13. OCCASUS
Ebbe inizio una settimana dopo.
L'intero castello di Formenos si svegliò al grido delle sentinelle, seguito da un boato. La terra tremò, le mura possenti vibrarono, le urla di sgomento riempirono il silenzio assordante prima della seconda carica.
Galanár e Anárion si ritrovarono sui bastioni nello stesso istante, a fissare sconcertati l'attacco nemico: una ventina di bocche di fuoco erano state schierate davanti alle loro difese. Non si trattava, però, né di trabucchi, né di balestre. Né, in verità, di qualsiasi altra arma che il principe di Arthalion avesse mai visto prima. Erano in ferro e avevano l'aspetto di larghe doghe di botte assemblate tra loro. Non avevano ruote, ma poggiavano direttamente sul terreno. Ognuna di quelle armi sputava un proiettile di pietra dalla gittata impressionante. Le balestre della loro contro-artiglieria non potevano nemmeno sperare di sfiorarle.
I colpi volavano senza grande precisione balistica ma, ogni volta che uno andava a segno, l'intera struttura tremava dalle fondamenta e la massiccia pietra iniziava a sbriciolarsi.
Superato il primo smarrimento, sia il principe che il re avevano chiamato a raccolta tutti i loro incantatori. Erano, nell'immediato, l'unica arma di cui disponevano per difendersi. La protezione magica che avevano assicurato alle mura poteva concedere loro un po' di tempo per capire cosa fare, anche se presto dovettero ammettere di non avere molte alternative: i Nani, poco inclini ad attendere una resa per fame o per sete, avevano deciso di passare all'attacco.
Non ci furono più né il giorno né la notte. Il sonno e il riposo divennero concetti distanti e lasciarono spazio all'ansia, all'urgenza, alla paura: ogni colpo ricevuto poteva tramutarsi nella futura breccia che li avrebbe condannati.
Silanna ed Edhel avevano dato fondo a tutte le loro energie per supportare Aegis nelle magie che infondevano solidità alla costruzione. Gli altri incantatori erano ormai stremati, mentre i soldati cercavano di riparare le falle con legno, piombo fuso e qualsiasi altro materiale si trovasse a tiro.
Più e più volte, durante quelle giornate infinite, Galanár si ritrovò a pensare all'immensa distanza che esisteva tra i manuali di arte ossidionale e la cruda realtà dell'assedio. Gli mancava il fiato ogni volta che osservava la frenesia dei suoi uomini, occupati a procrastinare un evento che sembrava inevitabile.
Si sentiva al centro di un piccolo universo che stava per implodere. Quando anche l'ultimo baluardo fosse caduto, non gli sarebbe rimasto altro che radunare quel suo esercito sfinito e affrontare un'ultima volta il nemico, di fronte alle mura crollate della reggia di Formenos.
Lo avrebbe fatto. Era l'ultimo atto dovuto di una guerra che aveva fatto propria.
Fino a quel giorno, però, avrebbe provato a resistere.
La lunga giornata estiva prolungava la luce nel cielo.
Potevano avanzare ancora di qualche miglio, ma il viaggio era stato così tranquillo che Aidan non aveva voglia di sfidare né la sorte, né la notte.
Chissà cosa aveva ottenuto sua madre, o promesso Vargas, in cambio di quel passaggio privo di ostacoli! Prima o poi l'avrebbe scoperto. Per il momento poteva solo rallegrarsi del risultato e sperare che il prezzo pagato per la sua sicurezza non fosse stato troppo alto.
Ordinò all'esercito di accamparsi finché c'era chiarore sufficiente per quelle operazioni. Dovevano essere vicini, forse a meno di un giorno di marcia. Lasciò che Amalion organizzasse la sosta e cavalcò alla ricerca di un'altura che gli permettesse di inquadrare meglio la loro posizione.
Tagliò una macchia di alberi, quindi adocchiò un rilievo. Spronò l'animale in quella direzione, raggiunse la sommità della collinetta e scandagliò il paesaggio che gli si stendeva dinnanzi.
Il sole, alle sue spalle, era quasi tramontato. Il cielo imbruniva e Aidan cominciava a non distinguere con precisione il profilo del bosco. Sapeva che la fortezza era davanti a lui, da qualche parte, ma non riusciva a vederla.
La nebbia del tramonto cominciò a levarsi dal suolo caldo. L'arciere la vide salire oltre il limitare della foresta. Avrebbe fatto meglio a tornare indietro: in breve non avrebbe scorto più nulla. Stava per tirare le briglie, quando un colpo di vento gli ferì la faccia. Un brivido freddo gli accapponò la pelle e gli impose di fermarsi.
C'è troppo vento... e la nebbia non si alza mai quando l'aria è così agitata!
