XII. Voltati e vai via

Il punto della situazione era semplice: quella che le era sembrata solo l'ennesima giornata insulsa del cazzo passata in Accademia, si era tramutata in una perfetta giornata di merda.

Non ne aveva una così mostruosa da quanto, mesi? Non ne era sicura. Anche se qualcosa le diceva che quest'ultimo pensiero lo aveva fatto più volte di quante le piacesse ammettere nell'ultimo periodo.

Andando in ordine, aveva aperto occhio al suono della sveglia comune come tutti i maledettissimi giorni, aveva lanciato il cuscino dall'altra parte della stanza come faceva ogni fottutissima mattina e aveva occupato il bagno per prima, come d'abitudine da quando la sua comoda stanza singola aveva iniziato a essere una strettissima doppia.

A colazione le era toccato un bicchiere di latte freddo – avrebbero potuto almeno riscaldarglielo viste le temperature all'esterno – e uno spaventevole cachi. Ora, Martha non voleva fare polemica, davvero, ma quale persona normale sulla faccia della terra di prima mattina decideva di mangiare un cachi?

Tuttavia, aveva rivolto un sorriso tirato alla signora della mensa di cui non ricordava nemmeno il nome, per poi mandarlo giù in pochi bocconi. Il suo stomaco non aveva apprezzato, non aveva fatto nemmeno molti sforzi per nasconderglielo; tuttavia era meglio arrivare a pranzo avendo messo qualcosa sotto i denti che il contrario.

Il nervosismo già aveva toccato picchi altissimi quando aveva preso posto in biblioteca, con le cuffie infilate nelle orecchie e gli occhi che ogni pochi secondi correvano all'orologio appeso al di sopra della porta d'entrata.

La seconda cosa che l'aveva mandata in bestia? Il ritardo di Schneider. Tra tutti gli incontri a cui poteva arrivare più tardi, aveva scelto proprio quello con lei; non proprio il massimo se teneva alla sua vita, ma si era data un pizzico sulla pancia e aveva fatto buon viso a cattivo gioco.

Lui aveva lavorato durante la notte, mentre lei aveva dormito. Non era così stupida da lasciarsi sfuggire l'occasione di approfittare di quella disponibilità innata.

Poi c'era stato il piccolo teatrino a cui avevano assistito poco prima di pranzo. Come se non avesse già abbastanza motivi per odiare Anja Scholz, Keller gliene aveva fornito l'ennesimo: per qualche assurdo motivo lei era sotto la sua ala. Era una cosa che aveva sempre pensato ovviamente, ma tra l'ipotesi e la certezza c'era di mezzo il mare.

La odiava... oh eccome se la odiava, con tutto il suo cuore – sempre che ne avesse uno. Cosa aveva fatto lei di così speciale per essere trattata in modo diverso? Cos'aveva lei che Martha non aveva per vantare una figura paterna anche all'Inferno?

Avrebbe voluto definirla con altre parole, ma da quando aveva aperto occhio aveva una tale rabbia repressa a ribollirgli nelle vene che non riusciva a trovarne.

Poi Ulrich le aveva chiesto di tenere d'occhio la ragazzina appena arrivata, di assicurarsi che stesse bene e di provare a scoprire qualcosa in più su di lei. Martha non aveva la minima voglia di fare un'indagine approfondita su Louise, era tempo che poteva essere speso meglio. Per come la vedeva lei, quella ragazzina aveva poco e niente da nascondere.

Era un agnellino indifeso che aveva bisogno di qualcuno che le coprisse le spalle.

Una preda semplice.

Una vittima naturale di quel sistema.

Non sarebbe sopravvissuta a lungo lì dentro, per quanto il pensiero non facesse impazzire nemmeno lei. Tuttavia, era un'affermazione oggettiva: non aveva il potenziale per rimanere lì... era troppo buona per l'Accademia.

L'avrebbero mangiata a colazione, alla faccia del cachi che avevano servito a lei.

In ogni caso, la richiesta da parte del ragazzo l'aveva indispettita ancora di più. Chi si credeva di essere per darle ordini? Ma soprattutto, perché pensava che lei l'avesse vista altre volte dopo quella breve "sessione di studio" in biblioteca?

