10. PULVIS ET UMBRA
Galanár si calò il cappuccio nero sul capo. Sotto il mantello non aveva la corazza, ma solo una brigantina di pelle, e guanti e ginocchiere in cuoio completavano il suo equipaggiamento leggero. L'unica luce in lui era l'elsa di Ariendil, che teneva ben celata al suo fianco.
Si girò a guardare il piccolo gruppo di uomini alle sue spalle, tutti abbigliati in maniera simile. Ognuno stringeva tra le dita le briglie del proprio cavallo. Il principe sorrise inebriato dall'attesa del piacere sottile che già pregustava.
"Miei signori", li invitò con un gesto della mano e un sorriso affilato che brillava da sotto il copricapo, "adesso andiamo a divertirci".
Montarono a cavallo e si diressero verso una delle porte laterali del castello. Veloci e silenziosi quanto possibile, uscirono uno dietro l'altro nel buio della notte e aggirarono la fortezza. Si ritrovarono raggruppati al limitare del bosco. Solo il sommesso fremito delle froge dei cavalli si udiva nell'oscurità.
Galanár scrutò l'ombra davanti a sé: il campo nemico era di fronte a loro e sembrava tranquillo. Sollevò la mano aperta, facendoli attendere ancora per qualche istante. Studiò la posizione dei fuochi e delle guardie, poi cercò nell'ombra gli scuri profili delle macchine d'assedio, coperte da pelli e fogliame. Con dei rapidi segni delle dita, divise gli uomini tra Mellodîn, Bellator e se stesso. Quindi abbassò il braccio, spronò il cavallo e, curvandosi quanto possibile per assecondare l'andamento dell'animale, si lanciò al galoppo.
Come tre dardi, i gruppi si divisero e schizzarono all'unisono, ognuno con un cavaliere in testa. La rapidità e la coordinazione erano essenziali. Non avevano nient'altro su cui fare affidamento.
Aidan camminava senza troppa voglia lungo gli oscuri corridoi del palazzo. Dopo la conversazione con il capitano Gundech troppi dubbi lo avevano preso d'assalto. Non aveva più sonno e non sentiva nemmeno la stanchezza.Era alla disperata ricerca di una soluzione.
Fu lei a sbarrargli il passo, mentre ancora indugiava in quei ragionamenti.
"Non sei stanco, figlio mio?", chiese Laurëloth con dolcezza, mentre gli illuminava il viso con la torcia che stringeva in mano.
Sarebbe potuto sembrare un incontro fortuito, ma il ragazzo intuì subito che la madre lo stava aspettando. La sua apparente sollecitudine gli suonò all'orecchio meno dolce di quanto voleva apparire e il suo sguardo era deciso mentre lo scrutava. Quello strano agguato, comunque, non gli dispiacque: forse poteva essere la sua occasione per avere qualche risposta e trovare un po' di pace.
"Lo sono", rispose abbozzando un sorriso. "Ma non posso dormire in una situazione simile".
Lei gli carezzò il viso con il dorso della mano e si lasciò sfuggire un lieve sospiro: Aidan le era sempre sembrato il suo bambino più fragile, perché era solo un Uomo. Seguì con le dita la linea della sua mascella, sulla quale si percepiva un filo di barba non rasata, e scese sul collo. Gli scostò un lembo della camicia che lui aveva allentato e i suoi occhi si fissarono con acume su un ciondolo che sbucava da quell'apertura. Lo sollevò tra le dita, facendolo sgusciare fuori dalla stoffa, e lo osservò in silenzio alla luce della fiamma.
"Edheldûr?", chiese infine, dopo aver esaminato la runa sulla pietra.
Aidan, suo malgrado, sorrise.
"Sì".
La madre gli lanciò un'occhiata penetrante, quasi accorata.
"Tu e il tuo gemello siete nati per proteggervi l'un l'altro", mormorò. "Non lo dimenticare".
Si girò e gli si pose al fianco. Aidan le porse il braccio e lei vi si appoggiò. Cominciarono a passeggiare lungo il corridoio deserto, rischiarato solo dalla torcia.
"Quando Galanár è nato", cominciò a un tratto la regina, mentre fissava il cerchio di luce che le sfiorava il passo, "gli alberi di Arthalion e le foreste di Laurëgil hanno sussurrato il suo nome. La notte in cui voi siete nati, invece, c'è stato solo silenzio".
