16. EST MODUS IN REBUS
Figlio mio,
da ogni parte di Amilendor mi giungono notizie del Fuoco Splendente che sta sorgendo a Est, mentre su Arthalion sembra essere piombata una terribile oscurità. Tu sorgi in bellezza e potenza, Galanár, mentre il mio spirito è sempre più malato. Dispero ormai di riuscire a vederti ritornare, così affido a questa missiva ciò che davvero mi sta a cuore.
So che spesso non ci siamo trovati d'accordo e so che più volte mi hai giudicato cauto, e perfino pavido nelle decisioni. Eppure, prima che tu venissi al mondo, ho trascorso anni brandendo la spada sui campi di battaglia.
Ho visto tradimenti e alleanze, signorie cadere e nuovi domini affermarsi. Valorosi guerrieri hanno dato la loro vita perché i regni degli Uomini potessero raggiungere la stabilità e la pace che tu hai ereditato. Abbiamo perso tanto, ma tanto abbiamo conquistato, e abbiamo compreso che la spada ha valore solo quando è messa al servizio del regno.
Della mia esperienza militare e politica, tu hai esaminato con caparbia passione ogni battaglia, ogni strategia, ogni compromesso: una dedizione che avrebbe reso orgoglioso qualsiasi padre. Tuttavia, ci sono valori che non hai mai voluto imparare: la capacità di aspettare, il rispetto della volontà altrui e il timore degli Dei. Questo pensiero corruccia il mio cuore e mi fa temere per te.
Galanár, la notte in cui sei nato, i sogni dei bardi hanno accompagnato la tua venuta al mondo. Hai sempre amato ascoltare questa storia, come se fosse un diritto da sbandierare davanti al destino, ma di rado ti sei interessato a un diverso aspetto della tua leggenda: che essa parla al contempo di fuoco e distruzione.
La guerra, da sola, non ti porterà ciò che desideri, né ciò che ti spetta.
La pace, figlio mio, è la più nobile aspirazione per un re, non il dominio.
Preferisci dunque l'equilibro all'instabilità del regno, la tolleranza al dispotismo, l'ampiezza di vedute all'inflessibilità, la pazienza alla collera.
Sii indulgente con il popolo di tua madre, clemente con il tuo nemico, giusto con i tuoi uomini.
Proteggi i tuoi fratelli e la loro vita. Sii per loro la spada e lo scudo, lo specchio della loro virtù.
Diventa il re che sei destinato a essere, Galanár. Il re che Arthalion merita dopo tanti sacrifici e tanto sangue.
Galanár si soffermò a rileggere quelle righe più e più volte.
La tiara di Foroddir, lucidata e splendente, poggiava sul tavolo. La ammirò per qualche istante, perdendosi nell'intreccio della filigrana, poi osservò di nuovo l'inchiostro con cui Maldor aveva fermato sulla carta le sue raccomandazioni e i suoi timori.
Lo sguardo di suo padre era lo sguardo della sua coscienza: non poteva fissarlo troppo a lungo. Strinse la mano in un pugno e accartocciò il foglio che Aidan aveva custodito con tanta cura per tutto il tempo del viaggio, poi lo gettò via.
"Troppo tardi, padre", mormorò.
Due mesi di separazione avevano cancellato ogni ombra: la gioia di rivedersi era più forte di qualsiasi altro pensiero. D'altra parte, da che Aidan ed Edhel ne avevano memoria, non erano mai stati capaci di mostrarsi risentimento troppo a lungo. Il più delle volte, dopo un litigio, dimenticavano perfino perché fosse cominciato.
Coperti da un tappeto di stelle, i due gemelli stavano distesi sulla pietra, in cima al torrione su cui Edhel aveva ascoltato l'Acqua per ore, mentre la fortezza affogava nella calma della notte. Si scambiarono a voci alterne il racconto della loro avventure, fino al punto in cui le due storie erano convogliate in una, con un incastro di tempi perfetti e felici intuizioni di cui Edhel sembrava essere insieme fiero e scontento.