L'unica volta che si era accertata che la biondina fosse ancora viva era stata la sera prima, quando l'aveva sentita rientrare strascicando i piedi. Non aveva nemmeno alzato lo sguardo dal computer per salutarla. Poteva essere considerato un incontro? Aveva i suoi dubbi.

Ciononostante, era stato durante la cena che aveva sentito i suoi nervi saltare.

Non aveva fatto in tempo nemmeno a mettere piede in mensa che la mano di Ulrich si era alzata nella sua direzione. Le aveva fatto cenno di avvicinarsi, per poi dirle: «Unisciti a noi, Rainer».

E a quel punto lei avrebbe dovuto rispondergli: «Vicino a te, nemmeno sotto tortura, Schneider». Un bel modo per poter andare via e terminare quella giornata in santa pace, ma no. Martha doveva decidere di accettare l'offerta e vedersi parare davanti lo spettacolo più penoso a cui avesse mai assistito.

Eppure avrebbe dovuto aspettarselo: quel ragazzo non faceva nulla che non avesse uno scopo. Se considerava che loro due non avevano mai condiviso la compagnia l'uno dell'altra durante i pasti – se si voleva escludere quell'unica colazione degli ultimi giorni – era ovvio che avesse in mente qualcosa.

Louise era seduta tra Ulrich e Oskar. Aveva lo sguardo basso, i capelli le coprivano metà del viso e con la forchetta faceva passare dei pisellini da una parte all'altra del piatto. Ciononostante, quel tentativo di nascondere il livido color prugna che le ornava la guancia era stato del tutto inutile.

Martha aveva sentito qualcosa attorcigliarsi all'interno dello stomaco a causa della rabbia. Non era riuscita a evitare di stringere la posate tra i pugni chiusi, ma non aveva detto nulla.

Si era ficcata in bocca un pezzo di petto di pollo alla piastra e così aveva passato il resto della serata: tra lo sguardo omicida di Oskar, il silenzio carico di disapprovazione di Ulrich e gli occhi lascivi di Leopold che sembrava quasi volesse spogliarla lì, davanti a tutti, e farla sua.

In un altro giorno gli avrebbe dato corda, solo per poi rifilargli una ginocchiata nei gioielli di famiglia a fine serata, quando si sarebbe avvicinato per concludere; peccato non fosse uno di quelli e le facesse salire il sangue al cervello.

Aveva solo voglia di sbattere il vassoio con i resti della sua cena sul carrello più vicino e andarsene in stanza a fumare, magari aprire la finestra e lasciare che il freddo le gelasse così tanto la pelle da sentirla tirare.

Alla fine, quando la tensione era diventata così alta da farle formicolare le dita delle mani, si era alzata senza dire una parola, aveva posato con assoluta assenza di delicatezza quel pezzo di plastica in uno dei binari e si era avviata in direzione del suo angolo di pace.

In quel momento quindi era lì, in piedi in mezzo alla stanza con il fiato pesante e la rabbia che le scorreva nelle vene a una velocità disarmante.

Quando sentì la porta chiudersi alle sue spalle con un tonfo sordo, non riuscì a fare a meno di strizzare gli occhi per abituarsi alla semioscurità. L'unica fonte di luce era quella che arrivava dai fari accesi sul cortile; per il resto, era proprio come l'aveva lasciata quel pomeriggio: in disordine, con il computer acceso sulla scrivania e la finestra aperta.

Entrava un filo di vento ghiacciato dall'esterno, abbastanza forte da far smuovere le tende semitrasparenti. Rabbrividì nel maglioncino leggero della divisa, ma non la chiuse. Anzi, la spalancò ancora di più, in modo che quel soffio leggero le scompigliasse i capelli. Inspirò a fondo il profumo di foglie secche ed erba bagnata.

All'esterno non si vedeva nulla, se non le ombre degli alberi più alti e un gatto randagio che sembrava star provando a raccattare un po' di cibo dal bidoncino comune che sarebbe stato svuotato la mattina successiva.

