Prologo - Non piangere, bambolina

Le mani del padre le coprivano gli occhi mentre camminava nell'erba, gli steli ancora umidi di rugiada le solleticavano le caviglie a ogni passo. Non vedeva nulla, ma non riusciva a smettere di sorridere nemmeno un po': ci si poteva fidare di suo padre, quella era sempre stata una delle poche costanti della sua vita.

«Dove mi stai portando?» chiese senza riuscire a trattenere una risata quando, per colpa del buio che la circondava, quasi rischiò di ruzzolare a terra inciampando su un sasso.

«Abbi pazienza, bambolina, ci siamo quasi,» rispose suo padre, dal tono poté intuire che anche lui stava sorridendo.

Soffiava un bel vento quel giorno, le scompigliava i capelli e le faceva ondeggiare la gonna contro le ginocchia. Alcuni uccellini cinguettavano in lontananza e, se le orecchie non la traevano in inganno, riusciva a distinguere lo scorrere dell'acqua.

«Mamma, puoi dire tu a papà che non sono più una bambina?» mormorò la ragazzina al vento, non del tutto sicura di dove si trovasse di preciso la madre fino a quando, da sinistra, la sua voce non disse: «Bambina o no, Louise, sarai sempre la bambolina di tuo padre. Ricordalo».

Louise portò le mani su quelle callose dell'uomo e, senza rispondere alla madre, provò a spostarle dal viso per poter finalmente vedere dove si trovavano. Afferrò con poca convinzione le dita, ma l'unico risultato che riuscì a ottenere fu quello di intravedere un'ampia distesa verde davanti a sé, prima che lui le oscurasse di nuovo la vista.

«Dai, papà, voglio vedere!» protestò per poi incrociare le braccia al petto, ma non smise di camminare.

«Magari potresti iniziare a mostrarglielo davvero, Otto,» provò a darle man forte la mamma.

«No, Helga, non ancora,» Louise non poté fare a meno di notare come l'avesse chiamata per nome, come quando voleva farle capire che una questione, per lui, era di vitale importanza, «voglio che sia una sorpresa».

Camminarono in silenzio per qualche altro minuto fino a quando, dopo aver spostato le mani dagli occhi della figlia, Otto non le diede modo di osservarsi attorno.

Si trovavano in piena campagna. Li circondavano fiori di tutte le forme e dimensioni; ognuno di essi rendeva quella distesa verde – di cui prima aveva avuto un'anticipazione – ancora più colorata e brillante.

Louise girò un paio di volte su se stessa, senza riuscire a fermare gli occhi dal vagare in lungo e in largo: dal ruscello che scorreva fino a un piccolo lago in lontananza, alle mura di pietra del vecchio mulino che manteneva lei e i genitori all'ombra. Il cielo sopra di loro era azzurro e di nuvole quasi non se ne riusciva ad adocchiare nemmeno una: un vero peccato se qualcuno glielo avesse chiesto; ma niente avrebbe potuto intaccare la felicità che provava in quel momento, nemmeno la loro mancanza.

«Ve ne siete ricordati» bisbigliò tra le mani chiuse a coppa sulle labbra. Sentiva gli occhi riempirsi di lacrime nel guardare un luogo a cui non faceva ritorno da tanto, forse troppo tempo. Si voltò a guardare Otto ed Helga per ringraziarli, ma non riusciva a trovare le parole. «Oh, mamma, papà... non avete dimenticato.»

I due la abbracciarono stretta mentre si scambiavano uno sguardo complice: non riusciva nemmeno a immaginare da quanto tempo dovevano aver programmato di riportarla al mulino dove, per l'ultima volta, Louise aveva potuto godere della compagnia dei suoi nonni.

«Non piangere, bambolina,» Otto le asciugò con dolcezza le lacrime che rigavano le guance piene e rosee, «o non riuscirai a convincermi che non sei più la mia bambina».