Aidan aveva capito subito che l'esito finale di quella giornata aveva reso molto inquieto il fratello. Non voleva rovinare quel momento, così pensò di spostarsi su un altro argomento che gli stava altrettanto a cuore.
"Cosa è successo con Adwen?", chiese di punto in bianco, senza troppi giri di parole.
Edhel, che fino a quel momento era rimasto disteso a fissare il cielo, si girò sul fianco e appoggiò la testa alla mano per guardarlo. Sembrava felice che Aidan gli avesse posto quella domanda.
"Se tu mi avessi dato il tempo di spiegare, invece di giocare con i coltelli, ti avrei detto subito che non c'era nulla".
"Nulla?"
"Nulla che avesse a che fare con il sentimento. E nulla che avesse a che fare con il piacere... perché è di questo che sono stato accusato, giusto?"
"Vuoi anche delle scuse, adesso? Chiunque, al mio posto, avrebbe fatto le stesse considerazioni. Inoltre, stai ancora evitando di dirmi cosa è successo tra voi".
"Perché non posso farlo! Posso garantirti, però, che riguarda solo la magia".
Aidan sbuffò.
"Non puoi tormentarmi per la vita con questi segreti! L'Acqua, il Fuoco, i misteri, gli esperimenti... ormai non fai che pensare alla tua magia, in continuazione, e io non ne posso più di questi discorsi!"
"Come ti piace", replicò l'altro lapidario, tornando a guardare le stelle. "Ma è stata la mia magia a toglierci dai guai e a salvarci la pelle contro i Nani. Almeno tu, non te lo scordare!"
Pronunciò l'ultima frase come un colpo di frusta. Aidan si rimproverò per essere finito di nuovo al punto che aveva cercato di evitare.
"I riconoscimenti sono pioggia e vento", mormorò. "Dovresti provare a essere contento di te e di ciò che hai fatto, non preoccuparti sempre di quello che pensa Galanár".
"Non mi interessa quello che pensa", protestò l'elfo con veemenza. "Da oggi in poi non alzerò più un dito. Lui non è il mio re".
Quello era il tono piccato che il fratello assumeva quando chiudeva il mondo fuori dalla sua testa e si rifiutava di ragionare. Aidan aveva cominciato, con il tempo, a trovarlo sempre più esasperante.
"Maledizione, Edhel! Vuoi spiegarmi che differenza fa?", esclamò con insofferenza. "Non appena nostro padre morirà, diventerà il tuo re comunque. Che cambia, per gli Dei?"
L'altro girò il capo e studiò con curiosità l'espressione alterata del gemello.
"Cambia", rispose glaciale. "Non doveva accadere adesso e non in questo modo".
Esitò un attimo prima di formulare le restanti parole a mezza voce.
"Non faccio che pensarci... se avessi agito in modo diverso, avresti potuto regnare tu su Arthalion. O avremmo potuto regnare insieme".
Aidan affondò le dita tra i capelli e serrò gli occhi.
"Basta! Non voglio sentirti dire altro! È alto tradimento, questo!"
Di fronte a quella reazione, l'altro tacque. Rimasero in quel modo per un bel pezzo: Edhel disteso a fissare un cielo che era diventato solo lo schermo delle sue fantasie; Aidan a tenersi la testa tra le mani, nel tentativo di riportare ordine nella sua mente e pace nel suo spirito.
Dopo un lungo silenzio, fu l'elfo a parlare.
"Perché hai detto non appena?"
Il gemello sollevò il capo e lo fissò senza capire.
"Hai detto: non appena nostro padre morirà. Non quando, oppure il giorno in cui... hai detto non appena. Perché?"
L'arciere scrutò il viso del fratello sotto i raggi della luna. Sembrava aver interrotto lo scorrere del tempo, con quella domanda. Si sforzò di accordare il battito del cuore al respiro prima di rispondere.
"Nostro padre è molto malato", confessò con dolore.
