29. LUCIS SIGNIFER
Per ore e ore andare. Senza uno sguardo, senza una parola.
Edhel teneva gli occhi incollati alla strada che gli si apriva dinanzi. Si sforzava di non pensare a lei, di non percepirla, a dispetto del calore di quel corpo che si stringeva al suo petto. Temeva che una sola occhiata sarebbe stata sufficiente a tirargli fuori il rancore represso che si portava dentro.
La sua, si ripeteva, era un'idea piuttosto approssimativa di come si erano svolti i fatti, basata più sulle supposizioni che sulle prove. L'unica certezza era che aveva rischiato la morte prima, e che era stato strappato alla sua vita senza uno straccio di spiegazione poi. E che Silanna aveva agito senza chiedere il suo parere. A voler pensare il peggio, gli sembrava solo un'astuzia, uno stratagemma di lei per spingere gli eventi nella direzione opposta a quella che lui aveva scelto di intraprendere. Dal momento che non riusciva a mettere ordine tra le informazioni sconnesse che possedeva, decise che si sarebbe concentrato su un problema per volta. E il suo primo pensiero era la strada.
Per ore e ore, ancora andare.
Non aveva la più pallida idea di dove dirigersi. Era stato messo su quella cavalcatura senza possibilità di replica e spedito lontano dall'unico luogo che aveva imparato a conoscere, a parte la sua casa. L'ansia che gli procurava quel pensiero lo incalzava e gli faceva pulsare le tempie.
Lontano, dove lo sguardo di tuo fratello non ti possa raggiungere.
Esisteva un simile luogo? Se davvero c'era, Edhel non avrebbe saputo dove cercarlo. Quando si avvide che il nuovo giorno stava per sorprenderli alle spalle, spronò il cavallo e prese a correre incontro alla notte, nella folle speranza di strappare ancora qualche lembo all'oscurità che scolorava a ovest. C'era un'unica direzione possibile, una sola meta che poteva raggiungere: Arthalion.
Il silenzio più cupo accompagnava la loro avanzata. Il rumore degli zoccoli sul selciato si faceva sempre più lento e fiacco. Il sottile nastro di terra scura si dipanava in lieve discesa verso la valle e a tratti si sbiadiva, confuso nel nevischio. In quei punti soltanto i radi cespi aguzzi delle erbe selvatiche ne disegnavano il bordo e guidavano i due viaggiatori.
L'inverno, in quelle terre del Nord, sembrava essere più acuto che altrove, e la luce degli astri e delle stelle si rifletteva sul candore impalpabile che ricopriva il terreno. Quel lucore incessante feriva la vista di Edhel e gli faceva lacrimare gli occhi. Tutto quel bianco, tutto quel bagliore, implacabili come l'angoscia che aveva alle calcagna, lo piombarono in uno stato di profonda prostrazione.
Le palpebre gli si chiudevano per la stanchezza ed Edhel cominciò ad abbandonarsi al ritmo della cavalcatura, invece di essere lui a imporla. Non aveva più contezza del tempo né dello spazio. Il paesaggio era immobile e identico. Alberi imbruniti o bianchi alla sua destra, aspre colline alla sua sinistra. Nessun animale, nessun segno dell'uomo a vista. Era avvilente e scoraggiante.
Non gli era parso così brullo e monotono, quel cammino, quando l'aveva percorso nel senso opposto, in direzione della fortezza di Formenos. Si domandò se non stesse sbagliando direzione, ma sapeva leggere i segni del cielo: senza dubbio stavano muovendo verso ovest. Forse la strada che, da Arthalion, li aveva condotti a Foroddir gli era sembrata piacevole perché era entusiasta di quella nuova avventura o perché era in compagnia del suo gemello.
Aidan...
A quel ricordo, gli venne da piangere. Mellodîn l'aveva trascinato con sé fino al fienile senza lasciargli alcuna possibilità di replica. Non era riuscito nemmeno a dargli un saluto, a indirizzargli una parola, ad avvertirlo in qualche modo di ciò che stava accadendo.
Chissà cosa stava pensando, Aidan, in quel momento! Quali idee, quali pensieri, quali dubbi lo stavano assalendo?