«Ma non lo sono!» protestò subito la ragazza, prima di portarsi una ciocca di capelli biondi dietro l'orecchio.

«Oh, su questo avrei qualche dubbio, tesoro» la prese in giro Helga. Le avvolse un braccio attorno alle spalle e, lasciando indietro il marito, la sospinse in direzione di un punto erboso già pronto per un pic-nic di dimensioni non trascurabili. «Compi quindici anni, non trenta... fino ad allora sarai sempre la nostra bambina. Vero, Otto?»

«Trenta? Io avrei detto almeno quaranta!» rispose lui con un sorriso a trentadue denti.

«Vi odio» sbuffò Louise, senza riuscire a nascondere un sorriso quando si sedette a gambe incrociate sulla tovaglia a quadroni bianca e rossa poggiata sull'erba.

«No, non è vero.» Anche Helga si accovacciò a terra, prima di iniziare a sfilare da una borsa termica un'infinità di contenitori di alluminio pieni di chissà quali prelibatezze, per poi continuare il suo discorso: «Anche io dicevo di odiare i tuoi nonni, sai? Per fortuna era solo una fase e mio padre me lo fece capire quasi subito».

«Come?» chiese curiosa la ragazzina. Gli occhi azzurri erano puntati sul viso sottile e sorridente della mamma fino a quando suo padre non si lasciò andare a una sonora risata, facendo volare via dei passerotti che passeggiavano a poca distanza da loro.

«Oh questa è una bella storia, Louly! Prendi le patatine, sono sicuro che la adorerai» disse Otto alla figlia e le indicò uno zaino blu abbandonato a poca distanza dalle sue gambe. Lei aprì la cerniera per trovare, come le era stato già anticipato, una busta di patatine di quelle grandi, da festa.

Helga si schiarì la gola prima di cominciare e, ben ostinata a non far notare la risata che le arricciava già le labbra, disse: «Tuo nonno, per farmi capire che non era vero quello che stavo dicendo, si finse morto per una mezza giornata buona».

Louise spalancò gli occhi e si ficcò una bella manciata di patatine tra le labbra mentre ascoltava il racconto tragicomico di sua madre. Ogni tanto Otto interveniva per interpretare una delle reazioni che doveva aver avuto la Helga adolescente all'epoca, soprattutto quando il nonno aveva spostato la coperta in un momento di distrazione e lei era arrivata a convincersi che la casa fosse stregata.

Fu la miglior festa di compleanno che avrebbe mai potuto chiedere, e nonostante ci tenesse ogni volta a sottolineare quanto lei non fosse più una bambina, si godette le attenzioni dei suoi genitori come se non ci fosse null'altro di meglio da fare.

Quando si stese con la testa sulle gambe della mamma, si rilassò col suo tocco gentile fra i capelli e il sorriso luminoso che le rivolgeva al di sotto degli occhiali cerchiati di ferro. I suoi occhi, azzurri come li aveva anche lei, la osservavano con affetto e le riscaldavano il cuore.

Suo padre, invece, aveva preso sonno subito dopo aver divorato il terzo panino al salame. Russava fragorosamente e i baffi si muovevano allo stesso ritmo del suo respiro.

Non ricordava quando anche lei aveva chiuso gli occhi e si era lasciata andare al torpore degli ultimi soli della stagione, ma ricordava benissimo come si era svegliata.

Un urlo le aveva fatto sbarrare gli occhi e drizzare la schiena. Aveva voltato il viso a destra e a sinistra, ma i suoi genitori non c'erano più; sotto la testa di Louise c'era solo uno zaino e, davanti a lei, rimaneva una serie di pieghe nella tovaglia a quadroni laddove suo padre aveva preso sonno poco prima.

La seconda cosa che il suo cervello riuscì a registrare fu il fumo. Il vecchio mulino, che fino a poco prima li aveva accolti nella propria ombra, era in fiamme.