"Splendido!", ribatté Edhel con voce amara. "Così adesso abdicherà in favore di Galanar, lui avrà ottenuto tutto quello che voleva e noi potremo finalmente tornarcene a casa".
Di tutte le possibili reazioni che aveva pensato di produrre con la sua rivelazione, quella era di certo l'unica che Aidan non aveva previsto. E che lo sconvolse.
"Edhel, sei orribile! Non ti importa di nostro padre? Non lo ami?"
"Ovvio che mi importa", sbottò il gemello. "Mi chiedi se lo amo... ma lui ha mai davvero amato noi? Ci ha sempre preferito nostro fratello".
"C'è stato un tempo in cui l'ho pensato anch'io ma, dopo quello che ho visto ad Arthalion in questo viaggio, non lo credo più".
"Un po' tardi per fare ammenda, ti pare?", commentò l'elfo con disappunto.
Aidan lo considerò con profonda tristezza.
"Sai qual è la differenza tra noi due, Edhel? Io mi concentro sempre sulle cose che ho, tu pensi solo a quelle che avresti potuto avere".
Nessuno parlò più. La notte continuava a scorrere indifferente ai pensieri e ai moti delle loro anime. L'elfo respirò il suo odore, insieme alle scintille di vita nascosta che l'animavano. Chiuse gli occhi, si immerse nella parte più profonda del suo spirito e vi rimase a lungo, prima di nuotare di nuovo verso la superficie.
"Senti, Aidan...", mormorò.
"Che c'è?"
"Non lasciarmi affondare".
Era arrivata di notte. Appena era giunto il messaggio di Aidan con la buona notizia, aveva obbligato la sua scorta a condurla a Formenos nel minor tempo possibile.
Il comandante era stato avvertito che era giunta una visita urgente per lui. Quando l'aveva vista, era rimasto di sasso. Era l'ultima persona al mondo che avrebbe potuto immaginare sullo sfondo di quel palazzo. La sua espressione era passata dal dubbio alla felicità, dalla confusione alla rabbia, e non in maniera così netta.
Non l'aveva salutata. Era andato dritto dai cavalieri che l'avevano accompagnata e li aveva interrogati bruscamente, poi li aveva congedati senza troppi complimenti.
Erano rimasti soli, al centro della corte deserta illuminata dalla luna.
Si guardarono in silenzio e nessuno dei due osò fare un passo verso l'altro: Alis in attesa di una parola, Mellodîn ancora in bilico tra il sogno e l'incubo. Alla fine il comandante scosse il capo: non era il tipo da infrangere i principi sui quali aveva basato la propria disciplina e la propria esistenza. Riusciva solo a pensare che l'operato di Aidanhîn e Amalion era stato discutibile. Prima di poter fare qualsiasi concessione alla coscienza o ai sentimenti, doveva chiarire quella faccenda.
Le ordinò di seguirlo: avrebbe cercato i due capitani e li avrebbe interrogati davanti a lei. Così Alis si trovò catapultata in uno dei corridoi di quel palazzo sconosciuto, cercando di tenergli dietro e di perorare la causa dei suoi involontari accompagnatori.
"Ti prego, non adirarti con loro. Hanno fatto del loro meglio".
"Non credo proprio. Se avessero davvero fatto del loro meglio, non ti avrebbero nemmeno fatto lasciare Arthalion".
"È notte fonda, che cosa hai intenzione di fare adesso?"
"Di chiuderli in gattabuia per un paio di giorni, così impareranno che la guerra non è una giostra. Non si portano le donne dove si combatte!"
Alis sospirò e cercò di affiancarlo, sperando di placare la sua furia.
"Sono solo due ragazzi, e sono comunque due principi".
"Principi, lo sono nel loro regno. Questo è un esercito. Qui c'è un generale e poi ci sono io, e questo loro lo sanno!"
"Se li avessi visti, non saresti così duro! Il capitano Amalion avrebbe preferito affrontare un drago e il principe Aidanhîn tremava come una foglia..."
