una preghiera. "Salvatelo!"
Gli adagiò il corpo dell'amico tra le braccia, con un gesto delicato. Al curatore bastò una sola occhiata per comprendere la realtà. Era troppo tardi perfino per alleviare l'agonia del giovane, ma di fronte all'espressione di Bellator, così piena di speranza, non ebbe il coraggio di dire la verità.
"Salvatelo!"
Uno schiocco, uno scalpiccio. Un cavallo bianco si impennò e nitrì a pochi passi da loro.
"Bellator!"
Una voce severa lo chiamò con tanta fermezza che il giovane smise di farneticare e si rivolse al nuovo arrivato. Aegis smontò da cavallo e in un attimo gli fu accanto.
"Adesso smettetela e ritornate in voi", gli ingiunse con autorevolezza. "Non abbiamo un minuto da perdere".
Gli mise tra le mani le redini del suo cavallo.
"Dovete cercare Galanár. Raggiungetelo e consegnategli questo con la massima urgenza".
Il capitano prese dalle mani dell'incantatore un lungo oggetto affusolato che somigliava a una verga.
"Vi proteggerò con uno scudo magico, ma dovete fare in fretta. L'incantesimo non durerà per molto e diventerà sempre più debole man mano che vi allontanerete da qui".
Bellator assentì. L'avere un compito urgente da assolvere sembrava averlo placato. Montò a cavallo, lo strano bastone stretto a sé, e spronò la bestia. Con la morte nel cuore e le mani sporche di sangue, si lanciò di nuovo in mezzo alla battaglia.
Aegis lo seguì con lo sguardo. Mormorò una breve frase e una soffusa luce dorata abbracciò il giovane cavaliere. Quindi rivolse la sua attenzione a Kolridge e al corpo che reggeva tra le braccia. Sospirò.
"È morto?", domandò con voce spenta.
Kolridge annuì.
Aegis fissò per un istante il viso di Amalion, gli occhi azzurri sbarrati, sorpresi da un profondo stupore, i capelli chiari incollati di sangue, le membra abbandonate. Con un gesto pietoso, gli abbassò le palpebre, quindi fissò l'altro ufficiale.
"Ci siamo, Kolridge. È il momento".
Il guaritore gli rispose con uno sguardo velato.
"Lasciami portare via il suo corpo, ti prego. Farò in tempo, te lo assicuro".
Aegis assentì col capo, quindi lasciò che l'altro risalisse a cavallo e si allontanasse.
Con le braccia incrociate sul petto si rivolse a est. Lontano, da qualche parte in quella direzione, il piano di Galanár stava prendendo forma. Bellator doveva solo riuscire nel suo incarico. A partire da quel momento, ogni elemento avrebbe avuto un peso fondamentale. Anche la sua fermezza rientrava in quell'equilibrio.
Quella mattina, quando aveva radunato tutta la magia che gli era stato possibile trovare nei pochi incantatori rimasti, la verità gli era balzata agli occhi, evidente e innegabile. La magia a loro disposizione era poca, troppo poca per quello scontro epocale. Su Adwen non poteva contare. Era l'unico altro Daimonmaster, ma lei doveva servire al re. Le energie dei restanti maghi, quasi tutti Uomini, si sarebbero esaurite presto. Doveva centellinare gli incantesimi con estrema attenzione. Nulla poteva andare sprecato.
Bellator spronò il cavallo senza nemmeno guardarsi intorno. Se lo avesse fatto, quello spettacolo di dolore e morte lo avrebbe paralizzato di nuovo. Non doveva pensare a nulla, soltanto avanzare. Trovare Galanár in quella mischia era come cercare un ago in un pagliaio. Poteva essere dovunque, dal momento che la cavalleria era stata sbaragliata e tutti gli uomini abili, compresi gli arcieri e i balestrieri, combattevano nel corpo a corpo.
Dalla sua cavalcatura, vide arrivare le macchine da guerra. Avanzavano e travolgevano tutto ciò che incontravano nel loro cammino. Non gli ci volle molto per accorgersi che qualcosa era stata cambiata in quelle bighe corazzate, rispetto alle illustrazioni che avevano studiato. La paratia frontale era più alta e curvata verso l'interno, formando una specie di guscio. I lati non erano più scoperti, ma riparati e forniti di strette e lunghe feritoie, dalle quali, lo indovinava a distanza, potevano passare soltanto delle lame o delle lance. Quella vista fu sufficiente a spronare la sua volontà.
Si rimise alla ricerca del suo generale con più forza e con più disperazione. Lo trovò infine su una piccola altura che sporgeva in un lato del campo, intento a studiare quei mostri di legno e pietra che avanzavano implacabili. Con un colpo di sprone lo raggiunse.