Louise sentì il cuore saltarle un battito e la testa svuotarsi da ogni pensiero logico. La paura era l'unica cosa che sentiva.

Un altro urlo echeggiò nell'aria.

«Mamma!» La ragazzina scattò in piedi all'istante e si affrettò in direzione dell'edificio ormai pericolante senza pensare.

Doveva solo raggiungere sua madre e sarebbe andato tutto bene.

«Helga!» Louise sentì suo padre urlare e un brivido le attraversò la schiena.

«Papà!» urlò in risposta, nella speranza che uno dei due la sentisse, e iniziò a correre più veloce, sempre più veloce.

Doveva solo trovarli entrambi e sarebbe andato tutto bene.

Le fiamme si levavano alte nel cielo e il caldo insopportabile le faceva bruciare gli occhi. Quando Louise raggiunse il perimetro della costruzione rimase un attimo ferma a pensare da che lato le sarebbe convenuto correre, ma quasi subito filò verso destra.

Non c'era tempo per pensare, doveva trovarli.

«Mamma! Papà!» urlò di nuovo, ma nessuno rispose e le sembrò di sprofondare sempre più, un passo dopo l'altro. Le scintille le lambivano i vestiti, la fuliggine e il fumo le penetravano nelle narici. Sentiva gli occhi ardere e i polmoni vuoti.

All'improvviso si fermò, lo sguardo puntato in un'apertura che fino a poco tempo prima forse aveva ospitato una finestra. Aveva avuto la sensazione che qualcuno l'avesse chiamata e, infatti, quando intravide la figura di suo padre a pochi passi di distanza, quasi fece un salto di gioia.

«Papà...»

«Bambolina,» la fuliggine gli aveva scurito il viso e un rivolo di sangue gli scorreva da una ferita alla fronte, ma tutto sommato sembrava stare bene, «allontanati da qui e chiama i soccorsi».

«Papà... papà, la mamma...» balbettò con le lacrime agli occhi. C'era qualcosa che non andava, eppure lo sapeva. Sapeva che se li avesse trovati sarebbe andato tutto bene. Doveva essere così.

Otto afferrò il viso di Louise tra le mani e sorrise, nonostante sembrasse sul punto di crollare ai suoi piedi da un momento all'altro. «Alla mamma ci penserò io, bambolina, ma tu corri a chiamare i soccorsi.»

«Ma—»

«Chiama i soccorsi, Louise» disse lui, serio come non lo aveva mai visto. Le diede un bacio sulla fronte e poi si addentrò di nuovo tra le fiamme, quasi come se sapesse già dove andare per trovare Helga. Louise guardò la sua figura scomparire prima di iniziare a correre di nuovo in direzione del punto del prato dove avevano fatto il picnic.

Lo zaino di Otto era nello stesso punto di prima, ancora schiacciato laddove l'uomo aveva poggiato la testa per addormentarsi. Con mani tremanti la ragazzina aprì la zip, afferrò il cellulare e compose il numero dei pompieri. Avrebbe dovuto chiamare anche un'ambulanza?

«Buon pomeriggio, è la stazione dei pompieri di—»

«Abbiamo bisogno di aiuto al lago, c'è un incendio... mia madre e mio padre...» balbettò senza fiato la ragazzina, mentre il suo cuore non dava segno di voler rallentare.

«Si calmi, ho bisogno che lei mi dica il nome del lago per potervi trovare, o qualsiasi cosa ci sia nelle vicinanze.»

«C'è un mulino... è il mulino, è in fiamme... mia mamma e mio papà sono dentro.» Più parlava e più aveva la sensazione di non respirare bene. Non ricordava nemmeno più il nome del lago dove andavano insieme ai nonni, e come avrebbe potuto? A stento riusciva a mettere insieme una frase di senso compiuto.

«Arriviamo il prima possibile, lei si tenga lontana dall'incendio.» L'uomo che le aveva risposto attaccò subito e la lasciò da sola in mezzo al verde e alle fiamme che prendevano sempre più piede.

