Capitolo 7

Amici. Ma come avrebbe sopportato di essere, con lei, due anime che si toccavano senza confondersi, lui che avrebbe mescolato con quella fanciulla anima, corpo e sangue?
Desiderava di poter essere una cosa sola con Esmeralda, una di quelle coppie benedette che trascorrono insieme il resto dei loro giorni e traggono vita dalla loro stessa vita insieme.
Ti amo, Esmeralda, ma non offrirmi il tuo collo d'ambra, non potrei resistere... oppure sì, offrimelo, offrimi tutto il tuo corpo, discinto, caldo, vivo. Dimmi di sì, Esmeralda, dimentica quel tuo Capitano di latta, dimentica che sono un prete. Pensa soltanto che sono un uomo e che ti voglio.
Non lo leggi il desiderio nei miei occhi? Non senti le mie labbra, la mia pelle, bruciare anche se non ti sfioro? Le mie mani sul tuo seno, Esmeralda, non c'è nulla di cui senta così tanto il bisogno, ora.
Le mie labbra sul tuo seno, Esmeralda! Deve avere l'aroma del grano, del pane caldo, il tuo seno. E esalare un profumo di donna, confortante e dolce. E si deve sentire il battito del tuo cuore. Mio Dio, cosa dev'essere dormire sul tuo seno dopo aver fatto all'amore, piccina mia, nel mio letto, che ora è diventato tuo e avrà l'odore del paradiso. Farti mia eppoi, prima di disgiungermi da te, scivolare con le labbra dal collo al viso al seno...e infine addormentarsi lì e sognarti e svegliarsi con te...
Arrossì a quei pensieri.
- Non so nemmeno il vostro nome, Maestro.- ripeté lei, che ancora attendeva una risposta.
- Claude Frollo.
- Claude Frollo - disse lei - Claude ...
Gli piaceva il modo con cui lo pronunciava lei, con quel suo lieve accento da straniera, s'immaginò la sensazione di sentirla invocare il suo nome in un momento d'amore.
- Suona bene, è elegante. Sembra il nome di un nobile.
- La mia famiglia apparteneva alla piccola nobiltà cittadina. - spiegò lui, senza ostentazione.
- Lo immaginavo. - disse lei con l'entusiasmo per averlo compreso da subito.
- Davvero? - una nota di scetticismo aveva attraversato la domanda.
- Si vede, sapete, che non avete mai dovuto lavorare. Faticare fisicamente, intendo. Si vede dal vostro portamento.
- E le fatiche dello spirito, non hanno forse lo stesso valore? - replicò piccato. Esmeralda potè notare una sorta di alterigia aristocratica che emergeva in lui in momenti simili, e che le confermava l'esattezza delle sue deduzioni
- Non sempre sono la stessa cosa. Suvvia, non arrabbiatevi, non volevo mica offendervi.
- Non sono offeso. Stavo semplicemente riflettendo. - si rigirava tra le mani un alambicco per darsi un contegno. - Pensavo ai miei esperimenti.

Si era messo all'opera, seduto al suo tavolo di legno. Lei l'aveva visto ritrovare l'espressione assorta della sera prima ed era rimasta a guardarlo, seduta in un angolo della stanza, come promesso.
Il mento poggiato sulla mano, l'osservava: ebbe a disposizione diverse ore per farlo.
Finalmente era riuscita a definire il colore dei suoi occhi: erano di un azzurro insolito, cangiante fra il blu e il grigio intenso e, se la luce non ricadeva diretta su di essi, non sarebbero neppure sembrati così chiari. I capelli invece erano bruni, ondulati, indisciplinati. Ne sorrise.
Per il resto, tutto, nel suo aspetto, le appariva piacente e ben proporzionato. Era dotato di un fascino inusuale, era bello nel senso non convenzionale del termine. Aveva i lineamenti del viso ben marcati, virili, un naso aristocratico e gli zigomi alti. Non sfuggì alla sua attenzione la trama sottile di rughe sulla fronte, agli angoli della bocca e degli occhi, che conferivano espressività ad un volto altrimenti impassibile.
Teneva la testa china sui libri, nemmeno si accorse dello sguardo insistentemente posato su di lui. Almeno così le parve.
Col pretesto di vedere cosa stesse leggendo, si avvicinò per studiarne le mani: grandi, sottili, appena sciupate dall'uso degli acidi e delle altre sostanze chimiche.
Tutto sommato, non c'è male, pensò.
Non era la bellezza ostentata, splendente del suo Phoebus, ma era pur sempre gradevole a vedersi.
Le piaceva soprattutto il suo modo di muoversi, silenzioso, sicuro, perso nei suoi pensieri e quel gesto di avvolgersi nella cappa nera che indossava quando usciva dalla cattedrale.