Uno spettacolo triste e deludente che lei non aveva alcuna intenzione di stare a osservare; se era tornata in camera sua così presto, c'era un solo motivo: aveva voglia di buttarsi spaparanzata sul letto, a guardare il soffitto pieno di crepe e darsi all'autocommiserazione. E fu proprio quello che fece, sottolineando i suoi movimenti con un sonoro: «Ouff

Come mi sono ridotta, pensò. Con una mano scavò nello spazio tra il letto e il muro, alla ricerca del pacchetto di sigarette aperto che aveva desiderato poter consumare del tutto da ore. Ci mise pochi attimi ad afferrarne una per il filtro, portarsela alle labbra e a far scattare l'accendino.

Il fumo le penetrò nelle narici, ma dopo aver spinto indietro le lacrime a causa del pizzicore, si soffermò a osservare come quella nuvoletta grigia si disperdesse nell'aria. Anche il fumo è più libero di me, che cazzo.

Allargò le braccia in modo da occupare tutto il materasso e chiuse gli occhi, alla ricerca di quella calma che così poco la contraddistingueva, ma di cui aveva così tanto bisogno.

Tuttavia, qualsiasi essere divino ci fosse là fuori a osservarla, doveva aver pensato che quella giornata non avesse ancora toccato l'apice. Era giusto: le giornate di merda o arrivavano una dietro all'altra, oppure si facevano attendere per così tanto tempo che quando poi tornavano lo facevano con il botto.

Strinse le labbra in una linea sottile quando sentì la porta della stanza aprirsi e richiudersi in un cigolio che le dava ogni volta sui nervi. Riconobbe il passo leggero e insicuro di Louise e, nel saperla lì, a pochi passi di distanza, le fece ribollire di nuovo il sangue nelle vene.

Socchiuse un occhio, per vedere cosa stesse facendo, ma quello che le si parò davanti fu davvero la goccia capace di far traboccare il vaso.

Louise aveva appena preso il pigiama dall'anta dell'armadio che doveva appartenere a lei. Quella ragazzina venuta dal nulla si stava appropriando pian piano di tutti i suoi spazi, nonostante gli avvertimenti che aveva ricevuto quando era arrivata.

E a lei non andava giù per niente.

«La cosa più importante è riuscire a mantenere la calma.» La voce di suo padre doveva sempre venirle in mente nei momenti meno opportuni. Certo, la calma... lei era calmissima infatti.

«Che cazzo stai facendo?»

Louise si voltò nella sua direzione con in mano la maglia oversize che usava per dormire, le labbra erano schiuse dalla sorpresa. «Ho preso una cosa da—»

«Questo lo so, non sono ancora diventata cieca» sbottò Martha, per poi sedersi sul materasso per guardarla meglio. «Quel lato però è il mio, te l'ho già detto mille volte, maledizione!»

Le sopracciglia chiare si inarcarono verso l'alto, mentre una smorfia di dolore le si dipingeva in viso insieme alla sorpresa. Eppure non avrebbe dovuto esserlo, glielo aveva detto e ripetuto abbastanza. «Scusami... scusami è che pensavo—»

«Pensavi? A cosa esattamente, ad appropriarti dei miei spazi, della mia stanza?!»

C'era qualcosa che le ribolliva dentro, nel petto, che la faceva sentire quasi male. Sentiva le guance farsi bollenti e la testa girare mentre perdeva la calma, quella che già era in equilibrio instabile sul filo del rasoio.

Stava per perdere il controllo.

Su di sé, sulla situazione, sulla rabbia.

Stava per perdere il controllo e non doveva accadere mai.

Il castello di carte aveva iniziato a venire giù quando aveva visto quel livido, ma in quel momento sembrava che fosse appena arrivata una tromba d'aria a spazzarlo via, insieme a tutte le speranze di poter rilassarsi nel suo piccolo angolo di pace.

Il punto non stava nel fatto che lei si sentisse così arrabbiata con Louise per la questione del vestito, no. Martha era furiosa perché aveva lasciato che Anja le facesse del male.

