17. QUICUM OMNIA AUDEAS

Il re di Gonthalion aveva accettato la sua proposta. Forse voleva anche lui del tempo per riorganizzare le truppe, forse voleva solo concludere quel conflitto o forse voleva davvero la sua testa, in un modo o nell'altro.

Qualunque fosse la ragione, Galanár aveva avuto la sua risposta. Non gli restava altro da fare che rimettere in moto la macchina da guerra.

Aveva la parte restante del suo esercito, il contingente quasi intatto che gli aveva portato Aidan e i reparti elfici sopravvissuti dell'esercito di Anárion. Del vecchio re gli restava anche un nutrito gruppo di incantatori, che poteva anche essere impiegato in campo dal momento che Formenos non veniva più protetta. E c'erano i Maestri di Valkano, ai quali chiedere di sposare la sua causa.

Anche il tempo sembrava essergli propizio: nella migliore delle ipotesi, a nessuno dei due schieramenti sarebbe convenuto attaccare prima che fosse trascorso un mese. Erano entrambi troppo acciaccati per affrontare uno scontro tanto cruciale. L'inverno sarebbe arrivato presto a ghiacciare quelle terre del Nord. Avrebbe azzardato e proposto al re dei Nani di scontrarsi allo sciogliersi dei ghiacci, nei primi giorni di primavera. Così avrebbe avuto tempo di rimettersi in piedi. Era chiaro che la stessa concessione veniva fatta anche al nemico ma, tra i due, lui era quello che ne aveva più bisogno, quindi non poteva andarci tanto per il sottile, in quell'occasione.

Con questi e mille altri ragionamenti per la testa, Galanár cominciò a predisporre la battaglia. Sarebbe stata memorabile e, dentro di sé, il re era convinto di aver vissuto la sua intera esistenza per quel momento.

Mellodîn fece capolino dalla porta. Vide che era da solo, intento a scrivere appunti, così spinse l'uscio fino a spalancarlo e fece entrare un valletto che attendeva alla sue spalle con un vassoio. Carne, pane, formaggio e vino furono poggiati in un angolo del tavolo. Il ragazzino fece un profondo inchinò e sparì.

Il comandante attese che fosse scomparso nel corridoio, quindi entrò e accostò la porta dietro di sé. In tutto quel tempo, Galanár non si era mosso. Aveva continuato a occuparsi delle sue carte come se non ci fosse nessuno attorno.

Mellodîn si fermò al centro della stanza, portò le mani alla cintura e sorrise divertito.

"Nell'elenco delle mie mansioni non ricordavo ci fosse anche quella di doverti sfamare".

Il re rise suo malgrado, sollevò il capo e poggiò lo stilo nel calamaio.

"C'è quella di impegnarti a tenermi in vita, che è quasi la stessa cosa. Sono il tuo re, ormai".

"Non me lo ricordare, ti prego! Ho già dovuto impiegare fin troppo tempo a calmare Aegis. Il tuo improvviso amore per i diademi elfici gli ha fatto quasi venire un colpo".

"Di' a Aegis di riprendersi alla svelta. Adesso ha una vera schiera di incantatori Eldar da addestrare e portare in battaglia, invece di doversi accontentare dei soli maghi umani. Che altro potrebbe desiderare?"

Il comandante alzò le spalle, si lasciò andare su una sedia accanto a quella di Galanár e incrociò le gambe, poggiando gli stivali sopra il tavolo. Visto che il re continuava a disinteressarsi del cibo, versò il vino a entrambi e cominciò a piluccare un po' di mollica.

"A ogni modo", osservò, cercando di riportare il discorso al punto iniziale, "diventare re non ti ha reso immortale. Dovresti provvedere ai bisogni primari del tuo corpo".

"Se dovessi davvero provvedere ai bisogni primari del mio corpo", rispose l'altro, continuando a scrivere, "non sarei in questa stanza e non sarei con te".

Mellodîn si limitò a guardarlo con preoccupazione, senza insistere oltre. D'un tratto Galanár posò il calamo, spinse i fogli lontano da sé e distese il braccio per avvicinare prima la coppa di vino, poi uno dei piatti.

"Va bene, come vuoi...", mugugnò in segno di resa. "A volte non è facile staccarsi dai propri pensieri, soprattutto quando senti di essere vicino a una soluzione".

