03. VITAE MORTISQUE ARBITER
Edhel lasciò le mani di Adwen e mormorò un ordine. La fiamma si divise in piccole lingue di fuoco che si allargarono in un cerchio e presero a scintillare negli spazi vuoti tra le colonne d'acqua. L'elfo estrasse dalla sacca le Rune e le dispose attorno alla ragazza nello stesso modo in cui aveva fatto la notte in cui aveva affrontato la Prova, quindi le tese il libro aperto. Lei si lasciò sfuggire una esclamazione di stupore.
"Parma Eldaëalaron? Ma come..."
Le fece cenno di tacere.
"Come ve lo dirò dopo. Iniziate a recitare l'incantesimo".
Lei obbedì e cominciò a cantilenare la formula elfica. La terra fu attraversata da un tremito e il terreno si mosse, facendo perdere loro l'equilibrio e obbligandoli a cadere in ginocchio. Il libro scivolò sull'erba e Adwen rimase immobile, al centro del cerchio di Rune.
Il volume le stava di fronte, oltre il limite invisibile della circonferenza, e la separava da Edhel. Con enorme sollievo, vide che lui non si era scomposto. Era intento a frugare nella sacca, dalla quale estrasse un'ampolla colma di un liquido scuro. Se ne bagnò le labbra, poi si tese verso di lei. Come davanti alla propria immagine allo specchio, lei imitò quel movimento.
L'elfo si fermò a un centimetro dal suo viso, proprio sopra il cerchio di Rune, senza osare varcare quel confine con il suo corpo. Era così vicino che Adwen sentì l'odore pungente della pozione che aveva usato.
"Dalle mie labbra alle tue labbra... da Daimonmaster a Daimonmaster", mormorò l'elfo, poggiando la bocca su quella di lei.
Un brivido la investì, seguito dal sapore intenso delle labbra di Edhel bagnate dal liquido speziato. Sentì girare la testa e sperimentò un abbandono sconosciuto. Non si accorse nemmeno che lui si era allontanato, spingendo il libro all'interno del cerchio runico.
"Ricominciate".
Adwen si levò in piedi. Il suo volto sembrava trasfigurato mentre rivolgeva la sua preghiera al cielo notturno.
"Potente Nór , io sono Adwen, figlia di Elles, Signore di Spiriti... io sono il tuo Custode! Tu sei il mio Daimon, ti voglio in questo luogo per mio comando!"
Il fuoco si spense e le colonne d'acqua si ritirarono. La luce intermittente della luna era la sola lampada rimasta a Edhel per osservare ciò che stava accadendo. Gli occhi di Adwen vagavano spenti e sondavano lo spazio vuoto di fronte a lei. Non lo vedeva, non era più con lui.
Il ragazzo indietreggiò e rimase a guardare. Stava rivivendo la notte della propria Prova, ma la scena, da mero osservatore, sembrava estranea ed eccezionale. Vide Adwen stendere le mani dinanzi a sé, schermarsi gli occhi da qualcosa di accecante, poi ritrarsi ed esitare. Infine iniziò a combattere contro il nulla, mentre lui tratteneva il fiato a ogni suo movimento.
Quando la lotta sembrò essere giunta a una tregua, il viso della ragazza si contrasse. Il suo corpo si inarcò e lei cadde a terra. L'elfo cominciò ad agitarsi.
"Nén!", chiamò con voce pressante. "Nén, dimmi cosa accade!"
L'aria gli restituì solo silenzio. Nonostante lo invocasse, il suo Daimon non rispondeva ed era la prima volta che gli accadeva. I muscoli di Adwen furono attraversati da uno spasimo e lei si contorse per il dolore.
Edhel si mise le mani tra i capelli e si tormentò le chiome rosse. Stava morendo? E lui, cosa poteva fare?
Quando aveva affrontato la Prova, era stato troppo occupato a salvarsi la vita e troppo sconvolto dalle visioni divine. Non aveva realizzato il pericolo corso quando aveva sfidato gli Dei. Dopo quella notte, aveva scelto di dimenticare il dolore provato e si era concentrato sul potere che aveva acquisito. Con Adwen che gli giaceva dinnanzi come in agonia, però, comprese il motivo per cui i Maestri avevano fissato regole precise per quell'iniziazione: l'aspirante Daimonmaster poteva morire o poteva impazzire, e nessuno sarebbe potuto intervenire in suo soccorso. Quale utilità ne avrebbe ricevuto, Valkano, dalla perdita di un Daimonmaster?