Anzi, era arrabbiata con se stessa perché non aveva potuto evitare che succedesse di nuovo. Quel sistema malato stava inghiottendo nel proprio baratro un'altra persona. Lei lo sapeva e non poteva farci nulla.

Sapeva e la cosa le aveva mandato in pappa il cervello.

Tuttavia, come spesso le succedeva, la rabbia le aveva annebbiato così tanto i pensieri che aveva finito col concentrarsi sul dettaglio più insignificante che potesse mai trovare: quella maglia azzurra, dalla stampa a margherite, presa dalla parte sbagliata dell'armadio.

«È anche la mia stanza ora» mormorò alla fine Louise, dopo parecchi attimi di silenzio. Martha strinse i pugni, chiuse gli occhi e si lasciò andare a un verso di frustrazione che di dignitoso non aveva nulla, nemmeno il nome.

«Ascoltami bene, Louise, perché non mi ripeterò ancora, d'accordo?» La biondina annuì, stringendo la maglia al petto e facendo un verso di dolore quando, nel fare un passo indietro, andò a sbattere con le gambe contro la sponda del suo letto. «Non toccare nulla di mio, non salire sul mio letto e non andare curiosando nella mia camera.»

A quel punto la questione poteva fermarsi là. Pensò che magari non sarebbe stata una cattiva idea sgattaiolare all'esterno, fregarsene del coprifuoco e andare a fumare una sigaretta sotto il suo acero. Magari le avrebbe disteso i nervi, magari avrebbe smesso di provare quella bruttissima sensazione che non la faceva sentire in pieno controllo di sé, magari...

«Questa è la nostra camera.»

Gli occhi color del cielo di Louise la stavano osservando guardinghi, sicuri come non lo erano stati mai fino a quel momento, ma ciò non migliorava la situazione. La faceva solo sentire sfidata... e un Rainer non può essere sfidato dall'ultima arrivata, da una ragazzina qualsiasi.

I Rainer regnano, non si sottomettono.

Si mise in piedi in un attimo, per poi avvicinarsi a falcate alla piccola figura che in quel momento la guardava terrorizzata. Le puntò un dito contro il petto, prima di sputarle addosso tutta la cattiveria e la rabbia che le scorrevano nelle vene.

«Il solo motivo per cui non ti ho ancora sbattuta a calci fuori da qui è che sono obbligata a tenerti tra i piedi, ragazzina. Sai cos'ero andata a fare prima che ci conoscessimo?» La più piccola aveva scosso la testa, mentre tentava in tutti i modi di stringersi ancor di più le braccia al petto per nascondere il tremore. «Ero corsa nell'ufficio di Keller per chiedergli di metterti da un'altra parte, perché io non avevo e non ho alcuna intenzione di fare da babysitter a nessuno!»

Sulla guancia di Louise iniziò a colare una lacrima, messa in risalto dalla debole luce dei fari proveniente dall'esterno. La ragazzina se l'asciugò in un attimo, mentre il cuore di Martha iniziava a farsi pesante di sensi di colpa.

Tuttavia non aveva intenzione di fermarsi, perché lei era così. Era un fiume in piena che dopo aver straripato non voleva sentir ragioni per ritornare all'interno dei propri argini. «Fammi un favore: se mi incontri in giro fai finta di non conoscermi, non rivolgermi la parola e non aspettarti che io venga a pararti il culo se ti metti nei guai. Sono stata chiara?»

Avrebbe voluto dire ben altro, in realtà. Per esempio, aveva la voglia matta di fare irruzione nella camera di quella stronza viziata di Anja Scholz e metterla al tappeto.

Perché odiava vederla andare in giro come se fosse la più potente dell'Accademia, atteggiarsi a miglior studentessa del suo anno e poi farsi grossa con una ragazzina che non sapeva nemmeno mettere un piede avanti all'altro senza perdere l'equilibrio.

Se avesse anche solo la metà delle palle che dice di avere, dovrebbe avere il coraggio di affrontare persone preparate come lei. Non passerebbe il tempo a riempire di lividi l'ultima arrivata.