Lui la scrutò angosciato.
"Credete che anche in questo vi sia un presagio?"
La regina rimase in silenzio per qualche istante.
"Non lo so", ammise infine. "Io sento solo con l'istinto di una madre".
"E cosa vi dice questo istinto?"
La voce di Laurëloth si fece fosca.
"Che Edhel non dovrebbe stare nel vento".
Aidan esitò, confuso. La madre si sciolse dal suo braccio e gli si parò di fronte, cogliendo quel suo attimo di esitazione. Gli prese il mento tra le dita, lo obbligò a fissarla negli occhi.
"E tu... tu non devi permettere che il ghiaccio ti tocchi".
Aidan respirò con affanno, annaspando in quelle parole oscure che gli stavano trasmettendo un dolore fisico. Cercò di recuperare lucidità e si sforzò di sorridere.
"Se è questo che volete, cercherò di stare attento, anche se non so bene cosa fare per esaudirvi. Al momento, vi confesso, ci sono pericoli ben più reali del vento o del ghiaccio che vorrei non mi toccassero".
Mentre diceva così, estrasse dalla giubba il libriccino rubato al suo assalitore e lo porse alla madre. Lei gli diede la torcia per liberarsi le mani e cominciò a sfogliarlo.
"Sembra un...", si interruppe e sollevò lo sguardo su di lui, allarmata. "Parole in codice? Un messaggio?"
"Un messaggio che per poco non mi ha tolto la vita".
Esitò, perché in verità non aveva mai parlato così apertamente con lei prima di quel momento e non sapeva fin dove poteva spingersi senza ferirla. Quell'atmosfera di intima confessione che si era creata tra loro e l'ansia che provava per il viaggio che lo attendeva, però, lo convinsero a essere schietto.
"Vostro padre ha seguito ogni nostro movimento. Ha una rete di spie in ogni angolo delle sue terre. Ha tentato di fermarmi e ha boicottato i rinforzi che Galanár attendeva. Formenos sta combattendo e sta resistendo con il nostro supporto, eppure sembra che al re degli Elfi questo non importi".
Seguì il mutamento sul volto di sua madre, che si faceva via via più sgomento man mano che lui procedeva con il suo discorso.
"Io non so cosa si stia davvero muovendo a Laurëgil, ma ho una certezza: non intendo attraversare di nuovo Laurëlindon con il rischio di venire ammazzato per mano di un mio congiunto".
Lei parve colpita dal tono deciso di quelle parole. Aidan aveva fatto appello al sangue, al suo sangue.
"Ebbene, non dovrà accadere. Non lo permetterò. Ricorderò a mio padre il patto che ha stretto con Galanár e lo obbligherò a rispettarlo, che gli piaccia o meno. Ti garantirò il passaggio nelle terre degli Elfi. Nessuno dovrà mai attentare alla tua vita: è la promessa di una madre, questa".
Aidan, finalmente, le rivolse un sorriso più rilassato e sincero. Riprese il libro e lo conservò tra le pieghe dell'abito. Strinse la mano della madre e se la portò alle labbra, ringraziandola. Lei annuì a quel gesto.
"Domani stesso, senza por tempo in mezzo, invierò il maestro Vargas Quenthar come mio ambasciatore a Laurëgil. Lui, senza dubbio, saprà come parlare al re".
Un pugno di cavalieri spericolati. Non erano più che quello.
In un altro contesto sarebbero stati solo un gruppo di giovani esuberanti che compivano una scorribanda per diletto. Nel buio di quella notte, invece, neri e spettrali come i loro mantelli, erano stati la folgore che aveva attraversato il campo dei nemici.
Un unico passaggio, rapido e violento. Nessuna esitazione.
I primi cavalieri erano filati via come il braccio della morte, spiccando le teste dei soldati di guardia con un sol colpo. Dietro di loro, gli altri spiriti neri avevano dato fuoco agli arbusti e danneggiato i trabucchi, prima di dileguarsi oltre l'orizzonte. Occorse loro molto tempo per compiere l'ampio giro che li avrebbe riportati a ricongiungersi davanti alle porte laterali del castello dalle quali era iniziata la loro sortita.