"E credi che lasciarsi divorare dalla propria ossessione, un attimo prima di aver raggiunto l'obiettivo, sia una trovata migliore?"

Galanár sospirò e la sua espressione seria si alleggerì, lasciando intravedere un po' di sollievo.

"Sono contento che tu non abbia ancora smesso di sopportarmi", confessò con il tono lieve che assumeva solo quando si sentiva rilassato e al riparo dal giudizio altrui. "Ho bisogno di qualcuno con cui scherzare nei momenti peggiori".

"Pensavo che, prima o poi, questo posto l'avrebbe preso Silanna", osservò il comandante con cautela.

"Perché questo improvviso interesse per Silanna?", chiese il re con sospetto.

"Perché ormai è più il tempo che passa a tirare coltelli contro Edhel che quello che impiega a starti accanto in questa campagna. E io non sono l'unico ad averlo notato".

L'amico fece spallucce, ostentando indifferenza.

"Be', la gente ama chiacchierare quando non ha nulla di meglio da fare e quando non sa quale sia la verità".

"E qual è la verità?"

Galanár si immobilizzò di fronte a quella domanda. Sembrò valutare la possibilità di una vaga risposta di circostanza, ma infine la scartò.

"La verità è che io non ho idea di come debba essere una coppia", ammise. "Prima di Silanna, il tempo più lungo che ho trascorso con la stessa donna si riduceva a una manciata di notti, e non necessariamente consecutive. Tutto questo pensare a come ci si debba comportare giorno dopo giorno è un esercizio stancante. A volte sento di non possedere né la voglia, né l'attitudine per dedicarmici".

"Se stessimo parlando di una donna qualsiasi, ti risponderei di non crucciarti, che il tempo sistemerà ogni cosa, ma non è questo il caso... tu non mi hai dato retta! Ti avevo raccomandato di non scegliere una donna che facesse parte del tuo esercito, che ti seguisse in battaglia. Ora, che ti piaccia o no, i vostri amori e malumori si riflettono sul campo".

"Non lasciarmi sola stanotte", lo aveva implorato.

"Devo andare", era stata la risposta di sempre.

Da quando Galanár si era poggiato sulla testa quella corona insanguinata, lo spirito di SIlanna si era fatto più inquieto e sempre meno incline ad accettare le fragili motivazioni che si era imposta con la ragione. Il suo istinto da maga le diceva che la situazione stava mutando: qualcosa era morto e qualcos'altro spingeva per venire alla luce, ma lei non riusciva ancora a distinguerne la natura.

Quella sera, la sensazione che le opprimeva il petto si era presentata più intensa. Aveva cercato di trattenere con sé Galanár, ma aveva ottenuto soltanto un rifiuto più scortese del solito. Così aveva deciso di andare a dormire, sperando di assopirsi in fretta e di transitare fino all'alba successiva senza che la notte si accanisse contro di lei con oscuri presagi.

Non dormì che un paio d'ore, poi si svegliò di colpo, in preda all'ansia. Si ritrovò seduta sul letto, rigida e affannata, con la fronte imperlata di sudore. Un brivido le tagliò la schiena, mentre le immagini violente di un incubo la scuotevano ancora, anche a occhi aperti.

Cercò di ordinare i frammenti scomposti che erano sopravvissuti al risveglio, obbedendo alla sensazione che fosse importante farlo subito, ma non vi riuscì. Era tutto confuso: nel sogno, qualcuno o qualcosa l'aveva colpita con una spada. Giaceva raggomitolata per terra e cercava di trattenere il sangue, premendosi la ferita con una mano. Accanto a lei, nella pozza scarlatta che si allargava sempre più rapida, era poggiata una corona elfica, che sembrava la stessa indossata da Galanár ma al contempo non lo era. Nello spazio profondo dell'inconscio aveva provato un intenso senso di angoscia legato alla figura del re.

Ma quale re?

Non ne era certa, perché l'immagine di lei e del diadema era stata a tratti interrotta da ricordi del passato, scene del presente e proiezioni del futuro. Il suo cuore, però, prese subito ad agitarsi, in ansia per Galanár.

Si alzò, indossò il mantello sulla veste da notte e uscì a cercarlo. Non era troppo tardi, lo avrebbe di certo trovato sveglio nel suo studio.