Regolare l'accesso alla Prova serviva a limitare le perdite, ma quella scoperta non gli fu di alcuna consolazione: che Adwen fosse pronta o meno, non faceva più differenza. Doveva sopravvivere. Aveva bisogno di lei, non poteva perderla. Senza averne coscienza, cominciò a pregare.
I suoi Daimon tacevano e lui si ostinava a pregare.
Adwen provò ad aprire gli occhi, ma non vi riuscì. C'era silenzio, attorno. Si domandò se il mostro che l'aveva attaccata se ne fosse andato o se fosse solo acquattato da qualche parte. Il corpo era rivestito di strati di roccia appuntita, braccia e gambe coperte da spirali di radici che si allungavano e si ingrossavano, che avvolgevano e stritolavano. L'aveva ferita e immobilizzata fino a farle perdere i sensi.
Edhel era sparito, l'aveva lasciata da sola. A quel pensiero, le venne da piangere. Senza di lui si sentiva persa. Mentre un dolore insopportabile le attraversava il corpo e il cuore, avvertì sottò di sé il respiro della terra. Era viva e forte. Adwen si sentì corroborata da quella linfa. Se il mostro c'era ancora, l'avrebbe affrontato. Avrebbe restituito ogni singola goccia di sangue, ma non sarebbe morta!
Si decise a sollevare le palpebre, ma una luce accecante glielo impedì. Impiegò qualche istante per adattarsi e mettere a fuoco il bagliore di una lampada. Era in una tenda, distesa su una pelle ruvida.
Silanna entrò correndo, senza nemmeno rivolgerle uno sguardo. Afferrò una bisaccia abbandonata in un angolo e cominciò a frugarvi dentro, agitata. Adwen la seguì con lo sguardo, sempre più smarrita. Doveva avere sognato. Un lungo, grottesco sogno, animato da una mostruosa creatura di pietra.
"Silanna..."
"Se ti sei svegliata", replicò l'altra con voce dura, continuando la sua ricerca, "alzati e cerca di renderti utile. Hai già dato abbastanza problemi, per oggi".
Non riusciva a ricordare cosa avesse fatto per meritare quel rimprovero, ma non replicò, come faceva sempre. Si mise in piedi e si affrettò a seguire la sorella, che si era avviata verso l'esterno con le braccia ingombre di bende e di pozioni recuperate dalla sacca.
Appena fuori dalla tenda, lo spettacolo che le si presentò davanti agli occhi le tolse il fiato: a breve distanza dall'accampamento di fortuna in cui si trovava, la battaglia infuriava.
Corpi che lottavano, lame stillanti di sangue, urla di furore e di dolore: il suo primo istinto fu quello di fuggire, ma la sorella la trascinò con sé nel cuore di quel tormento. Le lance e le spade urtavano sopra la sua testa, il sangue schizzava dai corpi martoriati dei soldati feriti.
Silanna si fece largo in quella tempesta di colpi come se non vedesse nulla, fin quando non raggiunse una piccola altura dalla quale si poteva dominare la scena. Iniziò a darsi da fare con la sua magia e a dispensare cure, mentre Adwen restava al suo fianco, atterrita. Rimase sospesa di fronte alla battaglia, incapace di agire, finché un violento strattone la destò da quello stato.
"Adwen, per il cielo!"
Abbassò lo sguardo e vide la sorella china sopra un corpo riverso, coperto di sangue. Si inginocchiò e si sentì venir meno. Urlò, e urlò il nome di Edhel. Lo strappò dalle mani di Silanna, cercò di fermare la ferita aperta con le mani. Si sporcò di sangue il viso, i capelli, poi cominciò a supplicarla.
"Guariscilo o morirà!"
L'altra si limitò a restituirle uno sguardo scuro.
"Tocca a te. Sei tu che devi salvarlo".
La ragazza si accorse con sgomento di non riuscire a ricordare alcuna formula che potesse aiutarla.
"Usa la tua magia... o non ne sei capace?", rise Silanna.
Adwen strinse gli occhi, per non vedere, per non sentire. L'odore acre del sangue le faceva girare la testa, i gemiti di dolore di lui erano insopportabili.
"Silanna, ti prego..."
"Non ne sei capace?", la incalzò la sorella.
