L'Addestramento

Rapporto     00143. Soggetto:Umanoide


I grilli lasciano la parola agli storni per cantare l'alba che arriverà a breve.

Accendo la radio mentre passano Billie Holiday.

Summertime. Le pale del ventilatore portano il fumo del Cohiba verso la finestra spalancata. L'odore acre mi riempie i polmoni. Sento i loro movimenti fuori dalla porta, lievi passi felpati nel buio di una notte d'estate.

Summertime. Sono sul tetto, sono sul porticato, corrono e scivolano fra le ombre. Mi alzo in piedi dando una buona boccata. Ci sono le stelle e la luna stanotte.

Summertime. Concedo un attimo di riposo ai miei occhi stanchi, rimetto a posto la camicia. Prendo il Winchester, accanto alla foto di mio figlio.

Summertime.

Tieni duro piccolo mio, non piangere. Uno di questi giorni ti sveglierai cantando, spiegando le tue ali per raggiungere il cielo, ma fino a quel giorno, nulla potrà farti del male, perchè la tua mamma e il tuo papà sono qui con te.

L'alba fugge le tenebre verso Ovest. Raccolgo il Cohiba sotto la mano del cadavere numero sette. Il gelido odore della morte è calato su ogni cosa, mentre lascio il mio adorato Yellow Boy a terra. Resto un attimo sull'uscio, chiedendomi quanto del sangue che ricopre ogni cosa sia mio.

Ho finito i cerini, brutto segno.

Presagio confermato appena varco la porta.

Fuori casa avverto la sua presenza come un veleno sottopelle. Gelido come il suo sguardo il vento si alza sull'alba grigia, vuoto lo spirito come i sei alloggi del caricatore della Colt. La mano scivola sulla lana ruvida dei pantaloni, la tasca tintinna di proiettili. A ogni passo il caricatore compie un giro. Si avvicina, forse è troppo tardi. Dietro di me solo un'altra strada intrisa di sangue e false speranze, di fronte a me la morte veste uno splendido abito rosso Valentino. La DesertEagle .50  brilla dalla nebbia come la lama dell'assassino. Sento il rombo del proiettile ma non la stretta della morte.

"Sali" dice.

Accanto a me una portiera lucidata di nero spunta dal nulla.

Preferivo la pistola.

La Cadillac scivola sull'asfalto della città in rovina quasi fosse sospesa, senza un sussulto. Per interminabili minuti mi fissa senza dire nulla. L'auto scorre tra le immagini agghiaccianti di una città morta e disperata, un guscio vuoto che grida il suo dolore nel silenzio del tempo che verrà, perché nessuno sentirà i suoi lamenti.

Facciamo una brusca frenata.

"Terzo piano, appartamento 313" dice solo questo, mentre continua a fissarmi.

Fuori dall'auto scende una pioggia fitta e costante, di fronte a me un alto grattacielo nero si appoggia a fatica su se stesso.

Entro.

Raggiungo la porta dove delle lettere dorate mi indicano che sono arrivato, è aperta. Odio le stanze degli hotel, soprattutto quelle aperte

La pioggia inumidisce l'odore stantio di muffa incastrato nelle mattonelle. Avanzo lentamente cercando di non calpestare il sangue raffermo sulla moquette sporca. La stanza brulica di piccoli animali neri, sfuggenti. I mobili sono sparsi un po' ovunque, tra i pezzi dei cadaveri e i calcinacci del soffitto. Il quesito più elementare diventa d'improvviso anche il più scomodo: che diavolo è successo qui?

Se non fossi qui troverei ironico che l'unica cosa a suo posto è la locandina di Pleasentville appesa al muro.

La vecchia mi guarda negl'occhi con terrore. Poco più in là il suo braccio indica la finestra ormai distrutta. Vedo la culla sepolta da un ammasso di travi e polvere. Non riesco ad avvicinarmi, non so se lo farò, ma è per questo che sono qui. E spero che quella culla non sia vuota.

Speranza vana che s'infrange in qualche coperta e un piccolo cuscino quadrato.

Cammino per le vie vuote mentre il giorno se ne va a dormire, e la sera si fa buia, innaturalmente buia.

Il silenzio gela ancora più della pioggia. Proseguo a fatica fra ombre che il vento insegue nelle pozze di buio, profonde pieghe della mente come macchie d'inchiostro nella città in rovina. Affronto il gelo che mi arde nei polmoni e mi brucia dentro a ogni boccata. Avanzo a testa alta sfidando la silenziosa paura che ci sia qualcosa di più terrificante di me. Mi da la caccia da giorni, ma l'odore inebriante di paura che sento nell'aria non è mio. Allento la tensione sui muscoli, lascio che si rilassino quel tanto che basta per recuperare elasticità, per essere più agile, più veloce. Chiudo gli occhi, smorzo la luce e i riflessi, per non essere confuso quando dovrò vedere, quando dovrò sentire.

Eccolo.

Percepisco il suo respiro nel frastuono della periferia, assecondo l'orecchio al suo battito e così al mio. E' stranamente calmo. Fitti spilli d'acqua piovana riempiono l'aria da ore, ma la bestia è lì, nascosta e osserva e aspetta e medita. La notte mi inghiotte sempre più giù nella sua follia. Il primo colpo fende le tenebre e penetra il costato e la giuntura della spalla. A terra assaporo la polvere che si mischia al mio sangue e alla saliva. So cosa sta per succedere, ma mi rialzo comunque. Il braccio destro penzola inanimato lungo il fianco. Sento il sangue caldo colare sulla mia fronte fredda, ma sono in piedi. Mi guarda, inespressiva, quasi senz'anima. Gli ultimi respiri pesano come macigni nei polmoni, la vista si annebbia e i contorni diventano sfuocati. Devo recuperare le forze, rallentare i battiti, per colpire. Sento il proiettile ruggire come il tuono di un temporale estivo che si avvicina. Non avverto il dolore, non me ne da il tempo. Il secondo colpo si apre la strada nelle viscere come un coltello caldo nel burro. Quando ormai realizzo di non avere nemmeno il tempo di maledirla mi ritrovo in ginocchio. Maledetta cagna.

Morirò, di nuovo.

La prossima volta andrà meglio.

- Fine     rapporto -

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