Quando si ritrovarono al centro della corte, esplosero in un coro di virile e selvaggia esultanza. Il successo di quella incursione aveva eccitato i loro animi. Di lì a poco il vino avrebbe cominciato a scorrere a fiumi, ma Galanár era già ubriaco per la soddisfazione datagli dalla riuscita. Sapeva che quella manovra, per certi aspetti, non era nulla più che la goliardata di un gruppo di amici. Nessun danno irreparabile era stato arrecato al nemico, ma quella trovata gli aveva procurato ciò che veramente gli occorreva: gli aveva fatto guadagnare tempo.
Tempo per sé e, ancor più importante, tempo per Aidan. Perché Galanár era certo, al di sopra di ogni ragionevole dubbio, che il fratello, da qualche parte ignota del continente, stava tornando a portargli il suo esercito.
Edhel era rimasto a fissare il ritorno del fratello e dei suoi cavalieri dall'alto della loggia. Aveva assistito all'intera scena con misurato distacco: quella sortita notturna era, a suo giudizio, rischiosa e del tutto accessoria. Se Galanár avesse voluto, lui avrebbe potuto risolvere il problema in più breve tempo e con minor rischio. Peccato che il generale sembrasse ancora così attaccato al piacere della spada e al gusto, a volte avventato, di gestire l'azione alla maniera degli Uomini.
Eccitante ma pericoloso.
Si domandò se, almeno su quel terreno comune delle emozioni, avrebbero mai trovato un punto d'incontro. Se ci fossero davvero riusciti, poi, fino a che punto sarebbero stati in grado di cambiare gli eventi?
Scosse il capo e decise di andare a dormire. Nel tedio di quell'assedio, dove gli era proibito muoversi ed allontanarsi a suo piacimento, il sonno era diventato una delle scarse risorse che gli erano rimaste per superare l'assenza di Aidan e l'attesa del suo ritorno.
Aidanhîn cavalcava con la morte nel cuore. In qualsiasi altro frangente della sua esistenza, nulla avrebbe potuto allontanarlo da Arthalion: lo stato in cui aveva trovato il re lo aveva molto angosciato.
Era suo padre, eroe in battaglia e guida della Lega. Per nessun motivo al mondo avrebbe accettato di vederlo così divorato da un interno dolore senza far nulla, soprattutto sapendo che la sua presenza avrebbe potuto migliorare la situazione. Se lui era la medicina, però, era anche l'unica cura che non poteva offrire. Aveva dovuto scegliere, scegliere una volta ancora.
L'esercito procedeva alla volta delle Terre degli Elfi. Non era imponente come lo schieramento con cui Galanár si era mosso la prima volta, ma era comunque un cospicuo rinforzo, in grado di mutare gli equilibri sul campo. Aidan guidava la testa, scegliendo di giorno in giorno il percorso migliore, mentre Amalion faceva da staffetta per controllare che la colonna procedesse spedita e con ordine. La maggior parte di quegli uomini, balestrieri e soldati soprattutto, erano suoi, ed era buona cosa che l'erede di Aermegil si mostrasse spesso a informarsi del loro stato e a tenere alto il loro morale.
Aidan guardava il cielo terso sopra la puntuta catena dell'Ambit e non poteva fare a meno di chiedersi cosa li avrebbe attesi al di là di quelle montagne. Il maestro Vargas era già giunto a Laurëgil? E che risposta aveva ottenuto dal re degli Elfi?
Tutte quelle preoccupazioni si mescolavano tra loro, aumentando il suo fardello.
Di tanto in tanto, portava una mano sul cuore, cercando il contatto con la missiva che vi aveva riposto con cura, come ad accertarsi che fosse sempre al suo posto. Era l'ultimo favore che il re gli aveva chiesto prima che ripartisse: una lettera da consegnare a Galanár.
Era intatta, chiusa dal sigillo di Arthalion, ma di notte, alla luce dei fuochi, Aidan se la rigirava spesso tra le mani. Avrebbe voluto aprirla e leggerla, nella speranza di trovarvi dentro l'antica voce di suo padre, ma sapeva che non avrebbe mai ceduto a quella tentazione, perché era un soldato, perché era un cavaliere.
NOTA DELL'AUTORE
Pulvis et umbra sumus è il verso di una delle Odi più note di Orazio (IV, 7).
Nel componimento, in cui inizialmente si celebra la gioia della primavera che riporta la vita, il poeta ci ricorda infine la caducità e la fugacità dell'esistenza, poiché tutti gli uomini sono accomunati, presto o tardi, da un unico destino: siamo polvere e ombra.
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