Adwen inghiottì una lacrima che sapeva di ferro. Edhel le stava morendo tra le braccia senza che lei riuscisse a far nulla, se non stringerlo contro il suo petto. Lui se ne stava andando e lei non sapeva salvarlo.
"No", ammise infine, allo stremo delle sue forze. "Non ne sono capace".
Silanna si alzò in piedi e la guardò dall'alto con indignazione.
"Allora, se non ne sei capace, lascialo morire".
Si girò e se ne andò. La lasciò sola, mentre il ragazzo le spirava tra le braccia. Il cuore le scoppiò nel petto. Cominciò a piangere. La linea della resistenza indietreggiò, i soldati le vennero addosso. Le parole della sorella le ossessionavano la mente:
"È colpa tua: non l'hai salvato ed è morto. E anche gli altri moriranno. Moriranno tutti!"
Adwen cominciò a urlare per non sentire quella voce. Desiderò annullarsi e sparire, perché non era riuscita a salvare Edhel, perché non era stata all'altezza di Silanna, perché si era dimostrata inutile.
Chinò lo sguardo sopra il corpo freddo dell'elfo e cercò un'arma.
Edhel gettò un urlo: senza sapersi spiegare come fosse possibile, Adwen stringeva tra le mani una spada.
Era seduta al centro del cerchio magico con gli occhi chiusi, il capo rivolto verso il cielo, i lunghi capelli biondi gettati sulle spalle. Teneva sollevata la lama con entrambe le mani, puntandosela contro il petto. Non lo sentiva, perché il suo grido non la riscosse, né la distolse dal suo funesto intento.
Si levò in piedi, si lanciò verso di lei e cercò di afferrare l'arma sospesa sopra il cuore della ragazza, ma le sue dita si strinsero attorno al vuoto.
Capì con terrore di non poter fare nulla: lei era nello spazio sacro dei Daimon, lui su quello reale. Poteva solo sperare.
Non le restava che morire.
Attorno a lei c'erano solo cadaveri. L'odore della morte aleggiava sopra ogni cosa. Sentiva i richiami e i lamenti dei feriti, le loro invocazioni di aiuto. La pregavano di salvarli, ma il dolore l'aveva paralizzata.
È giusto che tu ti dia la morte.
Una voce, ormai non sapeva più nemmeno a chi appartenesse, le parlava ancora all'orecchio.
Non sei stata all'altezza del tuo compito, ed ecco, guarda cosa ne è stato di tutti coloro che si sono affidati a te!
Aveva ragione: aveva fallito nel suo mandato. Diede un'ultima occhiata allo spettacolo delirante che aveva attorno e provò un'intensa pietà per quegli uomini sofferenti. Sentì su di sé tutta la loro sofferenza ed ebbe compassione del loro stato.
"Nór, raccogli ogni goccia del mio sangue che cadrà sulla terra e dona la vita a tutti coloro che qui giacciono morenti... questo è il mio ordine, Daimon della Terra!"
Pronunciò quelle parole con tutte le sue forze, quindi fece scendere la lama dentro il cuore e si accasciò sul terreno.
Il tempo si era cristallizzato, ogni elemento sembrava privato della propria essenza vitale. Dalla sua bocca distorta non veniva fuori più alcun suono.
Edhel aveva urlato fino a perdere il fiato e l'anima gli era sfuggita via dal petto: il corpo di Adwen giaceva riverso sull'erba, coperto di sangue.
Senza più curarsi di infrangere il cerchio magico, si trascinò verso la ragazza e la prese tra le braccia. Le labbra gli tremavano mentre le scostava i capelli dal viso. Lei non doveva morire. Non era previsto, non era così che doveva andare.
Guardò i suoi occhi chiusi, il volto cereo, poi lo sguardo scivolò sulla veste sporca di sangue. Seguì le sottili linee rosse che macchiavano la stoffa e si accorse che c'era qualcosa di stonato in ciò che vedeva. Qualcosa che sentiva di dover notare ma che il panico gli impediva di scorgere. Guardò meglio: non c'era nessuna lacerazione, nemmeno un foro nella veste. Strappò il tessuto per cercare un segno sul corpo di lei, ma la pelle era intatta.
La potenza evocativa del gesto di Adwen era riuscita a materializzare la spada con cui si era trafitta, ma quella scena cui aveva assistito apparteneva allo spazio sacro dei Daimon. Morire nel piano astrale significava anche morire in quello reale? Non lo sapeva.
