06. UBI CONSISTAM
Mellodîn lo aveva rimproverato per la stanchezza e la distrazione, biasimandolo per tutto ciò che non aveva ancora fatto.
In qualche modo lo aveva salvato dall'oscurità che lo aveva circondato.
Se chiudeva gli occhi, Galanár vedeva di nuovo la fiamma balenare tra gli artigli dell'Idra, sentiva l'urlo di guerra e il battito lugubre delle ali che si spiegavano prima del balzo.
Non aveva perso. Non ancora.
Riprese in mano le mappe e i piani di battaglia. Con scrupolo e disciplina andò a cercare la spaccatura che si era aperta tra i suoi progetti e l'assurda fase di stallo in cui si trovava.
Avrebbe colmato quella voragine, poteva farlo, non era troppo tardi. Aveva sempre i suoi uomini, e Aidan gli avrebbe presto riportato quei rinforzi che gli erano costati tante promesse. Il suo sogno era intatto e splendeva immutato nella chiara luce del mattino. Era arrivato il momento di testare la forza del mostro leggendario che era destinato a diventare.
Le opere di fortificazione di Formenos, avviate molte settimane prima, erano già a buon punto. Avrebbe accelerato i lavori e le avrebbe portate a compimento nel più breve tempo possibile. Una volta messo in sicurezza il castello, nulla gli avrebbe impedito di scendere in campo, che Anárion lo volesse o meno.
Era quasi mezzogiorno quando ricevette i suoi ufficiali. Non li convocava da giorni, ma era bene ripristinare le vecchie abitudini.
Edhel arrivò per ultimo, com'era solito fare, ma Galanár lo ignorò di proposito. Il principe elfo si sedette accanto a Mellodîn e il generale non gli diede nemmeno il tempo di aggiornarsi sulla situazione.
"Il capitano Aidanhîn è partito?", gli chiese.
Aidan? Partito?
Quelle parole avrebbero dovuto avere un qualche significato per lui? Edhel si strinse nelle spalle, con un gesto indifferente.
"Non faccio la guardia a mio fratello".
Galanár sollevò un sopracciglio e gli lanciò un'occhiataccia.
"Non è una risposta".
L'elfo abbozzò.
"Non posseggo questa informazione, generale".
L'altro si limitò a interrogare il comandante.
"Il capitano Aidanhîn e il capitano Amalion sono partiti questa mattina prima dell'alba".
"Ottimo. Sono certo che avremo presto buone notizie. Nel frattempo discuteremo dei lavori che devono essere portati a termine, in attesa di notizie dal fronte elfico".
Edhel lanciò uno sguardo interrogativo all'uomo al suo fianco.
"È diretto ad Arthalion", gli bisbigliò Mellodîn all'orecchio.
Il ragazzo annuì. Forse, alla fine della riunione, avrebbe potuto chiedergli qualche altra notizia. O forse no. In fin dei conti, Aidan era partito senza nemmeno premurarsi di avvertirlo. Perché avrebbe dovuto prendersi pena di lui e delle missioni che compiva per ordine di Galanár? Tanto più che, quella mattina, aveva davvero altre faccende a cui pensare.
La porta di Adwen era rimasta chiusa per tutta la notte, e lui aveva avuto un bel daffare a bussare e a bisbigliare. A un certo punto aveva dovuto desistere, prima che qualcuno si accorgesse di lui.
Chissà quale folle idea stava passando per la testa di quella ragazzina! La notte prima gli gettava le braccia al collo, lo baciava e gli giurava obbedienza, e la seguente lo esiliava senza una parola.
Quel che più lo rendeva irrequieto, però, era il fatto che avesse ancora con sé il libro. Era stato avventato a lasciarlo a lei, ma non poteva certo prevedere una svolta tanto inaspettata.
Sollevò lo sguardo e incrociò gli occhi di Silanna, che sedeva di fronte a lui, alla destra di suo fratello. Nei suoi occhi lesse un chiaro e freddo sguardo di sfida: era al corrente di tutto?
Si convinse che, in qualche modo, era lei la responsabile del repentino cambiamento di Adwen nei suoi confronti. Avrebbe risolto anche quel problema, una volta libero dalle mortali discussioni sulle mura da sigillare con piombo fuso e sulle balestre da montare sopra i bastioni.
"Se discutere le manovre che ci salveranno la vita ti annoia, Edheldûr, non hai che da chiedere congedo".
La voce di Galanár lo riportò di colpo alla realtà che lo circondava: se la soluzione per ottenere la libertà era davvero così semplice, l'avrebbe messa subito in pratica. Il fratello, però, non avrebbe perso la preziosa occasione di rammentargli che era stato lui a pretendere un posto nel concilio.
"Anzi, no", lo anticipò. "Ho cambiato parere: resta. Chi sa, magari potresti perfino riuscire a imparare qualcosa di utile".