- Cosa leggete, Maestro? - chiese con un filo di voce.
- Un trattato di chimica. - rispose distrattamente.
Lei finse di capire, senza esigere altre spiegazioni. Lui non aveva alcuna intenzione di fornirgliene.
Perché non se ne andava a dormire? Perché continuava a fissarlo, così da impedirgli di concentrarsi? Grazie a Dio non sapeva quasi leggere, altrimenti si sarebbe accorta che da più di un'ora lui si sforzava di comprendere il senso di una frase senza riuscirvi. Lo sentiva il suo sguardo addosso, che scivolava su ogni parte del proprio corpo. Lo sapeva che si era soffermato, ora, sulle proprie mani che arricciavano nervosamente l'angolo di una pagina.
- Sono un oggetto tanto interessante per i vostri studi?- le domandò, facendole imporporare le guance.
Esmeralda non rispose. Perché quel diavolo di prete sembrava accorgersi di tutto, anche se era intento a fare altro?
Non le piaceva quella sua abilità di avere sempre la situazione sotto controllo. Si sentiva spiata.
Comprese che non era stata lei ad osservarlo per tutto quel tempo. Al contrario, era stato lui, nonostante tenesse gli occhi abbassati sui testi.
I loro sguardi si incontrarono, come raramente era accaduto nel corso della serata. Il brivido di desiderio che ella lesse in quello azzurro e tagliente dell'arcidiacono non le fu affatto gradito. Sapeva affascinarla e spaventarla nello stesso momento. I suoi occhi cambiavano espressione come il cielo dopo un temporale, passando dalla brama alla dolcezza. C'era in quell'uomo qualcosa di assoluto.
Capì che la fiamma non si era estinta in lui, che quando le aveva giurato di non volere nulla in cambio, aveva mentito. Chissà per quale oscura ragione, ma aveva mentito.
Ho sbagliato a restare, si disse. Se continuo a stare qui, potrebbe accadere qualsiasi cosa. Potrebbe costringermi a pagare il mio debito. Prima mi incuriosiva, ora mi spaventa.
È meglio che me ne vada a letto, domani sera mi chiuderò nell'altra stanza e non verrò mai più.
Addusse il primo pretesto e si ritirò. Nella toppa, sul lato esterno c'era la chiave. La prese e, per sicurezza, diede due mandate alla serratura.

L'ho spaventata, intuì Claude Frollo, e non c'era certo bisogno di fare appello a tutta la sua intelligenza di uomo di scienza.
La verità è che non era abituato a rapportarsi alle persone. Non direttamente almeno.
Se doveva farlo, si poteva sempre nascondere dietro al ruolo che ricopriva. Ma con lei non c'era altare o paramento che potesse salvarlo. Lei, con la sua innocenza, metteva a nudo la sua anima.
Non verrà più. L'ho spaventata e non verrà più.
Non ti ama, Claude, non ti ama. Magari nutriva un po' di curiosità nei tuoi confronti. Magari voleva un po' di compagnia. Ma non ti ama. Faresti meglio a rassegnarti, a darle la libertà, a farla fuggire in un luogo sicuro, alla Corte dei miracoli, alla quale appartiene.
Perché la tormenti, tenendo prigioniera una creatura abituata al vento e alla strada? E perché tormenti te stesso, alimentando un'illusione?
La sua unica consolazione era l'idea di poterla vedere, di poterle parlare qualche ora. Eppoi? Non si sarebbe certo interessata a lui per la sua cultura.
Eppure ci era andato così vicino, quella sera, quando lei gli aveva detto che avrebbero potuto diventare amici. Vicino, sì, ma ora forse lei non sarebbe più tornata. Forse.

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