E chissà, poi, cosa gli racconteranno!
In cuor suo pregò che fosse proprio il comandante a dargli delle spiegazioni. Almeno lui avrebbe usato parole oneste per descrivergli l'intera faccenda. Poi realizzò che, in fondo, Aidan non ne avrebbe avuto davvero bisogno. Non c'era nulla che il suo gemello non sapesse già. Non gli aveva mai rivolto una sola parola di rimprovero, ma Edhel era cosciente di avere incenerito Menelok in una circostanza alquanto bizzarra. Così come sapeva di avergli detto il vero sui suoi sentimenti appena un paio di notti prima. Non si aspettava, però, che Aidan riuscisse ad approvarlo. Perché era come Mellodîn. Aveva il suo codice d'onore. Edhel, invece, non era mai riuscito ad assomigliare a nessuno degli Uomini che aveva avuto accanto in tutti quegli anni.
Lui non somigliava a nessun altro.
Nell'istante in cui ebbe formulato quel pensiero, quell'evidenza illuminò la nebbia della sua mente. Forse Vargas aveva detto il vero e, nella sua enorme saggezza, gli aveva offerto l'unica possibile soluzione. Anche se Edhel odiava doverlo ammettere, il Maestro aveva ragione: lui non era mai stato un Uomo e non lo sarebbe diventato solo perché lo desiderava. Se così era, allora, doveva smettere di combattere contro ciò che non poteva essere evitato e abbracciare il proprio destino.
Scrollò il capo per scacciare il torpore e si sistemò meglio sulla sella. Guardò a sud e scrutò le colline che lo avrebbero guidato dolcemente verso una diversa meta. Si gettò alle spalle ogni considerazione sull'opportunità o sulla moralità di quella decisione e indirizzò il cavallo in quella nuova direzione.
Esitò solo per un attimo, quando si domandò come Mellodîn e Aidan avrebbero valutato quella scelta. Se solo avesse potuto avere la certezza che il suo gemello, un giorno, lo avrebbe perdonato, tutto gli sarebbe apparso più sopportabile.
La prima notte non ebbero alcuna fortuna. Dormirono poco e male al riparo della boscaglia, avvolti nei mantelli e rannicchiati contro la pancia del cavallo. La seconda notte andò meglio, perché trovarono riparo in una stretta e umida caverna. Tuttavia, col passare dei giorni, le provviste che Mellodin aveva infilato nelle bisacce iniziarono a scarseggiare. Sebbene non mancasse loro il fuoco, non avevano nulla da mettervi sopra per imbandire un qualsiasi pasto. Edhel, malgrado la sua principesca educazione, non aveva mai sviluppato alcun interesse né abilità per la caccia.
Ancor più dei rigori notturni, era il paesaggio diurno a turbare il suo cuore. Quella vista, sempre uguale, sempre immutata, sembrava una maledizione. Talvolta, quando il sole si nascondeva dietro un fitto banco di nubi, tirava le redini e si guardava attorno, alla ricerca di qualcosa in mezzo a quel biancore. Quelle brevi soste gli servivano per interrogarsi sull'esattezza del proprio orientamento, ma finivano per diventare un'occasione in più per rimproverarsi della sua scarsa attitudine verso quel genere di vita.
Silanna lo spiava in silenzio, senza interferire con le sue decisioni. Non le importava dove l'avrebbe condotta. Qualsiasi posto sarebbe andato bene o, meglio, nessun posto sarebbe andato bene, se lui si fosse ostinato in quell'atteggiamento di fredda indifferenza. Avrebbe voluto che le cose fossero andate in maniera diversa e che lui si fosse comportato in maniera diversa, ma il silenzio di Edhel alimentava il suo. Era sempre più decisa a non opporsi agli eventi. Controbattere e lottare, così come aveva fatto per tutta la vita, non l'aveva condotta a nulla e non le aveva restituito alcuna ricompensa.
Se solo Edhel le avesse rivolto una parola gentile, allora avrebbe avuto un motivo per reagire, ma lui restava distante e non diceva nulla, se si eccettuava qualche breve comunicazione di tipo pratico.