Edhel si limitò ad accondiscendere con un segno del capo e non gli sfuggì l'occhiata di maligna soddisfazione che gli lanciò Silanna. Era prioritario, a quel punto: doveva capire quanto ne sapeva di lui e di Adwen.
La porta si aprì e una staffetta impolverata si precipitò nella sala, tra lo stupore dei presenti. Galanár la fissò allarmato: non potevano essere buone notizie, se erano portate da un vento tanto impetuoso. Gli fece cenno di parlare.
"Helegdir è caduta, generale".
Un lieve brusio si diffuse attorno al tavolo. Sapevano che, prima o poi, sarebbe accaduto.
Io ho voluto così!
Era un rischio che Galanár aveva calcolato, ma sentirlo dalla voce di qualcun altro aveva un diverso effetto.
"Dopo la distruzione di Valkano, i Nani si sono inoltrati ancora più a Sud e hanno preso la capitale. Harmaros si è arresa quasi senza combattere e questo ha garantito una conquista senza spargimento di sangue".
Era almeno una buona notizia, che gli dava speranza per una futura riconquista di quelle terre.
"Harmaros si è arresa...", commentò, come ragionando ad alta voce. "Che ne è stato di Lómion?"
"Non si hanno notizie certe sulla sorte del re. Pare sia stato preso prigioniero dal nemico".
Prigioniero?
Se così fosse stato, i Nani avrebbero di certo fatto sapere di avere catturato una preda tanto preziosa.
No, Lómion è scappato...
Quel pensiero lo riempì di emozioni contrastanti che non ebbe il tempo di riorganizzare, perché dall'esterno giunse un clangore convulso di alabarde e un crescente rumore di passi e metallo. Un elfo fece irruzione, ancora armato e con le protezioni macchiate di fango.
"Tutti fuori!", ordinò.
Gli ufficiali di Galanár si alzarono senza una parola, si inchinarono e lasciarono la sala. Solo il generale non si mosse: quell'ordine non era diretto a lui. Si limitò a levarsi in piedi e a porgere il suo omaggio.
"Sire Anárion", lo salutò, senza preoccuparsi di nascondere la sorpresa. "Cos'è accaduto?"
Il re si chiuse le porte alle spalle, quindi sedette presso il tavolo ingombro di carte. Galanár attese quel gesto per riprendere posto a sua volta. L'elfo si liberò il capo dalla protezione che lasciò cadere a terra. Era stravolto dalla rabbia e dalla stanchezza.
"Ci siamo ritirati", rispose nervoso. "Ci sono venuti addosso e non abbiamo avuto la forza di respingerli. Le truppe erano allo stremo e la disposizione sul campo si è rivelata sfavorevole. Dovevo farli perire o fuggire".
"La ritirata non sempre è disonore", osservò il principe. "A volte è la scelta più intelligente...".
"Cercate di non essere troppo soddisfatto di questo mio errore, Galanár!", lo interruppe l'elfo con disprezzo.
Il principe tacque. Anárion era in errore: non stava affatto gongolando. Riusciva solo a pensare a quello che aveva confessato a Mellodîn appena qualche sera avanti: credeva davvero di avere una parte di colpa nella cattiva gestione di quella campagna. E, anche se si trattava di una responsabilità non voluta, era ora di chiarirla una volta per tutte.
Intrecciò le mani sul tavolo e spostò il peso in avanti, come per sostenere meglio il discorso che si era deciso a fare.
"Zio", iniziò pacato, scegliendo quell'appellativo che instaurava tra loro un rapporto meno formale, "so benissimo di essere giunto fin qui senza invito e so che questo mio gesto ha provocato in voi la peggiore delle reazioni. Non nego che avrei fatto altrettanto se fosse capitato il contrario".
Si fermò per studiare il suo interlocutore e capire se la schiettezza che gli stava offrendo si stesse insinuando nella sua corazza di rabbia.
"D'altra parte, non ho attraversato mezzo continente con un esercito, e non ho messo a ferro e fuoco l'Ambit solo per restare qui a guardarvi cadere. Sarei davvero un uomo da poco se avessi fatto tutto questo solo per prendermi una soddisfazione personale. Che vi piaccia o no, io mi sento parte della vostra razza".
Anárion fece un gesto con la mano per suggerire di lasciar perdere quella faccenda, ma il principe era più che deciso a proseguire.
"Che vi piaccia o no", rimarcò, "sono figlio di mia madre. Non potrei permettere a un popolo, a qualunque popolo, di schiacciare la sua gente restando a guardare senza muovere un dito. La vostra guerra è la mia guerra".
"Una guerra che nessuno vi ha chiesto di combattere".