Louise continuava a ripetersi che sarebbe andato tutto bene: Otto avrebbe ritrovato sua madre e sarebbero usciti incolumi dal mulino, prima ancora che qualcuno arrivasse in loro aiuto. Entrambi l'avrebbero guardata come sempre e, dopo averla abbracciata, le avrebbero detto che era stato uno scherzo, come quello che il nonno aveva fatto ad Helga quando era ragazza.

«Non è vero che vi odio» bisbigliò al vento, mentre si stringeva le gambe al petto e percorreva speranzosa con gli occhi i contorni di quel mostro di fuoco che le stava davanti, ma dalla porta e dalle finestre non uscì nessuno.

«Io non vi odio!» urlò quella volta, con le lacrime che le rigavano il viso, lasciando delle righe rosee sulle guance annerite dalla fuliggine. Di nuovo, non vide uscire nessuno.

Si preparò a gridare di nuovo una volta essersi rimessa in piedi, più forte, ma il frastuono del mulino che crollava su se stesso sovrastò ogni cosa, tranne i battiti del suo cuore.

Le travi avevano ceduto.

Le fiamme furono sbalzate per un attimo ancora di più verso l'alto, ma si abbassarono di nuovo quasi subito dopo.

Louise si accasciò a terra, con le labbra contratte in una smorfia di orrore e un urlo di dolore che faceva fatica a uscire. Si prese la testa tra le mani e pregò di vedere due figure che avanzavano nella sua direzione, ma non successe.

A un certo punto ebbe la sensazione di non sapere più dove si trovava. Non sentiva più il suo corpo, le sembrava di guardare una scena di qualche film, incapace di rendersi conto di ciò che era appena successo.

I soccorsi arrivarono pochi minuti dopo a detta loro, ma per lei potevano essere passati pochi secondi così come ore intere.

Aveva visto alcuni pompieri entrare nell'edificio ormai irriconoscibile dopo aver domato le fiamme, nonostante ci fosse un'infermiera lì davanti a lei che continuava a chiederle cosa fosse successo e a spingerle un bicchiere d'acqua fresca tra le dita.

Aveva mantenuto gli occhi fissi sul buco da cui erano entrati fino a quando, con suo enorme disgusto, non trascinarono fuori quello che a stento sembrava un corpo umano.

L'infermiera le coprì gli occhi, ma era troppo tardi.

Un altro urlo aveva fatto volare via tutti gli uccelli.

Un urlo di dolore, di disperazione, pregno di sensi di colpa e voglia di correre il più lontano possibile da lì.

Un urlo che non riconobbe come suo.

Suo padre, una volta, le aveva raccontato un antico mito greco: le aveva detto che era stato il fuoco a salvare la vita dell'uomo, a farlo diventare ciò che era.

«Il fuoco è luce, bambolina, è vita.» Le sue parole le risuonavano nel cervello forti e chiare come se lui fosse ancora lì vicino a lei, ma non era così.

Le cose stavano diversamente perché, a differenza di ciò che le aveva detto il suo papà, il fuoco era anche paura.

Era anche morte, e lei quel giorno li aveva persi a causa del fuoco.

Erano entrambi morti a causa sua.

ANGOLO AUTRICE
Sì, sono tornata a rompervi anche a fine capitolo! Mi era mancato fare anche questo... moltissimo a essere sincera ✨

Comunque non ho molto da dire in realtà, volevo solo ringraziare tutti quelli che hanno supportato questa mia nuova avventura fin da subito: siete dei tesori e spero di non deludervi 💛

Avrete notato l'assenza delle copertine di inizio capitolo e dei banner. Non ho trovato ancora nulla che mi soddisfi appieno su questo fronte, quindi ho preferito non mettere nulla almeno per ora, più avanti chissà! 👀

A mercoledì prossimo, amici! 💛✨

eu_phero

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