"Generale, il maestro Aegis vi manda questo".
Senza indugi gli tese l'oggetto che l'incantatore gli aveva affidato. Galanár lo fissò quasi con sollievo.
"È il momento", mormorò. "Adesso è il momento".
Prese la verga e la sollevò sopra la testa con entrambe le mani.
"Nór", ordinò con voce decisa, "tanamet lertalya!"
Infisse con forza il bastone nel terreno. Per un istante, sia il generale che il suo capitano fissarono l'oggetto trattenendo il fiato, indecisi se sperare che accadesse qualcosa o che piuttosto non accadesse nulla. Lentamente, dalla terra, salì un cupo rumore, come se un gigante fosse stato risvegliato e stesse riemergendo dalle profondità. Dal centro della verga magica iniziò a irradiarsi un'onda che si diffuse a est, sollevando il terreno in scosse successive e regolari, come un cuore in bella vista che propagava i propri battiti. Il suolo prese vita in quel movimento, si mosse in direzione dell'esercito nemico e lo investì di violenti tremiti. I Nani, colti di sorpresa, arrestarono la loro avanzata, in attesa che il terremoto cessasse.
Non appena si fu reso conto che la magia aveva avuto l'effetto sperato, Galanár si sollevò, si lanciò in mezzo ai suoi uomini e cominciò a ordinare la ritirata.
Il passo di Hákala era una gola che si apriva tra le montagne che separavano Foroddir da Gonthalion.
In tempi antichi, tempi di pace, era utilizzato dalle carovane di mercanti che commerciavano tra quelle due terre, perché l'ampiezza del canalone forniva loro un agile passaggio. Al di là di quella caratteristica, non possedeva nulla che gli meritasse alcuna fama. Era solo una distesa di terra battuta circondata da due pareti di roccia. A sud, però, si apriva un varco. Abbastanza ampio all'imboccatura, curvava in uno stretto gomito e terminava in un calanco. A causa di quella bizzarra forma, il vento, quando vi si insinuava con forza, produceva bizzarre e distorte sonorità. Nella lingua degli Uomini, quel punto aveva preso il nome di Gorgo di Menavento.
Fin dal primo momento in cui il re dei Nani gli aveva comunicato la scelta della spianata di Hákala come luogo dello scontro, Galanár aveva sempre mostrato uno speciale interesse per il Gorgo di Menavento. Mentre studiava le mappe, sapeva di avere diversi problemi da risolvere. Non era soltanto la mancanza della magia a metterlo in svantaggio, ma anche l'inferiorità numerica cui lo aveva costretto la diserzione degli Elfi. Senza considerare la faccenda dei maledetti carri.
Il re era rimasto per ore a seguire quella linea tortuosa tracciata sulla pergamena, immerso nei suoi ragionamenti. I suoi uomini potevano respingere gli assalti della fanteria, ma non potevano opporsi ai carri da guerra. D'altra parte, il nemico li poteva schierare in modo massiccio solo su un campo aperto. Se fosse riuscito ad attirare i suoi avversari nel Gorgo, allora i Nani sarebbero stati costretti a far passare i carri uno alla volta, perché il gomito ripiegava in una curva troppo stretta. Solo così avrebbe potuto fermarli.
Di certo quel piano aveva parecchie pecche: la gola era chiusa e, se non fossero riusciti ad annientare le forze nemiche, si sarebbero messi in trappola da soli. Non c'era davvero molto che potesse fare: comunque avesse gestito lo scontro, sarebbe stato un gioco al massacro. Tanto valeva provare. Non appena i Nani avessero schierato le macchine da guerra, avrebbe ordinato ai suoi uomini di ripiegare nel Gorgo di Menavento. Doveva soltanto escogitare un diversivo che gli desse il tempo di far eseguire quella manovra.
Era stato Aegis a venirgli in soccorso, suggerendogli l'idea di scatenare un piccolo terremoto, che andasse a completo danno del nemico. Aveva elaborato un difficile incantesimo della Terra e aveva incantato un bastone con un lungo e complesso rituale, affinché potesse essere usato da Galanár . Essendo in testa all'esercito, lui era il solo a poter evocare quella magia senza che il cono d'onda andasse a colpire le unità amiche.
Quello era il segnale che tutti avevano atteso. Appena la terra si mosse, gli Uomini sfruttarono la breve tregua a loro disposizione per piegare verso sud ed entrare nel Gorgo di Menavento.
NOTA DELL'AUTORE
Dulce et decorum est pro patria mori, È dolce e dignitoso morire per la patria (Odi, III, 2, 13).
È il celebre verso di Orazio che invita i giovani romani a imitare le virtù eroiche dei loro antenati che hanno combattuto per la patria.
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