23. DE DIIS ET HEROIBUS

La luce dell'alba non era ancora penetrata nella stanza. Era notte fonda.

Il rumore della porta risuonò pesante alle sue orecchie, anche se era sicuro di averla richiusa con cautela. Non si rendeva più nemmeno conto di quanta ansia ci fosse nei suoi movimenti. Ogni rumore, ogni ombra alimentava il sospetto.

Edhel respirava ancora con affanno mentre poggiava la schiena contro l'uscio e fissava il soffitto. Non era abituato ad andare da lei di notte. Era molto più rischioso, ma quella sera Galanár era impegnato e loro non avevano saputo resistere alla tentazione di sfidare la sorte.

Il ragazzo prese fiato e cercò di calmare il battito del cuore. Aveva ancora in bocca il sapore della sua pelle e la testa ingombra di immagini voluttuose. Sorrise, ritornandoci con la memoria, ma quella piacevole sensazione svanì di colpo quando si accorse di non essere solo.

Non era Aidan, lui lo avrebbe saputo riconoscere tra mille. Un brivido freddo gli attraversò la schiena: chi si presentava a quell'ora nella sua stanza? Fece scorrere le mani sulla cintura, ma si accorse di non avere con sé il pugnale. Nella sua crescente follia per Silanna, stava diventando sempre più imprudente.

"Chi è là?", domandò, cercando di apparire sicuro.

Un'alta figura si staccò dall'ombra, silenziosa ed elegante. L'istinto di Edhel fu più veloce della sua mente.

"Maestro...", balbettò sorpreso.

Per quanto ci provasse, non trovava nessuna plausibile ragione che spiegasse quella presenza, ma rispose ugualmente a una consuetudine acquisita nel tempo: si fece avanti, si inginocchiò e baciò il sigillo reale di Arthalion sulla mano candida e scarna che gli veniva tesa.

"Maestro Vargas! Cosa vi ha condotto fin qui?"

La voce gli esplodeva di curiosità e di sorpresa. Si levò in piedi e lo guardò con sospetto. Nell'ombra che li proteggeva entrambi, non riusciva a distinguere bene i tratti dell'elfo.

"Siete qui per Galanár?", aggiunse con voce roca.

"No, sono qui per voi", fu la risposta secca che gli ferì l'orecchio.

Edhel accese con un gesto le candele che poggiavano sul tavolo. La luce dorata gli si poggiò sul viso e guizzò per un istante nei suoi occhi chiari.

"Per me?"

L'anziano incantatore fece un passo verso di lui e il cono luminoso si allungò sulle sue vesti e sul suo volto.

"Proprio per voi: vi siete dimenticato chi siete, altezza? Che cos'è questa follia cui mi è toccato di assistere?"

La sua espressione era severa e la sua voce aveva il tono di rimprovero che a Edhel ricordava la sua adolescenza e i momenti di sconforto in cui aveva creduto di non essere in grado di soddisfare le aspettative del suo maestro. Era una sensazione oltremodo spiacevole.

"Non vi comprendo".

"Andare a cavallo, tirare di spada, scontrarsi corpo a corpo col nemico ed evocare il vostro Daimon per soddisfare i capricci di una donna... è forse questo il comportamento di un prescelto di Amaurea?"

Edhel chinò le ciglia. In fondo al cuore sapeva che la coscienza, imbavagliata dalla sua stessa volontà, gli sarebbe apparsa, presto o tardi, per parlargli sotto qualche altra forma.

"Siete venuto qui per biasimarmi?", chiese a bassa voce.

"No, sono venuto qui per ricordarvi ciò che un tempo eravate e ciò per cui siete stato istruito".

Il modo in cui quella frase fu pronunciata apparve a entrambi troppo duro per la calma di quella notte, ma il ragazzo non protestò: le parole erano così giuste che una parte di lui aveva desiderato a lungo che qualcuno gliele rivolgesse, sia pure con minor violenza.

"La vostra volontà si è indebolita".

"Non è così", protestò il giovane.

L'incantatore si fece più vicino e lo ghermì con lo sguardo, forte e preciso come l'artiglio di rapace.

"Guardate i vostri occhi: la luce di Laurëgil si sta spegnendo".

Edhel si sottrasse a stento all'influenza che l'altro riusciva a esercitare su di lui, anche a distanza di tempo. Sospirò e scosse il capo.

"La luce di Laurëgil in me si è già spenta. Ho visto Valkano cadere. Lì è stata sepolta ogni speranza".

"La speranza non muore finché rimangono in vita gli eroi. E poi, non siete stato voi a giurare di ricostruirlo?"

Come facesse a conoscere quel dettaglio, era un mistero che Edhel non avrebbe mai saputo risolvere. Vargas era sempre stato così, fin dal primo momento in cui l'aveva conosciuto. Aveva occhi che vedevano qualsiasi cosa e orecchie che udivano ogni sussurro. Il principe avrebbe scommesso che fosse perfino capace di leggergli il pensiero.