Se avesse potuto, l'avrebbe presa a calci fino a quando non le avesse chiesto scusa, ma non poteva farlo. Non con lei. Nonostante la sicurezza che le dava inevitabilmente suo padre, nonostante gli accordi che aveva con i superiori di Keller: sfogarsi con Anja Scholz le avrebbe portato solo guai.

Quel pensiero la faceva solo innervosire di più, perché si sentiva impotente; e quando era impotente si convinceva che la cosa migliore da fare fosse prendere la strada che l'avrebbe condotta lontano da quella sensazione.

Quale miglior modo per evitare di sentirsi inutile, se non quello di tagliarsi fuori dagli eventi che la facevano sentire in quel modo? E quale miglior modo se non quello di farsi odiare?

Ne avrebbero giovato tutti, lei per prima.

Voltò le spalle a Louise per tornare verso il letto; ma la sua voce, ridotta quasi a un sussurro, la fece fermare in mezzo alla stanza. «Hai mai pensato al fatto che quello che dici ferisce le persone?»

Certo.

Certo che ci pensava, ma non era un problema perché era proprio il suo intento. Tutto urlava come lei stesse perdendo il controllo, ma Martha non lo perdeva mai davvero; anche quando sembrava proprio il contrario, era lei a mantenere il coltello dalla parte del manico.

Sempre.

Gli occhioni umidi di Louise la perforarono da parte a parte quando si fermò in mezzo alla stanza a guardarla, erano tanto affilati quanto lo era stata la sua lingua pochi attimi prima. «Pensi mai che, magari, le persone vogliano esserti amiche, Martha?»

Quell'ultima domanda era stata fatta quasi urlando, lo sguardo era ridotto a una fessura e presa dalla rabbia del momento, Louise aveva gettato la maglia che aveva tra le braccia sul suo letto.

«Nessuno vuole essere mio amico, ragazzina» sputò acida lei, per poi sedersi di nuovo a gambe incrociate sul materasso, il filtro ormai spento dell'ultima sigaretta che aveva consumato ancora stretto tra le dita.

«Io sì, invece!» La più piccola alzò le mani nella sua direzione in un chiaro segno di esasperazione, mentre una lacrima le rigava il viso. Sembrava aver superato anche lei il limite per quella giornata. «Ci sto provando, ma non ti capisco! Un giorno mi odi, quello dopo ti preoccupi per me. All'improvviso inizi a ignorarmi e, con la stessa velocità, dopo poche ore mi chiedi se va tutto bene. Poco fa hai fatto una scenata perché presa dalla stanchezza ho sbagliato anta in cui appendere i miei vestiti e ora... ora mi dici che devo fare finta di non conoscerti? Ma ti ascolti quando parli?!»

«Abbassa quella cazzo di voce.»

«Hai urlato tu fino a pochi secondi fa,» le spalle le tremavano così tanto dal nervosismo che Martha per un attimo ebbe la sensazione che stesse per sentirsi male, «ora, se permetti, vorrei urlare un po' anche io!»

«Sei solo una bambina piagnucolona e debole» rispose inviperita Martha, gettando senza alcun rimorso la cicca fuori dalla finestra aperta per poi mettersi di nuovo in piedi e sovrastare la sua nuova compagna di stanza.

«Oh dimmi qualcosa che non so, ti prego, me lo state ripetendo tutti!» Inaspettatamente la ragazzina alzò le mani per spingerla verso il suo letto, ma senza riuscire a smuoverla, nonostante l'avesse presa di sorpresa. «Nessuno che si preoccupi e mi dica: "Oh, Louise, mi dispiace per quello che stai passando, se hai bisogno io ci sono"! Tutti a farmi presente che sono debole. Che non ho autocontrollo... beh, la vuoi sapere una cosa?»

Martha avrebbe voluto dirle di no, che non aveva intenzione di ascoltare oltre quella situazione, ma aveva l'impressione che si sarebbe guadagnata una testata in quel caso. E, per quanto masochista e meschina potesse essere, si rendeva conto quando aveva tirato troppo la corda.

