𝐏𝐑𝐎𝐋𝐎𝐆𝐎 - ACCADDE UNA NOTTE
Parte Prima
ACCADDE UNA NOTTE
Da qualche parte nella Cerchia Asservita,
164° anno del Principato.
Nel cuore della notte, Eamon si svegliò di soprassalto con la fronte imperlata di sudore freddo e il petto martellante.
Era stato vittima di un incubo: uno di quelli orrendi che sembrano reali, che si appiccicano addosso, con mostri che mozzano il fiato in gola.
Si stropicciò gli occhi con le manine esili, coperte dalle maniche del pigiama di una misura di troppo. Si mise a sedere e si guardò attorno: alla luce spossata della candela ormai consumata, la stanza da letto, dal pavimento con le assi scricchiolanti e i mobili consunti, era ancora più angusta e lugubre. Ebbe paura. Così, scosse la madre, che dormiva al suo fianco, per una spalla.
«Mamma», la chiamò con voce fioca. «Mamma.»
La donna si destò in un sussulto e il materasso malandato rumoreggiò. «Eamon, cosa fai sveglio?» Lanciò un'occhiata alla finestra e soggiunse: «È notte fonda.» Seppur intorpidita dal sonno, la voce era dolce quanto il miele.
«Ho avuto un incubo», biascicò lui, abbracciando con forza il suo vecchio e amato pupazzo: un leprotto di pezza sbiadito e consunto. Deglutì. «Coi mostri brutti.»
«Tesoro», la madre lo sospinse amorevolmente contro di sé e lo fece stendere, «i mostri non esistono. Era solo un incubo ed è passato. Non ti tormenterà più. Dormi.»
Titubante, Eamon poggiò la testa sulla spalla della madre e prese a infastidire l'orecchio destro del leprotto, che a differenza di quello sinistro, era ripiegato su sé stesso e molliccio. «Davvero non ci saranno più?»
«Ti fidi della mamma?»
Eamon annuì, deciso. Certo che si fidava, era la persona più importante della sua vita.
«Non tornerà» ribadì lei, morbida. «Ora dormi.»
Il bambino provò, ma il buio pesto delle palpebre chiuse lo terrorizzò e desisté. «Prima mi... racconti una favola?» chiede allora trafelato.
«Eamon, è tardi.»
«Per favore» cantilenò.
La madre sospirò arrendevole. «Solo una. Quale vorresti?»
Eamon strinse il pupazzo. «Gracie e il leprotto» disse pronto, perché erano giorni che voleva ascoltare e riascoltare solo quella.
Così, la voce vellutata della donna narrò:
«In un villaggio di un regno lontano che nessuno più conosce, viveva Gracie. Era una giovane fanciulla bella quanto virtuosa: era generosa, casta, mite, benevola, diligente, umile e misurata.
Non esisteva persona più giusta o con un animo più puro.
E il suo dono più grande era l'innata capacità di instillare fiducia nel prossimo. Chi la guardava, le parlava o sentiva semplici chiacchiericci sul suo conto, inevitabilmente, finiva per attribuirle fiducia cieca e sconfinata.
La mattina dell'ultimo giorno d'autunno, uscì dalla sua casa dimessa vestita di stracci stinti e frusti e camminò finché non udì una voce allegra alle sue spalle.
«Fanciulla! Fanciulla!» diceva.
Gracie si voltò, ma non vide anima viva. Pensò che il vento le avesse giocato un brutto scherzo e riprese a percorrere la via sterrata.
«Fanciulla! Fanciulla!» accadde ancora.
Allora, si fermò e si girò una seconda volta. «Chi mi chiama?»
«Sono qui, virtuosa fanciulla, all'altezza delle tue caviglie» dichiarò la voce.
Abbassando lo sguardo, Gracie vide finalmente il suo interlocutore: era un leprotto dal pelo fulvo.