"L'ho promesso, è vero", ammise. "Ma i tempi stanno cambiando. Ci sono cose che non comprendo, cose che non conosco e cose che non so come affrontare".

"Sono qui per questo, principe. Per istruirvi".

La sua voce era posata e suadente. Era la voce che poteva mettere ordine nei suoi pensieri. La voce di qualcuno che avrebbe potuto aiutarlo ad affrontare ciò che temeva di fronteggiare da solo. Perché da quando aveva lasciato Arthalion, era così che si era sentito la maggior parte delle volte: solo, di fronte a una realtà più grande di lui, a un potere più grande di lui. Nemmeno l'affetto di Aidan poteva colmare quella mancanza, perché c'era una parte del suo spirito che Edhel non riusciva a condividere con il suo gemello e che restava sempre inespressa.

Sapeva di aver provato risentimento nei confronti di Vargas. Lo aveva accusato di essere uno dei maggiori responsabili di quella sensazione di vuoto che lo aveva attanagliato, perché lo aveva lasciato andare nel mondo senza la giusta preparazione. Tuttavia, rivederlo e sapere che aveva fatto tanta strada solo per parlare con lui, gli fece cancellare i cattivi pensieri che aveva nutrito negli ultimi mesi.

Vargas era colui che aveva sempre creduto nelle sue capacità, il solo sostegno, uno dei pochi, pochissimi cui importasse davvero della sua esistenza. Poteva aver fatto delle valutazioni errate sul suo conto, poteva averlo sottovalutato quando aveva scelto di non rivelargli informazioni fondamentali o di non addestrarlo per la Prova, ma in definitiva era qualcuno che non l'aveva mai abbandonato.

Edhel chinò il capo, obbediente.

"Istruitemi, allora", disse.

Vargas sorrise di quella sottomissione: era ancora il suo discepolo, dopotutto. Era ancora la sua speranza. Gli rivolse uno sguardo grave prima di iniziare il suo discorso.

"Non è di Valkano che dovete preoccuparvi, per ora. Il regno degli Elfi sta morendo, la stirpe dello spirito sta precipitando nell'oblio".

Sul viso del ragazzo si disegnò una smorfia di stupore.

"Maestro, Galanár ha già iniziato a unificare Uomini ed Elfi", lo contraddisse. "Noi trionferemo in questa guerra: la materia non potrà vincere l'intesa tra lo spirito e l'ingegno".

Lo sguardo tagliente di Vargas arrestò ogni suo entusiasmo e lo spinse di nuovo a zittirsi.

"Ne siete davvero certo? Fin dove arriva il vostro sguardo? Re Arantar è stanco, la sua vita si sta spegnendo. Egli non governerà il nostro mondo ancora a lungo. Anárion è morto e Lómion è fuggito, ed è comunque troppo giovane e inesperto. Non è abbastanza forte per contrastare il potere che cresce ad Est, mentre Galanár già cinge la corona di Foroddir".

Mentre parlava, misurava la stanza a passi lenti. Aveva le braccia incrociate sul petto e teneva il capo chino, come se meditasse. Non lo guardava, ma Edhel sentiva ugualmente un peso che gli cresceva sul suo petto: solo udire quelle parole gli stava spalancando dinnanzi una visione che avrebbe voluto evitare.

"Voi tacete", continuò il maestro, incalzante, "ma la vostra mente ha già visto cosa accadrà. Non volete ammettere a voi stesso quanto esatte siano le vostre previsioni, ma il cuore sa la verità".

Edhel cominciò a respirare con difficoltà. I pensieri lo aggredirono, le visioni iniziarono a moltiplicarsi e ad affollargli la mente, come nella notte della Prova. Cercò di scacciarle ma, mentre serrava gli occhi, avvertì uno sguardo di fuoco che lo obbligava a tenerli ancora aperti, fissi sulla realtà.

"Vostro fratello, con la sua promiscuità, metterà fine alla stirpe reale di Laurëlindon. Essendo lui stesso senza razza, non vi dà alcun valore e non si preoccuperà di contaminarla. Galanár è senza Dei e senza morale. La sua sciocca illusione di dominare un unico, grande regno, non può portare che a una sola conclusione: non ci sarà più un mondo elfico, non ci sarà più la tradizione e la cultura. Tutto si confonderà, la linea di sangue verrà spezzata. Ogni sapienza si perderà e il nostro mondo sarà costretto a fondersi con ciò che non ci appartiene".

Prese una pausa ed Edhel benedisse quella tregua che veniva data al suo cuore.

Era vero ciò che Vargas aveva detto: tutti quei ragionamenti li aveva già fatti da sé, e molto tempo prima. Con la caduta di Valkano, però, qualcosa in lui era cambiato. Aveva acquisito una nuova conoscenza che lo aveva reso più forte, assieme alla consapevolezza che molti eventi erano inevitabili e fuori dalla sua portata. Edhel aveva iniziato a vivere solo per sé e aveva smesso di vivere per il suo futuro. Perso in quel sogno di perfetta immobilità, era rimasto sordo a tutti quei richiami. Solo in quel momento cominciò a udire le parole del suo maestro che si facevano sempre più vicine, come i latrati di una muta di cani lanciata per stanarlo dal suo rifugio.