Ciononostante, anche se avesse voluto rispondere non ne ebbe il tempo, perché un'altra spinta la raggiunse in pieno petto, riuscendo a farle fare un piccolo passetto indietro. «Io sono stanca... così stanca di tutto questo!»

Le lacrime ormai scorrevano senza sosta sul viso di Louise, dettaglio che avrebbe già da solo potuto farle pesare i sensi di colpa, ma fu lo sfogo che ne seguì a farla sentire per ciò che era davvero: una persona di merda.

«Ho visto i miei genitori morire avanti ai miei occhi il mese scorso, eppure... eppure nessuno sembra importarsene. A volte ho come la sensazione che non siano nemmeno mai... esistiti!» Aveva iniziato a camminare avanti e indietro, con le braccia di nuovo strette al petto e i singulti che le rompevano il discorso a intervalli regolari. «Ho perso casa mia, ho perso i miei amici, la scuola dove andavo, quasi tutte le mie cose... ho perso la mia vita per poi ritrovarmi qui. Io nemmeno volevo venirci!»

«Ci siamo passati tutti, ragazzina, non pensare che tu sia l'unica.»

Sì, era una persona di merda. Ne era consapevole, proprio come sapeva che quella frase, detta a quel punto del discorso, avrebbe ulteriormente ferito la ragazzina che le era davanti.

Tuttavia, sapeva di aver fatto la cosa giusta. Suo padre le aveva insegnato che doveva essere superiore, puntare a fare male, a ferire, ma mai a essere ferita. Se fosse successo, allora si sarebbe dimostrata debole.

«I Rainer non sono deboli. I Rainer regnano dall'alto.»

Scosse la testa per scacciare via quelle parole che, per un attimo, le avevano fatto mancare il respiro. Vide Louise asciugarsi gli occhi con la vista periferica, per poi voltarle le spalle ed entrare in bagno, l'ultima frase che le sentì dire fu: «Già, non sono l'unica... a volte mi chiedo proprio cosa io abbia fatto per farmi odiare così tanto da te».

Martha non disse nulla. Rimase in silenzio, rendendosi conto finalmente che il cuore aveva smesso di battere all'impazzata, che le guance non erano più bollenti dalla rabbia e che i suoi pensieri avevano ripreso il loro normale corso.

Si sentiva solo così dannatamente stanca all'improvviso.

Quella discussione le aveva risucchiato quei pochi pizzichi di energia che quella perfetta giornata di merda le aveva lasciato.

Lasciò che il vento le scompigliasse i capelli per qualche altro minuto, consapevole che se non avesse chiuso la finestra con ogni probabilità avrebbe rischiato di prendere una broncopolmonite. Tuttavia, quell'alito ghiacciato che le sfiorava la pelle la teneva con i piedi ben piantati a terra e la testa ferma su ciò che davvero importava: doveva abbattere, ma non lasciare che venisse abbattuta a sua volta.

Si lasciò cadere con la testa sul cuscino, ancora con la finestra aperta sopra di lei, e voltò le spalle alla porta del bagno e al lettino accostato alla parete opposta alla sua. Con un po' di fortuna sarebbe riuscita a prendere sonno prima che Louise tornasse; magari quella sera sarebbe riuscita a godersi qualche ora di riposo in più.

Fa' che sia un sonno senza sogni. Non sapeva a chi lo avesse appena chiesto, ma chiunque ci fosse dall'altra parte, sperò che fosse disposto ad ascoltarla e ad accontentare quel suo piccolo desiderio.

Alla fine, lei non aveva chiesto mai nulla a nessuno.

C'era una serie di fotografie in cornici d'argento sul mobile all'ingresso di casa sua, era una delle cose che le piacevano di più. In ognuna di esse c'era lei, in periodi diversi della sua vita, ma sempre con suo padre a fianco.

Quella a cui teneva di più era stata scattata quando aveva all'incirca sei anni, doveva essere il primo giorno di scuola. Aveva uno zaino color prugna sulle spalle e sorrideva così tanto che era impossibile non notare la mancanza dell'incisivo destro; pochi giorni prima aveva trovato delle monete sotto al cuscino, lì dove aveva lasciato quella piccola perla bianca.