Aveva un corpo minuto, deperito, un muso affusolato, grandi occhi gialli e sagaci e lunghe vibrisse bianchissime. Si reggeva sulle zampe posteriori. In testa, nel mezzo delle lunghe orecchie, trasportava una rozza cesta di rami di nocciolo.
S'inginocchiò e domandò esterrefatta. «Tu mi hai chiamata, leprotto?»
«Sì», annunciò l'animale con fierezza. «E sei tu la fanciulla in cui tutti ripongono la loro fiducia? Colei che aiuta il prossimo solo per bontà?»
Le guance di Gracie si colorarono di rosso. «Sì, sono io.»
«Vorrei il tuo aiuto, fanciulla.»
«Certo, caro leprotto» asserì volenterosa. «Dimmi come posso esserti utile.»
L'animaletto agguantò con zampe anteriori la cesta sulla testa e la poggiò a terra. «Oh, fanciulla, ho bisogno di una persona di fiducia a cui affidare la mia vita.»
«La tua vita?»
«Esatto.»
«E perché?»
«Perché so per certo che quest'inverno sarà il più rigido che abbiate mai visto: queste terre in cui coltivate e cacciate saranno rese sterili dalle bufere e i fiumi e i laghi da cui pescate si ghiacceranno sin nelle loro profondità più buie. Di certo non voglio morire di stenti o per le fauci di un lupo affamato. Perciò, ho costruito questa cesta magica: una volta che sarò entrato e avrò chiuso il coperchio, mi difenderà per i futuri ottantanove giorni d'inverno.»
«E perché avresti bisogno di me?»
«Perché questa cesta è esigente e infida, necessita di cure continue di cui non potrei occuparmi dall'interno: non dev'essere aperta, non un rametto deve rovinarsi e non deve essere lasciata incustodita perché le foglie che cresceranno non dovranno ricoprirla. Se ciò dovesse accadere, io morirei.»
«E desideri affidarti a me, Leprotto?»
«Esatto. Non ho una tana che possa proteggermi e, cercando, mi hanno parlato di te, fanciulla di fiducia. Sono accorso certo che tu saresti stata la soluzione.»
«Non temere, salta dentro. Per ringraziarti del tuo avvertimento, mi prenderò cura io della cesta e di te» disse dolce Gracie.
Allora l'animale, senza farselo ripetere, aprì la cesta ed entrò in un balzo. «Ricorda, Fanciulla di fiducia, non aprirla finché non sarà trascorso l'ottantanovesimo giorno d'inverno. E sta' attenta: non cedere ai suoi inganni! Ho fiducia in te.» Detto ciò, chiuse il coperchio.
Gracie avvisò di corsa il villaggio del leprotto e delle sue previsioni. Gli abitanti si prepararono al meglio per combattere il gelo e, dalla mattina seguente, videro le parole del leprotto avverarsi: si abbatté il peggiore inverno che si fosse mai visto.
Gracie, come tutti i suoi compaesani, si chiuse in casa. Si dedicò anima e corpo alla cesta, quasi fosse un neonato.
Al decimo giorno d'inverno, qualcuno bussò alla sua porta. Gracie si allontanò di non più di cinque passi dalla cesta e aprì.
Era un giovane bellissimo che indossava abiti di cotone leggero malgrado il freddo feroce e la neve alta. «Graziosa fanciulla», le disse, «il gelo mi intorpidisce le membra. Accoglimi in casa tua e ardiamo quella cesta di nocciolo che possiedi. Se lo farai, arderò di passione per te.»
Gracie ricordò le parole del leprotto, s'insospettì e rispose: «Quella cesta è il mio compito. Tu affronti il freddo senza un brivido. Sei un inganno e io non cederò alla tua bellezza. Il leprotto ha fiducia in me». E chiuse la porta.
Al ventunesimo giorno, qualcun altro bussò.
Era una donna anziana, con il viso ragnateloso e le labbra unte di rosso. «Giusta fanciulla,» esordì, «i viveri scarseggiano in questo inverno di bufera. La terra morta impedisce l'agricoltura e la caccia, i mari immobili precludono la pesca. Ho sentito parlare del leprotto che conservi vivo in quella cesta. Accoglimi e sfamiamoci assieme.»