"E voi cosa farete, Edheldûr?", lo colpì Vargas con crudo sarcasmo. "Ricostruirete Valkano? Se il sangue elfico andrà perduto, non ci saranno più Daimonmaster. A chi insegnerete le vostre arti? Laurëlindon ha bisogno del sangue puro dei suoi figli per prosperare. Amaurea abbia pietà di noi se Galanár dovesse indossarne la corona".

Il principe vacillò: il cervo stava ancora cercando di fuggire, affannandosi inutilmente nella sua corsa.

"Non c'è nulla che io possa fare", balbettò.

"Voi?", sbottò l'elfo anziano. "Voi siete il solo in grado di salvare ogni cosa. Lasciate che Galanár si bruci inseguendo il suo sogno e Laurëlindon sarà vostra".

L'aveva detto. Aveva pronunciato quelle parole. Aveva inserito l'ultimo tassello nel mosaico che Edhel aveva sempre lasciato incompleto di proposito. Il ragazzo rabbrividì di paura e di piacere insieme.

"Quello che mi proponete è assurdo", esclamò.

"Assurdo è quello che voi state facendo della vostra vita. Siete un Daimonmaster e siete di stirpe reale! Nonostante le discutibili scelte di vostra madre, gli Dei vi hanno benedetto e vi hanno concesso una nascita regale e un sangue puro... perché non volete credere al vostro destino?"

"Re Arantar non lo permetterebbe mai".

Vargas lo fissò un istante spazientito, con la stessa espressione che gli rivolgeva quando Edhel, durante l'addestramento, si ostinava a restare sulle proprie posizioni. Prese un lungo respiro, quindi frugò nella tasca della tunica.

"Re Arantar vi manda questo".

Il giovane sentì che qualcosa di piccolo e freddo scivolava nella sua mano. Distese la palma e fissò un anello. Era quello che aveva immaginato e temuto insieme: era il sigillo reale di Laurëgil.

"Io... io non posso farlo!", si schermì, cercando di restituire il dono.

"Edheldûr, non siate sciocco!", lo sovrastò l'altro. "Considerate ciò che vi sto offrendo. Cosa vi ho detto la prima volta che abbiamo discusso delle vostre abilità? Vi ho fatto una promessa, lo rammentate?".

"Sì", sospirò il giovane. "Voi mi prometteste un potere immenso".

"A patto che vi foste fidato di me e aveste seguito i miei insegnamenti. Ora sono qui per rinnovarvi quella promessa, ma con nuovi e più concreti argomenti. Accettate?"

Accettare?

Come se fosse semplice, dire quel sì che avrebbe cambiato il destino di tutti.

Accettare e, in un secondo, tentare di rovesciare il mondo così come era stato concepito.

Accettare e annullare il tempo che era trascorso, aprendosi a nuove, molteplici possibilità.

Era talmente perfetto da sembrare impossibile.

"Ho bisogno di riflettere".

"Questi non sono tempi per riflettere. Abbiamo bisogno di Dei per non perdere la fede nella nostra sapienza, e abbiamo bisogno di eroi per non perdere la speranza nella nostra razza".

L'eloquio di Vargas, tanto sicuro e appassionato, avrebbe convinto chiunque. Edhel sperimentò una profonda vertigine al pensiero che quel sogno potesse essere reale.

"Io non sono un eroe", commentò spaurito.

"Voi siete l'eroe di cui gli Eldar hanno bisogno, se solo avrete la forza per diventarlo. Dipende solo da voi... la scelta è vostra".

Il silenzio invase la stanza, lo stesso che vi albergava quando vi era entrato. Edhel non aveva fiato per quella risposta. Non riusciva nemmeno ad articolarla nella sua mente.

Vargas, nel frattempo, lo stava soppesando, misurando gli effetti provocati dalle sue parole prima di porre fine all'incontro.

"Il mio tempo qui si è esaurito", annunciò. "La segretezza di quanto vi ho detto è essenziale e va mantenuta a costo della vita. Sono sicuro della vostra lealtà verso il vostro sangue e sono certo che saprete fare la giusta valutazione".

Recuperò il mantello che aveva lasciato cadere su una sedia e vi si avvolse. Prima di coprirsi il capo si fermò a guardare il giovane.

"Resterò a Laurëgil in attesa della vostra risposta. Vi saluto, mio principe... e mio re".

Gli rese omaggio come a un sovrano, poi aprì la porta e scomparve nell'ombra da cui era apparso.

NOTA DELL'AUTORE

De diis et heroibus (letteralmente: Degli dei e degli eroi) è il titolo dell'opera di Joseph de Jouvancy (1643-1719), che scrisse per i suoi giovani studenti un'appendice alle Metamorfosi di Ovidio. Il testo, in latino, era un compendio degli dei e gli eroi della mitologia greca e romana.

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