Durante le loro soste notturne, prima che la stanchezza la vincesse, Silanna lo scrutava senza che lui lo notasse. Abbandonarsi tra le sue braccia era stato come tuffarsi in acque profonde. Poiché non riusciva più a guadagnare la superficie, proprio come accade a coloro che si perdono in mare, l'idea di smettere di nuotare e affogare stava diventando sempre più avvolgente e rassicurante.
Così, miglio dopo miglio, la vista le si sfocò, il ritmico schiocco degli zoccoli del cavallo divenne un brusio indistinto e il contatto con il corpo di Edhel sempre più vago e indifferente. Cadde nell'oblio di un sogno senza sogni, dentro il quale non riusciva più a distinguere nulla.
Edhel si ostinava a non badare a lei e a stento le rivolgeva la parola. All'inizio aveva agito con distacco solo per puerile dispetto, in seguito perché era troppo stremato o troppo angosciato. Silanna, d'altra parte, non aveva protestato. Aveva abbandonato la testa sul suo petto ed era piombata in un irrequieto dormiveglia. Doveva essere prostrata dalla stanchezza, così come lo era lui.
Aveva smesso da un pezzo di prestare attenzione al leggero ciondolare della sua testa scura. Quando udì un flebile suono, che mescolava un sospiro e un lamento, l'elfo sobbalzò e si chinò verso di lei. Silanna mosse il capo in un gesto tormentoso e cercò di girarsi per guardarlo.
"Basta", sussurrò. "Fermiamoci".
Edhel rabbrividì. Silanna non era una fragile fanciulla cresciuta tra liuti e merletti. Era stato con lei in viaggio e sul campo di battaglia, e non rammentava una sola volta in cui l'aveva sentita lamentarsi. Le cercò il viso con la mano e si accorse che gli occhi dorati erano arrossati, cerchiati da un alone scuro, e che la fronte le scottava. Con un gesto disperato, l'elfo tirò le redini del cavallo e lo volse più e più volte intorno. Il cielo sopra di loro si scuriva. Doveva trovare un rifugio al più presto.
Edhel non aveva memoria di una notte altrettanto terribile, né forse ne avrebbe mai avuto una peggiore. Accese un fuoco, si rannicchiò nell'anfratto di roccia che aveva trovato, poi rimase a vegliare Silanna nel suo delirio e a maledire la propria ignoranza delle arti curative. Con la testa affondata tra le mani, desiderava soltanto essere altrove, distante, estraneo a tutti quegli eventi. A dispetto della sua potenza, non era abbastanza bravo per sopravvivere, né capace di prendersi cura di lei.
D'un tratto, nel tormento della febbre, Silanna cominciò a snocciolare parole deliranti e frasi spezzate. Parlava e parlava, persa nel suo sogno malato. Parlava di fatti che forse avrebbe voluto raccontargli fin dall'inizio e di segreti che lui non avrebbe voluto ascoltare, ma che fu costretto a conoscere. Parlava di lui, di lei e soprattutto di quell'altro. Quello di cui, a quel punto, Edhel pensò di non poter più sopportare neppure il nome.
Passò l'intera notte a piangere, fino a quando non si rassegnò al destino cui le parole di Silanna lo avevano inchiodato: se anche fosse riuscito a nascondersi dall'ira del re, non sarebbe mai più esistito un luogo, in tutta Amilendor, in cui sarebbe potuto sfuggire alla verità di quanto era accaduto nella maledetta notte in cui erano stati scoperti.
Quando ancora il sole non era sorto e l'aria li avvolgeva fosca, Edhel rimise Silanna sul cavallo, montò dietro di lei e incitò la povera bestia con tutta la forza che gli era rimasta.
Solo la disperazione lo guidava, e la crescente preoccupazione per lei. Perché, come se le parole di Mellodîn avessero gettato su di lui un sortilegio, Edhel aveva iniziato a sentirsi davvero responsabile di quella vita. Una vita che lui non era in grado di salvare, così come non era stato in grado di proteggere quando avrebbe dovuto.
Silanna bisbigliò il suo nome. Quel mormorio sofferente gli giunse all'orecchio attutito dal vento e quasi lo ferì. Le passò una mano sul viso per accarezzarla, ma lei sembrò non percepirla.