Tornò a fissare la nube che saliva in lontananza e si mischiava con il blu del cielo, e capì di essersi sbagliato. Il cuore gli si fermò quando l'alone assunse una forma riconoscibile: una scura colonna di fumo si levava dal punto in cui si trovava la fortezza di Formenos.
Si era presentato alle porte del castello subito dopo il tramonto. Vestiva una cotta di velluto e portava le insegne del re di Gonthalion. Galanár lo fissò con disprezzo dagli spalti. Sapeva cosa rappresentava quell'ambasciata: i Nani li consideravano ormai vinti. Sputò per terra, quindi si allontanò dai merli e scese le scale del torrione per raggiungere Anárion.
I bombardamenti erano cessati e lo spiazzo davanti alle mura danneggiate sembrava un campo di battaglia abbandonato. L'araldo sventolò una torcia, chiedendo di essere ricevuto dal signore di Formenos.
"Fatelo passare", ordinò Anárion.
L'araldo si inchinò e gli tese il dispaccio.
"Il mio sire attende la vostra risposta entro domani", aggiunse compito, prima di chiedere congedo e allontanarsi dal palazzo.
Quando rimasero soli, Galanár si avvicinò all'elfo.
Anárion lesse la missiva più e più volte, il volto cupo, la mano che gli tremava. Il principe di Arthalion, per la prima volta nella sua esistenza, desiderò essere altrove: il peso che era sceso sul cuore del re era anche suo.
"Sono le condizioni della resa?", osò chiedere infine.
Non c'era più arroganza nel suo tono. Non sembrava più nemmeno sua, la voce che aveva parlato. Lo zio non lo degnò di uno sguardo. Continuava a fissare la pergamena. Sembrava un essere spezzato.
"Sì".
"E sono onorevoli?"
Anárion lo fissò di sbieco.
"Onorevoli, come le intendete alla vostra maniera? Probabile. Ci lasceranno andare senza infierire se gli consegneremo il castello e le terre di Formenos".
"Altrimenti?"
"Altrimenti passeranno per le armi tutti coloro che troveranno dentro la fortezza, militari e civili, donne e uomini, senza differenza. In ogni caso, qualunque sia la mia decisione, il re di Gonthalion vuole la testa del principe Mezzelfo come trofeo personale".
Galanár si lasciò sfuggire un sorriso amaro.
"Si contenta di poco", commentò.
Anárion lo studiò con attenzione.
"Sembra che il re dei Nani vi consideri la vera causa di questi ultimi scontri... ha ragione?"
Gli occhi del principe, a quella domanda, recuperarono il loro aspetto tagliente e altero, che cancellò l'ombra di desolazione e di rimpianto che li aveva sfiorati.
"Può darsi", replicò duro. "Ma ormai non ha importanza. È la mia testa che vuole, non la vostra".
L'elfo osservò con distacco quel cedimento momentaneo e decise di non alimentarlo.
"Che cosa dovrei fare, dunque?", domandò.
"Volete dire: cosa farei io al vostro posto? Sarebbe troppo ovvio rispondere che resisterei?"
"Oh, non ho alcun dubbio sul fatto che cercherete di tenere la testa ben piantata sul collo il più a lungo possibile..."
Galanár scosse il capo, amareggiato da quella osservazione.
"Non è questo...", si difese. "Mio fratello arriverà, ne sono certo. Resistiamo almeno finché non giungerà con l'esercito".
"Basta così!", lo interruppe il re. "Il principe Aidanhîn doveva essere già qui, secondo i vostri calcoli, e io sono stanco delle vostre promesse. Avete avuto la vostra possibilità, Galanár, e l'avete sprecata".
Lo sguardo del principe, però, si mantenne indomito e Anárion si sentì bruciare al pensiero di non riuscire a piegare il nipote nemmeno in quel frangente.
"Un re è sempre responsabile dei suoi sudditi", riprese. "Un concetto che voi non potete capire. Voi pensate solo a fare la guerra e non vivrete abbastanza per imparare questa lezione... ma sono i miei uomini, quelli là fuori".
Galanár, finalmente, chinò il capo.
"Sono anche i miei", mormorò.
Continuava a fissare la fiamma di una delle torce che illuminavano la stanza, senza vederla. Nell'incavo tra due dita sosteneva una coppa di vino che aveva scordato di finire. Trovarsi nell'impossibilità di agire lo devastava. Era bizzarro osservare come tutto in lui fosse sempre prossimo all'eccesso, come la corda troppo tesa di un arco: assoluta l'ambizione, intenso l'entusiasmo, acuta l'ira, profondo l'avvilimento.
Mellodîn gli passò a fianco. Si fermò, gli sfilò la coppa dalla mano senza che il principe opponesse la minima resistenza, quindi ne gettò il contenuto nel vano vuoto del camino. Galanár non si mosse. Rimase abbandonato sulla sedia, nel silenzio che lo avvolgeva.