Gracie osservò bene il viso dell'anziana e disse: «Questa cesta è il mio compito, signora. Le sue labbra sono sporche di sugo e il suo alito sa di galletto arrosto. Ha appena mangiato. Lei è un inganno e io non cederò alla sua ingordigia. Il leprotto ha fiducia in me». E chiuse la porta.
Al trentatreesimo giorno, la notizia della cesta magica con il leprotto si era diffusa anche all'esterno del villaggio e per la terza volta qualcuno bussò.
Si trattava di un mercante bardato di gioielli e stoffe pregiate che con sé portava un gran baule di pelle dall'aspetto pesante. «Generosa fanciulla», annunciò, «in questo inverno la miseria dilaga e la tua cesta magica potrebbe aiutare molti degli abitanti in gravi difficoltà. Accoglimi, vendimela e io ti pagherò ben più del suo prezzo.»
Gracie lo guardò e lo tacciò: «Questa cesta è il mio compito, mercante. Voi non patite la miseria. Voi volete impadronirvi della magia che pervade questo nocciolo. Voi siete un inganno e io non cederò alla vostra ricchezza. Il leprotto ha fiducia in me». E chiuse la porta.
Al quarantunesimo giorno, un'altra delle predizioni del leprotto si avverò. La cesta iniziò a ricoprirsi di foglie: nascevano a dismisura, alcune verdi e forti e altre gialle e malate.
Ricordandosi dell'avvertimento, Gracie agguantò il coltello e con attenzione rimosse gli eccessi. E continuarono a crescere, a ogni ora, per giorni.
Al settimo, Gracie fu snervata, dolente e con le mani ricoperte di sottili tagli brucianti che gocciolavano rosso. Pensò di trascurare la cesta e concedersi una giornata di riposo. Ma si disse; «La cesta vuole mettere alla prova la mia determinazione. È un inganno e non cederò all'indolenza. Il leprotto ha fiducia in me». E così potò, ancora e ancora. Le foglie si arrestarono solo la settimana seguente.
Al sessantesimo giorno, la cesta impazzì. Iniziò a saltare a destra e a manca a una velocità spaventosa, come una palla indemoniata.
Ruppe piatti, frantumò finestre e distrusse i mobili. Ricordando l'avvertimento del leprotto e temendo che i rami di nocciolo potessero rovinarsi, Gracie si sbracciò per ghermirla, ma fu inutile. Continuò così per giorni e giorni; furono almeno undici.
Quando si quietò, intatta come se nulla fosse successo, Gracie fu fuori di sé dalla collera: aveva dormito a spizzichi e bocconi e la sua dimora era distrutta, invasa dal vento e dalla neve.
In un impeto di furia, acciuffò la cesta, si piantò davanti al camino acceso, la sollevò e... Ma pensò: «La cesta vuole farmi rinunciare. È un inganno e non cederò alla rabbia. Il leprotto ha fiducia in me».
La settimana seguente il villaggio festeggiò. Le feroci bufere erano cessate e gli abitanti potevano finalmente uscire dalle loro case senza timori. Camminando nella neve alta quasi sino alla vita, ridevano, giocavano, animavano l'intera comunità.
Gracie avrebbe voluto unirsi a loro, ma non poteva. E mentre li osservava mesta, li comparò a ciò che stava vivendo: la sua casa era distrutta, non poteva abbandonare la cesta e, dato che più di una persona si era dimostrata troppo interessata a essa, non era prudente portarla in giro sottobraccio. Si dannò.
Perché aveva accettato la richiesta del leprotto? Perché solo lei doveva curare la cesta e perdersi la gioia del villaggio? Era ingiusto che tutti si divertissero tranne lei! Così, si alzò, andò alla porta a passo sicuro, strinse la maniglia con forza e...