Suo padre era in piedi alle sue spalle e la stringeva in un abbraccio. Per qualche motivo non riusciva a vedere bene la sua faccia, vedeva solo gli occhiali da sole scuri poggiati sul naso, la giacca di pelle nuova di zecca e chiusa fin sotto il mento e il sorriso tirato che aveva sulle labbra.

Le sue compagne di classe delle medie le dicevano sempre che era proprio bello, era l'unica cosa del suo aspetto fisico che aveva ben a mente. Non che lo descrivesse così nel dettaglio quella parola, ma era l'unica cosa che le rimaneva.

Afferrò tra le mani quella cornice, senza stupirsi del fatto che quelle che aveva davanti erano mani piccole, da bambina; le unghie erano mangiucchiate e da una pellicina le usciva ancora un po' di sangue. La portò davanti agli occhi per guardarla meglio, ma non cambiò nulla.

Qualcosa le disse che non avrebbe dovuto essere lì, che avrebbe fatto meglio a scappare, a rifugiarsi nella sua cameretta e chiudersi a chiave come le aveva detto di fare l'uomo con cui era cresciuta, ma lei era sempre stata troppo curiosa per i suoi gusti. Una voce, più forte quella volta, una parte di lei che era rimasta vigile nel corpicino da bambina, provò a convincerla ad avviarsi su per le scale.

Nemmeno Martha – o almeno la sua versione bambina – le prestava attenzione.

Invece di avvicinarsi ai gradini che portavano al piano di sopra, strinse la foto al petto e, nella semioscurità, si avvicinò allo studio con passo felpato. Uno spiraglio di luce illuminava parte del corridoio, mentre un vociare nervoso proveniva dall'altra parte della porta.

C'era qualcosa che non andava: il suo papà le aveva detto che quella sera sarebbe tornato a casa tardi, ma erano solo le undici di sera. Non poteva essere lui, o sì?

Voltati e vai via. Invece, la bambina continuò ad avvicinarsi, mentre il suo cuore accelerava, felice che magari avrebbe potuto rivedere prima di quanto si aspettasse suo padre.

«Papà?»

Qualcosa di vetro cadde all'improvviso all'interno dell'ufficio e, nello stesso momento, le voci che fino a pochi attimi prima stavano parlottando, si spensero.

Voltati e vai via.

«Papà, sei tu?» La piccola Martha continuò la sua lunga traversata del corridoio, arrivando fin sotto la cornice della porta. Con un occhietto sbirciò all'interno, ma non vide suo padre.

A restituirle lo sguardo furono due figure enormi con il volto coperto. La bimba non sapeva cosa stesse guardando, ma la versione più cresciuta di lei sapeva benissimo che quei due omoni col passamontagna erano lì per cercare qualcosa di importante.

Qualcosa con cui potessero ricattarlo, magari chiedergli un riscatto.

«Chi siete?» La vocina uscì tremolante dalle sue labbra, mentre faceva un passo indietro e i due uomini, invece, facevano un passo avanti. «Dov'è il mio papà?»

Quelli si scambiarono un'occhiata veloce e una scrollata di spalle, prima di avvicinarsi ancora di più a lei. «Il tuo papà ci ha chiesto di portarti da lui, non ti aveva avvisato?»

«No» rispose lei, con il tono di voce a malapena udibile. Strinse ancor di più la cornice d'argento al petto. Non le piacevano quelle persone. «Papà mi ha detto di rimanere a casa.»

«Beh, ora ti dice di venire con noi» disse l'altro, quello più alto e magro. La bambina notò che aveva spostato la mano dalla tasca di dietro dei pantaloni facendo un sospiro di sollievo. «Com'è che ti chiami?»

«Martha.»

«Bene, Martha, vai a posare quella foto,» le si inginocchiò davanti, attraverso il buco del passamontagna poteva notare il colore chiaro dei suoi occhi, «non c'è posto per i ricordi nel viaggio che dobbiamo fare».

«No... no, io voglio portarla con me.»

«Ti ho detto di posare la foto, mocciosa.»