"Vero, ma adesso sono qui e questo è un fatto. Quindi smettete di guardarmi come se fossi un secondo nemico, pronto a balzarvi alla gola non appena vi sarete liberato del primo".
"Perché, non lo farete?", lo interrogò l'elfo, scoccandogli uno sguardo ironico.
"Intanto dovrei essere ancora vivo alla fine, circostanza di cui non possiamo essere certi né io, né voi. E poi non è questo il modo in cui combatto, dovreste saperlo".
"Ah, già... il principe Mezzelfo che combatte secondo le regole della cavalleria degli Uomini!", rise Anárion. "Il vostro ordine non conosce il tradimento?"
Galanár non fece una piega di fronte a quella provocazione. L'aveva già messa nel conto. Era proprio contro quel tipo di pregiudizio che avrebbe dovuto lottare.
"Non contro il proprio stesso sangue".
Di fronte a quell'affermazione diretta e decisa, il re elfo depose le armi. Galanár intuì che era l'occasione giusta per proporre le sue idee.
"Il Sud è perduto. Forse vorrete darne la colpa a me e alle mie decisioni, e vi dico fin da adesso che ne accetterò la responsabilità: ho scelto io di fare cadere Valkano. Se dovrò rispondere di questa decisione davanti a voi o davanti a re Arantar, lo farò. Ma Helegdir non è perduta. Harmaros è intatta e può essere riconquistata. Lo farò di persona, se occorre, quando avremo risolto la contesa qui, nel Nord".
"Parlate come se stessimo vincendo..."
"Vincere? Non lo so. So solo quello che vedo con i miei occhi: Formenos è fortificata. Ho lavorato per settimane nel tentativo di rendere la cittadella inespugnabile e prepararla a resistere, e con il vostro permesso intendo portare a termine quest'opera".
Anárion, per la prima volta, si soffermò a studiare il nipote con interesse. Galanár era sempre stato un mistero per lui, una specie di raro animaletto con troppi grilli per la testa. Cominciava a valutare la possibilità che quell'opinione lo avesse reso cieco nei confronti delle sue possibili qualità. Si agitò sulla sedia, cercò una posizione comoda dalla quale proseguire la conversazione.
"Avevate previsto un assedio?", chiese incuriosito.
"Io cerco di prevedere tutto", rispose il principe, per nulla intimorito dallo sguardo del re.
"E lo prevedete anche adesso?"
"Adesso più che mai".
L'elfo annuì, mentre Galanár, per la prima volta da quando si erano ritrovati soli a parlare, tratteneva il fiato in attesa.
"Che cosa proponete di fare, allora?", gli concesse il re, alla fine della sua riflessione.
"Assegnatemi il comando durante l'assedio. Ho uomini riposati, che hanno esperienza e sanno come tollerare un accerchiamento nemico. Datemi la potestà sugli armamenti, sulle truppe e sugli incantatori".
"Le armi sono una faccenda da Uomini. Posso concedervelo, nipote. Ma la magia... la magia è l'anima di Laurëgil. Non la metterò tra le vostre mani".
"Non nelle mie, infatti. Ho tre Daimonmaster, che possono controllare i quattro Arcani. Non per me, ma per loro chiedo carta bianca".
"Vi accordo il comando militare della fortezza. Per la magia, devo consultarmi con i miei Maestri".
Il principe assentì e l'improvviso silenzio sembrò sancire quel patto tra i due. Il re, però, continuò a fissarlo come se avesse dovuto tirargli fuori ogni più recondito pensiero.
"Sembrate aver disposto davvero tutto", disse infine. "Ma, mentre voi giocherete a fare l'eroe sugli spalti del mio castello, io cosa dovrei fare?"
Il principe gli rivolse un sorriso sicuro: aveva pensato anche a quella domanda.
"Farete quello che siete chiamato a fare per diritto di nascita: farete il re. Perché un assedio non si vince solo con le armi. Un assedio si vince tenendo alto l'umore del popolo, provvedendo alle sue necessità, amministrando l'acqua e il cibo con criterio, e ripetendo a tutti che le loro vite sono al sicuro. Questo potete farlo solo voi".
L'attesa si era fatta snervante. Era chiaro che la discussione tra i due nobili avrebbe condotto a delle scelte decisive, così nessuno degli ufficiali osava allontanarsi da quel corridoio. Edhel spiava tutti di sottecchi, cercando di carpire stralci di discussioni utili.
Mellodîn parlava fitto con Bellator. Gli sentì pronunciare il nome del gemello e di Amalion, così comprese che stava spiegando al capitano di Medthalion i dettagli della missione. Aegis discorreva con Kolridge di pozioni da preparare. Né l'uno, né l'altro argomento gli interessavano. Rivolse lo sguardo altrove e incrociò Silanna. Lei gli sorrise da lontano, quindi tagliò lo spazio che li separava e si fermò al suo fianco.