Come aveva immaginato, una lama di luce si disegnava sul pavimento appena fuori dalla stanza, sfuggendo alla porta socchiusa. Dalla fessura inquadrò i due uomini e parte della tavola, dove era stato posato del cibo. L'atteggiamento rilassato di entrambi la tranquillizzò: almeno, con la sua irruzione, non avrebbe interrotto nessuna importante riunione.

Fece per entrare, quando udì il comandante pronunciare il suo nome. D'istinto si fermò e rimase immobile ad ascoltare.

"Tu e Silanna siete incomprensibili per me", proseguì il comandante. "A volte vi osservo quando siete insieme e mi sembrate solo una coppia di falchi sacri: belli, regali... freddi!"

Il re chinò le ciglia e si passò le dita sulla fronte.

"Freddi...", mormorò. "Come potrebbe essere altrimenti, con una donna dalla castità d'acciaio che non posso nemmeno sfiorare?"

"Non che tu sia di natura più malleabile! Fatta eccezione per i momenti in cui ti dai alle feste e ai bagordi, la tua tempra non è diversa da quella del marmo"

Galanár sembrò non gradire quella risposta, che suonava come un giudizio troppo netto sulla sua persona, e si spazientì.

"Senti, Mellodîn... da quando abbiamo appurato che Silanna è un Daimonmaster, ho fatto tutto quello che hai voluto: ho rispettato lei, le sue richieste e le insulse regole di un monastero che non esiste più. L'ho fatto per non creare incidenti che potessero riflettersi sulla nostra campagna. Adesso, visto che sono stato così bravo, mi è almeno concessa la libertà di atteggiarmi con lei come più mi aggrada?"

Il comandante tirò giù le gambe dal tavolo, raddrizzò la schiena e si puntellò la testa sulla mano, avvicinando il viso a quello dell'amico.

"Certo che ti è concesso, purché questo non significhi essere pronto a sacrificarle l'intera Amilendor un giorno e, il successivo, trattarla come se non fosse nulla per te. Silanna ti è rimasta accanto per tutta la notte, quando pensavi di dover morire. Poteva fuggire e non l'ha fatto, ma tu sembri averlo dimenticato l'attimo dopo esserti posato la corona sulla testa. Io non ho mai avuto alcuna speciale predilezione per lei, ma so per certo che nessuno merita un simile trattamento. Così la farai ammalare. La farai impazzire".

Una volta ancora la reazione di Galanár fu glaciale, ma era la freddezza che sfoderava quando era in difficoltà, quella. Quando si sentiva messo in scacco o quando sapeva di avere torto.

"Ti stai ammorbidendo, amico mio", ironizzò. "Spero che non sia la presenza di Alis a rammollirti. Troppe notti in compagnia di una donna rischiano di minare la tempra di un guerriero".

"Della mia tempra me ne occupo io. E Alis non è affare che ti riguardi".

Il generale non avrebbe oltrepassato quel limite, lo sapevano entrambi. Se c'era un argomento sul quale Mellodîn pretendeva totale riservatezza, era la sua relazione con Alis, e Galanár aveva sempre rispettato quella scelta. Così anche quella volta si ritirò in buon ordine e rimase a fissarlo in silenzio. Nella sua mente si agitava un dubbio che non aveva mai osato pronunciare ad alta voce e pensò che forse era giunta l'occasione giusta per farlo.

"Io vi invidio", confessò. "A volte vorrei riuscire a capire come fate a mantenere così saldo questo legame".

"Lascia perdere", commentò il comandante con un mezzo sorriso. "Le relazioni che non prevedano una continua prova di forza non fanno per te. Ti annoieresti".

Il re considerò per un istante quella prospettiva.

"È probabile", ammise.

Indirizzò lo sguardo su un pezzo di carta poggiato sul tavolo e iniziò a giocare con la punta del calamo, tracciando con distrazione un monogramma su un angolo della carta.

"Con Silanna", riprese, senza sollevare gli occhi dal foglio e senza arroganza nella voce, "sono giunto a un punto in cui, che sia per scelta o per cattiva sorte, io non posso offrirle nulla e lei non può offrire niente a me. Ogni volta che ci penso, che penso di non poter cambiare la situazione, sento di non riuscire a starle accanto. Provo l'istinto di allontanarla, di cancellarla dai miei pensieri. E forse, vista la situazione, è proprio ciò che farò".