"Ho freddo".
Quelle stesse parole gliele aveva già dette una volta, ma in un frangente del tutto differente e in un tempo che sembrava ormai perduto. Edhel combatté per respingere le lacrime, le serrò un braccio attorno alla vita per stringersela contro il petto, poi colpì per l'ennesima volta il fianco dell'animale con lo stivale.
"Mancano solo poche leghe", mentì, nonostante il brivido che gli attraversava la voce. "Guarda, è Laurëgil... sono le luci di Laurëgil, quelle laggiù!"
Lei sembrò rasserenarsi e si accoccolò ancor di più nella sua stretta. L'elfo, allora, cercò di forzare l'animale. Forse aveva detto quella bugia più per se stesso che per lei. Sperava davvero di scorgere quelle luci dopo ogni avvallamento e dopo ogni svolta che incontrava sulla strada. Quando vide che non c'era nulla, iniziò a maledire la luna, le stelle e ogni altro astro celeste. Il cavallo, sfinito, cominciò a rallentare a ogni sprone che riceveva ed Edhel si mise a piangere. Abbandonò le redini sul collo dell'animale, sconfitto dalla sua stessa impotenza, e lasciò che la cavalcatura li conducesse dove meglio credeva.
Un filo di luce dorata tranciò lo specchio del cielo, superò i due viaggiatori con un balzo e si proiettò come una freccia infuocata sulle cime degli alberi che si stendevano alla loro destra.
Il raggio traversò la bruma notturna che evaporava dalla boscaglia, e fu allora che Edhel le vide, alte e sottili, come se irridessero l'oscurità che ancora si stendeva ai loro piedi. Le cime delle torri di Laurëgil brillarono, lucenti e sulfuree, un attimo prima di rivelarsi nel loro diurno bagliore.
L'elfo rimase senza fiato. Da lontano fissò quelle cime che si assottigliavano come le punte eleganti di una fiamma viva, e cercò di convincersi che fossero vere, e non frutto della sua mente stravolta. Il chiarore crescente iniziò a scolpire luci e ombre nelle ricche decorazioni elfiche, e le torri raggiunsero infine, sotto i suoi occhi esterrefatti, la loro materialità.
"Le vedi, Silanna?", riuscì a dire con un filo di voce. "Le torri di Laurëgil".
Gli ci volle ancora un giorno per giungere alla rocca. Quando la notte era calata a coprire il castello e le torce delle torrette di guardia illuminavano le mura della fortezza, Edhel fermò il suo cavallo di fronte all'ingresso e seguì i movimenti delle sentinelle lungo il corridoio esterno.
Una voce, dall'alto, urlò al suo indirizzo.
"Chi va là?"
"Aprite le porte", gridò con tutta la forza che aveva in gola, con rabbia e disperazione insieme.
"Fatevi riconoscere".
Edhel percepì il rumore delle frecce che erano state incoccate negli archi e che, dall'ombra, puntavano su di loro. Con un gesto deciso, si strappò dal capo il cappuccio che nascondeva i suoi lunghi capelli di fiamma e le iridi cangianti che scintillavano nel buio della notte.
"Dite al maestro Vargas che Edheldûr di Arthalion è giunto a Laurëgil".
Il suo nome risuonò nella notte e sembrò rimbombare tra le mura dei torrioni. Le sentinelle, nell'udirlo, fecero un passo indietro, come se al posto di quell'esile elfo ci fosse stato un intero esercito di invasori.
Edhel sorrise maligno della loro reazione.
"Ditegli", continuò con la voce che cresceva, resa brillante e sicura dalla tracotanza, "che l'erede di Laurëlindon è arrivato".
Il silenzio piombò sulla rocca. L'aria rimase immobile, come se il tempo si fosse fermato, fino a quando si udì il rumore di una barra che veniva sollevata e lo stridio metallico dei cingoli.
Le immense porte della reggia degli Elfi si aprirono al suo passaggio.
NOTA DELL'AUTORE
Come avrete intuito, ogni parte di questa trilogia contiene un capitolo che è anche il titolo del libro in questione. Lucis signifer, quindi, è "L'alfiere della luce".
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