"E ne avevano ben donde!"
D'un tratto lei si impuntò, smise di seguirlo e si arrestò al centro del lungo corridoio.
"Davvero non ti importa che io sia qui?", esclamò da quella distanza.
Lui si fermò a sua volta e si girò.
"Te ne devi andare".
Alis incrociò le braccia sul petto.
"Tutta questa strada solo per sentirmi dire questo?"
Spazientito, Mellodîn tornò sui suoi passi e la fronteggiò.
"Nessuno ti ha detto di venire. Perché lo hai fatto?", chiese con tono di rimprovero.
"Se fossi rimasta ad Arthalion", replicò lei, calma e decisa, "avrei vissuto chiedendomi ogni giorno come sarebbe potuta essere la mia vita con te, come avrei potuto far andare tutto in maniera diversa. Solo venendo qui potrò scoprire cosa mi attende. Solo vedendo la verità con i miei occhi, potrò andare avanti senza rimpianti".
Quelle parole gli attraversarono il cuore e lo gettarono nella più totale confusione.
"Alis... dannato me! Non ci eravamo fermati al punto in cui io non ero più nulla e tu volevi essere libera?"
Lei sorrise. Lo conosceva abbastanza per sapere che quella burbera esclamazione era solo un modo per nascondere il cedimento interiore. A lei non poteva nascondere nulla, perché sapeva leggergli negli occhi e trovarvi ogni volta tutto quello che amava. Si avvicinò a lui e gli poggiò la mano sulla guancia.
"Sei sempre bello, comandante", mormorò con dolcezza. "Nonostante quello che hai passato. Lasciamo dormire quei ragazzi in pace... possibile che tu non abbia un piano migliore per questa notte?"
Non poteva resisterle, lo sapeva anche lui. Per la verità, non aveva più senso farlo. Non dopo che lei aveva attraversato mezzo continente per raggiungerlo. Qualsiasi parola, pronunciata nel presente o nel passato, non avrebbe retto il confronto con quel gesto. Mellodîn non poteva che arrendersi, e lo fece. Poggiò una mano sopra quella che teneva ancora sulla sua guancia, mentre con l'altra le sollevò piano il mento. Le passò lo sguardo sul viso, si fermò sulle sue labbra socchiuse. Il desiderio non poteva più essere contenuto dalle regole della ragione.
"Non sai cosa stai chiedendo, ragazza", mormorò prima di avventarsi sulla sua bocca per divorarla.
Silanna, per quella notte, avrebbe aspettato. Lui aveva faccende più urgenti da sbrigare e non poteva più rimandare.
Galanár guardò ancora una volta la corona poggiata davanti ai suoi occhi. Aveva ottenuto ciò che aveva voluto, o forse se l'era preso. Cominciava a non distinguere più con chiarezza il confine tra le due cose. Silanna era stata, ed era ancora, l'unica eccezione. Per il momento.
Il primo passo verso il suo obiettivo finale era stato compiuto, era solo questione di tempo. Mise da parte il pensiero di lei e prese lo stilo dal calamaio per vergare la missiva diretta al re di Gonthalion.
Alla luce degli ultimi avvenimenti che avevano colpito entrambi gli schieramenti, aveva deciso di fargli un'offerta: si sarebbero scontrati in battaglia in un giorno concordato. Il vincitore avrebbe avuto la terra e la corona, e il conflitto sarebbe terminato una volta per tutte. Uno scontro epico e onorevole, secondo le regole della cavalleria. E al suo avversario concedeva la scelta del campo.
Si fermò un istante a rileggere quanto aveva scritto, tenendo il calamo sospeso, quindi appose la firma sul fondo del foglio:
Galanár, principe di Arthalion e re di Forrodir.
NOTA DELL'AUTORE
Est modus in rebus è la famosa sentenza di Orazio tratta dalle Satire, che significa appunto "Vi è una misura nelle cose". Usata ancora oggi, allude alla necessità di essere moderati e di avere senso della misura.
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