"Cosa ha deciso di fare?", domandò il comandante.
"Non me l'ha detto. Lo sapremo solo domani".
"E tu? Tu cosa hai deciso di fare?"
Galanár raddrizzò la schiena e si ricompose.
"Se Aidan fosse qui, saprei esattamente cosa fare".
"Non è colpa sua se è andata così".
Il principe si passò una mano sugli occhi. Si sentiva stanco, ma sapeva che non sarebbe riuscito a riposare, quella notte.
"Lo so. So anche che, se pure arrivasse, non potrebbe fare nulla. Non ha idea di quale sia la situazione, non avrebbe né tempo né modo di studiare una strategia, così alla cieca. Non ha nessuna colpa e tu dovrai ripeterglielo finché non se ne farà una ragione".
Cercò lo sguardo di Mellodîn, mentre dava fondo alle sue energie residue.
"Siediti, dobbiamo parlare".
Che dovessero parlare, il comandante lo sapeva già. Che volesse farlo, era una faccenda ben diversa. Parlare, a volte, significava oltrepassare un punto di non ritorno. Tirò verso di sé uno sgabello e si sistemò di fronte all'amico.
"Se domani Anárion deciderà di arrendersi", iniziò il principe, "il re dei Nani ha promesso di lasciare andare tutti senza violenza. Tu ti occuperai di riportarli a casa. Gli elfi di Aegis e gli incantatori di Valkano saranno liberi di scegliere se tornare a Laurëlindon o se proseguire fino a Arthalion. Silanna ti darà del filo da torcere, ma questo tu già lo sai. Lei... be', deciderà da sola che cosa vuole fare, come sempre. Se dovesse accettare di tornare ad Arthalion con te, fa' il possibile perché si trovi a suo agio".
"Tu dove sarai, mentre io faccio tutto il lavoro sporco?", domandò il comandante, sforzandosi di scherzare.
"Io resto".
Mellodîn annuì. Nella sua testa il quadro era già tristemente chiaro.
"Non hanno chiesto nessun indennizzo di guerra?"
"Sono io l'indennizzo".
Il comandante serrò le palpebre per non sentire l'angoscia.
"A questo proposito...", riprese Galanár, dopo qualche istante. "Va' subito da Edhel. Dagli un paio dei tuoi uomini, i più abili e che conoscano la strada. Devono uscire dalla cittadella stanotte. Digli di mettersi sulle tracce di Aidan. Edhel è una piaga sotto tanti punti di vista, ma è di certo un incantatore molto dotato: non avrà problemi a trovare il suo gemello. Fagli entrare in quella testa calda che questi sono gli ordini: recuperare Aidan e mettersi subito in viaggio verso casa... Arthalion ha bisogno di un erede".
L'amico non rispose, non annuì, non si mosse. Galanár pensò che la situazione fosse già abbastanza difficile così come si presentava. Non aveva la forza di aggiungere altro, anche se forse lo avrebbe desiderato.
"Ho detto: va' subito da Edhel, comandante! È un ordine".
Mellodîn si alzò. Gli rivolse una rapida occhiata, poi fece per andare. Passandogli accanto, così come aveva fatto entrando, si fermò e gli poggiò una mano sulla spalla.
"Servirvi è stato un privilegio, vostra altezza".
Galanár si lasciò sfuggire un sospiro impercettibile. Mise la mano su quella dell'amico, ma non ebbe la forza di voltarsi a guardarlo.
"Tu non mi hai mai servito".
Era un'idea assurda e priva di senso! Che fosse un ordine, poi, non faceva alcuna differenza: lui non si sarebbe mosso da lì. Gli Dei non gli avevano dato in dono due Arcani perché fuggisse nottetempo, come un comune manigoldo e nel momento cruciale.
C'era un'unica richiesta sensata nelle disposizioni di Galanár: doveva trovare Aidan.
Avrebbe dovuto già essere arrivato, eppure non ne aveva notizia. Nemmeno l'ombra di una percezione, un segnale inconscio della sua vicinanza. Lo avrebbe trovato, ma a modo suo.
Edhel entrò nella stanza del suo gemello e andò dritto fino alla voliera. Sollevò il telo che la copriva e fissò il falco. Non era avvezzo al contatto con Menelok e lo stesso poteva dirsi per il volatile. Un po' avrebbe improvvisato, un po' avrebbe cercato di imitare ciò che aveva visto fare.
Aprì la gabbia e tolse il cappuccio all'uccello, poi tese il braccio sperando che saltasse.
"Andiamo, Menelok! Possiamo farcela... tu puoi trovare il tuo padrone e riportarlo da me".
Come se avesse compreso, il rapace saltò. Edhel lo resse in maniera maldestra e avvertì il dolore degli artigli piantati nella carne, ma non esitò.