Lei scivolò lungo la parete, fino a toccare terra. Premette con forza le mani contro gli occhi, cercando di trattenere le lacrime. Affondò il viso tra le ginocchia per soffocare i singhiozzi. Non avrebbe dovuto ascoltare, era vero, ma quando aveva capito quale fosse l'argomento della discussione, non era riuscita a trattenersi dall'origliare. Era solo colpa sua se il cuore le stava andando in pezzi.

Allontanarla? Cancellarla dai suoi pensieri?

Da quando avevano fatto ritorno da Arthalion, lei si era sforzata di cambiare, di somigliare a ciò che lui desiderava. Aveva cercato di mitigare il suo spirito battagliero e l'orgoglio di Daimonmaster. Aveva provato a essere più femminile, rinunciando a tenergli testa in ogni occasione. Non gli bastava, che lei stesse rinunciando a se stessa per restargli accanto, anche quando era distratto da altre luci?

Silanna sprofondò nel pensiero ossessivo e straziante di essere diventata un oggetto, un bell'oggetto per Galanár. Riusciva a visualizzare solo quell'immagine di sé. Nei complessi ragionamenti in cui il suo cuore si era invischiato, non riusciva più a vedere la spiegazione più semplice, più banale tra tutte: che lui potesse solo avere paura. Paura di un sentimento che non conosceva e che, nelle circostanze eccezionali in cui si erano trovati, nessuno dei due aveva davvero avuto ancora il tempo di sperimentare nella sua naturalezza.

Mellodîn si alzò, aprì la porta e scrutò l'ombra del corridoio. Gli era sembrato di sentire un rumore, ma non vide nessuno. Chiuse l'uscio con fermezza e tornò al suo posto.

"E se invece questo fosse il momento per tenerla più vicina?", replicò. "L'altro giorno non hai solo preso in mano una corona, hai acceso una miccia. In molti sono rimasti scandalizzati o perplessi dal tuo gesto, e non sappiamo quale sarà la risposta di Laurëgil. Tu hai bisogno di un sostegno sicuro e Silanna si è dimostrata una compagna forte e intelligente. Non nascondere quello che provi per lei. Non privartene proprio adesso".

Galanár esitò, poi si lasciò sfuggire un sospiro.

"Non pensavo davvero quello che ho detto, lo sai".

Il comandante assentì con un gesto lieve e un'espressione che raccontava, allo stesso tempo, quanto ritenesse ovvia quella conclusione e quanto lo facesse felice la decisione dell'amico di ammetterlo ad alta voce. Il re, pur non riuscendo a sostenere il suo sguardo diretto, si sentì incoraggiato a proseguire.

"Non voglio tenermela accanto per puro egoismo. Per il suo bene, o forse per il bene di entrambi, so che dovrei allontanarla fino a quando non avrò sistemato tutto. Per riuscirci, però, dovrei mentire e io non riesco a fingere con lei, nemmeno per una buona causa. Non posso farlo. Sento che, se tradissi la sua fiducia, sarei un uomo morto, e tutto il futuro che ho immaginato per noi due insieme finirebbe in cenere".

Tacque un istante e tornò a cercare gli occhi dell'amico, abbozzando un sorriso.

"Che buffo, vero? Riuscire a dirlo con tanta facilità soltanto a te... "

In quel momento aveva un'espressione così sincera che al comandante parve di udire la voce del suo amico così com'era stata molti anni addietro. Lui riusciva ancora a vederlo, il giovane principe, in fondo a quegli occhi di ghiaccio. Un frammento di quel ragazzo allegro, spontaneo ed entusiasta della vita c'era sempre, solo che Galanár sembrava non ricordarlo più.

"Comunque vada a finire questa storia", replicò Mellodîn a quel punto, "e nonostante il cumulo di sciocchezze ed errori che senza dubbio collezionerai, di una cosa puoi stare certo: avrai sempre qualcuno con cui scherzare nei momenti peggiori".

NOTA DELL'AUTORE

Il titolo di questo capitolo è parte di una famosa frase di Cicerone contenuta nel De Amicitia, il trattato dove l'oratore parla delle virtù, della sincerità, della fiducia e della generosità che caratterizzano questo importantissimo sentimento umano:

Quid dulcius quam habere, quicum omnia audeas sic loqui ut tecum?

Cosa c'è di più dolce che avere una persona cui confidare tutto, senza timori, come a te stesso?

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