«No—»

«Ti ho detto di posare quella cazzo di foto!» Anche a distanza di anni poteva sentire il sangue ghiacciare nelle vene quando quell'urlo proruppe tra le mura di casa sua; poteva ricordarlo, immaginarlo, anche distesa nel letto dell'Accademia, tutta sudata e con il vento freddo che la faceva tremare.

Quello che stava in piedi le afferrò con forza la cornice dalle mani, per poi lanciarla lontano, oltre il divano del soggiorno. Il rumore del vetro in frantumi si perse a causa del pianto isterico in cui era scoppiata la piccola Martha quando, dopo quella scenata, l'uomo che le si era accovacciato vicino, l'aveva afferrata per la vita e se l'era caricata di peso in spalla.

Provò a tirare pugni, calci, a urlare, a mordergli qualsiasi cosa le capitasse sotto tiro, ma non concluse nulla di meglio che farli arrabbiare ancora di più.

Lasciarono casa sua di fretta e furia, così veloce che la bimba non ebbe nemmeno il tempo di dire loro di chiudere almeno la porta. Suo padre odiava quando la lasciava aperta: diceva sempre che il mondo era pieno di cattive persone e che non ci si poteva fidare di nessuno.

«E noi siamo buoni, papà?» La vocetta stridula di Martha le rimbombò nelle orecchie, insieme alla risposta felice, ma altrettanto falsa di suo padre. «Sì, fiorellino, noi siamo i buoni.»

La ragazza spalancò gli occhi e si tirò su a sedere di scatto, con la fronte imperlata di sudore e la vista appannata dalle lacrime.

«I Rainer non sono deboli. I Rainer regnano dall'alto» diceva sempre il suo papà e lei lo aveva imparato a sue spese.

Si prese la testa tra le mani, mentre tentava in tutti i modi di regolarizzare il respiro. Pensa a qualcosa di bello, diceva a se stessa, dondolando avanti e indietro. Pensa al mare, alle onde del mare, all'odore della salsedine. Pensa quanto deve essere bello il mare d'inverno.

Sentì senza difficoltà un rumore di passi avvicinarsi, ma non voltò la testa. Era nella sua stanza, non avrebbe dovuto temere nulla, era al sicuro. Tuttavia, nell'esatto momento in cui due braccia fredde le si stringevano attorno alle spalle, si ritrasse di scatto urlando: «Non toccarmi... non toccarmi!»

«Sono io, sono solo io.» La voce di Louise le arrivò da lontano, non era sicura di ciò che le aveva detto, ma si lasciò comunque avvicinare, fino a quando la ragazzina con cui condivideva la stanza non iniziò a cullarla tra le sue braccia. «Sono qui, Martha. Siamo in stanza, tu sei in stanza... andrà tutto bene.»

No, non era vero. Non sarebbe andato tutto bene, non più, non da quella notte di oltre dieci anni prima.

Non credeva più a quelle parole. Erano un'illusione e solo i deboli si cibavano di quelle stronzate.

Lei era una Rainer, lei non era debole, lei regnava dall'alto.

Si scostò dall'abbraccio di Louise senza rivolgerle la parola, nemmeno quando intravide i suoi occhi gonfi di sonno e l'espressione confusa tipica di chi non sapeva cos'avesse sbagliato quella volta.

Le voltò le spalle e chiuse gli occhi, in attesa che lei tornasse sotto le sue lenzuola, nel suo letto, lasciandola da sola, ma la ragazzina non lo fece. Rimase lì, seduta sul materasso accanto a lei, abbastanza lontana dal suo corpo da non sfiorarla nemmeno, ma così vicina alla sua anima che ci mise poco a riprendere sonno.

Prima che Morfeo la portasse di nuovo con sé, però, la consapevolezza che non avrebbe potuto permettersi quel tipo di rapporto la trafisse in pieno. Gli affetti sono debolezze, lame affilate che possono rivoltarsi contro di noi o essere usati come armi per ferirci.

Io sono forte e gli affetti non mi servono.

So badare a me stessa e posso continuare a farlo per il resto della vita.

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