Avanzò fino alla finestra, si sporse e lanciò il falco verso il cielo notturno.
"Trovalo!", sussurrò, come una preghiera o una speranza.
"Sei qui".
Il suo passò sfiorò il pavimento della stanza. Galanár poteva ricostruire i suoi movimenti, il fruscio della veste, le onde dei capelli, anche senza girarsi a guardarla. Silanna gli si fermò di fronte e gli tese una mano che lui strinse subito.
"Hai parlato con Mellodîn?"
Lei annuì. I suoi occhi dorati erano pieni di tristezza. Indovinò che avevano anche versato qualche lacrima, asciugata un attimo prima di entrare.
"Vai da Edhel, per favore. Parte stanotte e tu devi andare con lui".
Lei sorrise.
"Io non andrò da nessuna parte".
"Silanna, ti prego..."
Si inginocchiò di fronte a lui e lo zittì poggiandogli un dito sulle labbra.
"E dove andrò? alla corte di Arthalion? a quella di Laurëgil? o al monastero distrutto di Valkano? Non ho nessun posto dove poter vivere, che non sia accanto a te".
La sua espressione era dolce e malinconica. La sfumatura della sua pelle si perdeva nella penombra e le iridi dorate sembravano ancora più brillanti. Galanár le passò il dorso della mano sulla guancia, poi le disegnò il contorno del viso con le dita. Silanna non gli aveva mai visto tanta tristezza nello sguardo.
"Accanto a me...", ripeté piano. "Non era questo il punto in cui pensavamo di ritrovarci, non è vero? Credevo di avere tutto, e forse anche tu lo credevi, e adesso devo lasciarti senza più certezze".
Silanna scosse il capo e nascose una lacrima che brillava sul bordo dell'occhio.
"Non è ancora tutto perduto!", esclamò.
"Vorresti far sopravvivere un sogno a ogni costo? Sei sleale", la rimproverò con tenerezza. "Quello era compito mio".
"Non voglio far sopravvivere il sogno, voglio far sopravvivere il sognatore".
L'accento accorato con cui lo disse gli sciolse il cuore. L'attirò a sé, le raccolse i capelli tra le mani e la baciò con lentezza, deciso a esplorare ogni millimetro della sua bocca e insieme rassegnato al pensiero che quello sarebbe stato l'ultimo tesoro che avrebbe potuto stringere. Si sarebbe preso tutta la notte per memorizzare ogni frammento di quell'emozione agrodolce, di quello struggente ricordo che voleva portare con sé.
Aidan era piombato in un terribile stato di agitazione. Amalion aveva cercato in ogni modo di farlo ragionare: erano al centro di una radura a qualche miglio da un castello che forse si era già arreso. Non avevano idea della disposizione degli assedianti né della situazione degli assediati. In più, erano responsabili di un discreto contingente di uomini. Non potevano spostarsi a tentoni o piombare all'improvviso sul campo senza un minimo di organizzazione tattica. Avrebbero corso l'inutile rischio di essere sbaragliati.
Su un solo punto erano entrambi d'accordo: avrebbero affidato Alis a un gruppo di uomini fidati e abili con le armi. L'avrebbero tenuta al sicuro se avessero deciso di proseguire verso la fortezza e l'avrebbero ricondotta a casa nella peggiore delle ipotesi.
Dopo estenuanti discussioni, Amalion riuscì a convincerlo che gli era necessario riposare. Non avrebbe concluso nulla con la testa stordita dalla stanchezza e dalla confusione.
Aidan, però, indugiò ancora prima di sistemarsi per la notte. Rimase fuori dalla tenda a guardare le stelle. In testa gli balenarono i ricordi di sé, di Edhel e dei suoi tanti, bizzarri discorsi sull'infinito. Quante volte era rimasto ad ascoltarlo, rapito dalle sue parole!
Una fitta di vibrante nostalgia gli attraversò il petto e rimpianse di non poter rivivere quei momenti.
Proprio allora lo vide: un falco volava in tondo sopra di lui. Si stropicciò gli occhi: di certo lo stato emotivo alterato in cui si trovava stava ingannando i suoi sensi. Cedette comunque al proprio istinto e sollevò il braccio, in quel gesto tanto familiare a lui e al suo rapace.
"Menelok!", lo chiamò.
Il falco, obbediente, virò in discesa e andò a posarsi sul pugno stretto del suo falconiere.
NOTA DELL'AUTORE
Il sostantivo latino occasus (da cui deriva il termine italiano occaso) è collegato al verbo occidere, con prefisso ob- che esprime inversione e radicale cadere, da cui discende il senso di tramontare.
Sia in latino che in italiano, la parola ha mantenuto gli stessi significati: quello letterale di tramonto, Occidente, Ovest, e quello figurato di caduta, rovina, declino, fine, morte.
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