Maledizione!
Udì una sommessa risata. Sollevò il capo di scatto e cominciò a scrutarsi attorno. Lui era lì, ne era certo. Nór era lì, erano tutti lì a osservare la sua disperazione. Nessuno di loro si rivelava, nemmeno Nén e Nár rispondevano al suo richiamo, ma lui lo avrebbe visto. Un giorno avrebbe visto anche il terzo Daimon, in un modo o nell'altro!
Represse l'istinto di scagliare ad alta voce quella tremenda sfida e si sforzò di occuparsi di Adwen. Le passò le mani tra i capelli e, in quel movimento meccanico, si sforzò di recuperare la calma, l'unica via che gli era rimasta per non impazzire.
Un peso sul petto le schiacciava i polmoni e le rallentava il respiro. Una mano consolante le accarezzava i capelli, ma Adwen non aveva alcuna curiosità di scoprire chi fosse. Ogni volta che aveva aperto gli occhi era passata di dolore in dolore.
Una voce profonda, che sembrava racchiudere nelle sue note molteplici armonie, pronunciò il suo nome. Senza una ragione, la fece sentire avvolta e protetta.
L'effluvio del sangue era scomparso. Al suo posto, le giungeva l'odore fragrante della terra umida. Trovò la forza di guardarsi intorno: il cumulo di cadaveri era sparito. Era nel bosco, la notte era calma e, al suo fianco, vigilava una gigantesca creatura.
Era il mostro che l'aveva attaccata all'inizio. Era certa che fosse lui, sebbene apparisse diverso. I viticci insidiosi che si erano proiettati contro di lei erano diventati rami innocui, carichi di foglie verdi e tenere. A dispetto della sua stazza ingombrante, si tese verso di lei con un movimento gentile.
"Sono qui, Fëantúr".
Adwen si levò a sedere e tese la mano per sfiorare il corpo ruvido del colosso. La sua immensa stazza le ispirava una paradossale calma.
"Nór", pronunciò in un sospiro affettuoso.
Il Daimon accennò un inchino.
"Sono qui per omaggiare il mio Custode, che ha superato la Prova".
"L'ho fatto?", chiese con voce incerta.
"Siete stata tentata dalla paura di non essere in grado di assolvere ai vostri compiti, avete teso l'orecchio alla disperazione che vi circondava, ma alla fine avete trovato la strada: avete scelto la vita attraverso la morte, Fëantúr, e questa è l'essenza stessa della Terra".
Adwen ascoltò in silenzio, poi chinò il capo.
"Sono onorata di essere il vostro Custode. Assolverò a questo compito con ogni mia risorsa, finché avrò vita e respiro".
Il gigante sembrò muoversi appena, ma il suo lento spostamento somigliava a un assenso.
"Il Daimon vuole offrire un dono al suo Custode, come suggello di un patto di lealtà e fiducia, di soccorso e di difesa. Míriel Adwen, cosa desiderate?"
Lei parve riflettere un istante. Si accorse di essere impreparata di fronte a quella richiesta. Si portò un dito alle labbra, quindi levò sul Daimon uno sguardo scintillante.
"Non desidero nulla per me, ma voglio proteggere la vita di colui che amo nel momento in cui ne avrà maggiore bisogno".
"È davvero questo che desidera il mio Fëantúr?"
"Sì".
"Così ha parlato il Fëantúr e così sarà fatto, ma ricordate: non sempre i nostri desideri si realizzano nella maniera in cui li abbiamo immaginati. Rammentatelo anche al giovane Fëantúr che vi accompagna".
Non le diede il tempo di ribattere. Si sgretolò e si disperse in un cumulo di sabbia. Adwen si sentì circondata dal suo abbraccio che, dalla terra, si innalzò in spirali sopra la sua testa. Avvertì un dolore bruciante avvamparle la pelle della fronte, all'attaccatura dei capelli, poi vide le mani del Daimon che le porgevano un ciondolo. Aveva la forma e il colore di una tenera foglia di primavera, una foglia degli alberi dorati di Laurëgil.
"Per il Fëantúr, da donare a colui che ama".
NOTA DELL'AUTORE
Il titolo è tratto da uno dei Dialoghi di Seneca, Consolatio ad Polybium, e significa "arbitro della vita e della morte".
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