"Così il giovane falco è fuggito dai vostri legacci ed è volato via senza salutare?", lo canzonò.
Edhel pensò che, se non fosse stata ciò che era, l'avrebbe volentieri incenerita, e molto tempo prima.
"Magari ero a caccia di una preda migliore".
Lei inghiottì il sorriso e il suo sguardo si fece minaccioso.
"Davvero, principe Edhel? Mia sorella Adwen? Se vi impegnate, potete fare di meglio".
Lui rise piano, per non attirare l'attenzione.
"Di meglio?", ribatté allusivo. "Intendete che potrei puntare a qualcuno di sangue reale, come state facendo voi? Abbiamo già avuto modo di discutere sulle prospettive del mio matrimonio, ricordate? Ad Arthalion, di notte? Be', sembra che, in materia di relazioni, Galanár non abbia ancora mutato parere. Per vostra fortuna".
Silanna si scostò i capelli dal viso con un gesto nervoso che a lui non sfuggì.
"Come vi piace", ribatté secca. "Ve lo chiedo più gentilmente, allora: lasciate in pace mia sorella".
Attaccarla non avrebbe portato a nulla. Blandirla? Forse. Doveva ottenere delle risposte, valeva la pena provare.
"Sentite", esordì più condiscendente. "Quello che voi fate durante la notte non è affar mio, così come quello che faccio io non è affar vostro, a dispetto dei discutibili rapporti di parentela che tutto questo sembrerebbe produrre. Io non vi piaccio, e va bene. Non è necessario alla nostra convivenza. Ma siamo entrambi Daimonmaster e dovremmo spalleggiarci. Mi dovreste almeno questa forma di rispetto".
"Rispetto? E per cosa? Voi non siete un Daimonmaster, anche se non fate altro che sbandierarlo alla minima occasione. L'ho sospettato fin dall'inizio, ad Arthalion, e a Valkano ne ho avuto le prove. Rispetto gli Arcani che sono in voi e la loro potenza, ma non chiedetemi di trattarvi da pari, perché non lo siete ancora e forse non lo sarete mai".
Edhel avrebbe tirato un sospiro di sollievo, se non fosse stato pericoloso farlo di fronte a lei. Rinunciò persino ad arrabbiarsi per le sue parole e si guardò bene dallo smentirla. Silanna non sapeva nulla del suo stato, di conseguenza non sapeva nulla di Adwen, e quella era già una vittoria. Pensava inoltre che lui non fosse ancora un Daimonmaster e quell'idea poteva tornargli utile: lo avrebbe ritenuto innocuo, almeno per un po'. Le rivolse uno dei suo sorrisi provocanti, affascinato dall'idea di aver avuto la meglio.
"Continuate a lanciarmi provocazioni ogni volta che una battaglia si avvicina, pur sapendo di non essere in grado di mantenere la parola fino alla fine. Comincio a pensare che vi piaccia avere una scusa per andare contro i vostri saldi principi".
L'apparire di Galanár sulla soglia gli evitò di essere investito dall'ira dell'incantatrice. Il generale, d'altra parte, avrebbe catturato l'attenzione di chiunque, in quel momento: era splendente di sicurezza, reso brillante dall'ansia di realizzare i suoi progetti.
"Aegis, Edhel, Silanna", chiamò. "Chiudetevi in una stanza e non uscite fino a quando non avrete messo a punto un modo per rafforzare il castello. Niente scudi magici: potremmo fronteggiare un lungo assedio, ci servirà ben più di un incantesimo di protezione. Fate risorgere Ernendir dalle acque se necessario, a me non importa... basta che Formenos resti in piedi!"
Aegis scosse il capo, rassegnato da tempo alla blasfemia del suo generale, ma Edhel ebbe un'insolita reazione: per la prima volta guardò il fratello con ammirazione. A dispetto del perenne biasimo che gli indirizzava, Galanár non aveva dimenticato il suo suggerimento. Anzi, sembrava determinato a metterlo in opera. Aveva davvero deciso di vincerla, quella battaglia.
Chinò il capo in segno di assenso e sorrise. L'altro ricambiò, poi i suoi occhi corsero a cercare Mellodîn.
"Mettiamoci al lavoro!", esclamò. "Abbiamo una fortezza da proteggere".
NOTA DELL'AUTORE
Il titolo viene dalla celebre frase attribuita ad Archimede dopo la sua scoperta del principio della leva: in latino Da mihi ubi consistam et terram coelumque movebo, in italiano Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo.
Il motto si cita spesso quando si chiedono i mezzi necessari per intraprendere una grande impresa. La locuzione ubi consistam, inoltre, si usa comunemente per indicare un punto stabile d'appoggio, una base di partenza sicura per iniziare un'azione coerente e organica.
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