Ma si disse: «La cesta vuole tentarmi con ciò che desidero. È un inganno e non cederò all'invidia. Il leprotto ha fiducia in me».
Giunse l'ultimo giorno d'inverno: l'ottantanovesimo. E qualcuno bussò alla porta. Erano gli abitanti del villaggio, tutti, nessuno escluso. «Fanciulla! Fanciulla di fiducia! Portiamo buone nuove!»
«Ditemi, cosa accade?» s'informò Gracie.
«Abbiamo saputo», prese parola un giovane di bell'aspetto, «che durante questi mesi, il leprotto che tu hai protetto è magico!»
«Grazie a te, quando uscirà dalla cesta, ricompenserà il villaggio con prosperità, ricchezza e potere!» esultò una donna anziana.
«Tutti noi! Dal primo all'ultimo! Ci ricompenserà per i sacrifici che abbiamo patito per proteggerlo!» strombazzò un uomo ben vestito.
«Tutti? Per i vostri sacrifici?» balbettò Gracie, interdetta.
Si guardò alle spalle: la sua dimora era devastata e i suoi abiti erano stracci ancor più di quanto già non fossero. Lei stessa era un agglomerato di brividi, ferite e fame.
Ed esasperata esplose: «Come osate arrogarvi i miei meriti? Come osate paragonarvi a me? Voi non avete sacrificato alcunché per quel leprotto! Io sì! Io ho perso tutto! E se c'è qualcuno qui che deve essere ricompensata, ebbene sono io e soltanto io!» Agguantò inferocita la cesta, gridando come un'ossessa. «Ora, ci parlo io con il leprotto magico, e solo io avrò potere e ricchezza!» Sollevò il coperchio in uno strappo e...
Gocce di sangue schizzarono sul suo viso. Inorridì: il piccolo cuore dell'animale, palpitante in un ultimo battito, era infilzato in un rametto di nocciolo affilato e penzolante che nasceva dal centro del coperchio.
Nella cesta, il leprotto giaceva esanime con una vistosa e orripilante cavità nel petto.
«Gli abitanti erano un altro inganno della cesta, come ha fatto Gracie a non capirlo? Avrebbe dovuto comportarsi come sempre, da persona buona. Ed essere felice della prosperità del villaggio», commentò rabbuiato Eamon, stringendo il suo leprotto di pezza. «Si è lasciata corrompere.»
«Alle volte accade anche alle persone più buone, tesoro mio» asserì la madre. Gli carezzò i capelli scompigliati, affettuosa, e gli domandò, curiosa: «Ma perché ti piace tanto? Ha un finale tragico, il leprotto muore sempre»,
«Sì, lui muore sempre», fece eco Eamon in un borbottio pensoso.
Guardò il suo pupazzo: sul petto gli aveva ricamato con cuciture grossolane un pezzo di stoffa rossa a forma di cuore. Vi passò un dito.
Aveva ascoltato diverse versioni della fiaba e il leprotto non sopravviveva in alcuna: Gracie o lo vendeva, o distruggeva la cesta o lo cucinava o lo trascurava. Ed Eamon si domandava: ma se Gracie era una fanciulla tanto virtuosa, allora perché sbagliava sempre? Perché sotto le sue cure il leprotto moriva? Perché tradiva la fiducia dell'animaletto? Non avrebbe forse dovuto anteporre la sua promessa a sé stessa e i suoi meriti? O era lui che, come diceva spesso sua madre, era ancora troppo piccolo per capire?
Non rispose alla domanda che gli era stata posta perché fu lui a voler sapere: «Tu, mamma? Cosa avresti fatto se fossi stata nei panni di Gracie?»
«Non saprei, dipende, tesoro» tagliò corto, lasciando al figlio l'amaro in bocca mentre si chiedeva come fosse possibile non saperlo. Poi gli scoccò un sonoro bacio sulla fronte e si sistemò nel letto, a occhi chiusi. «Ora a dormire, Eamon. È tardi e domani sarà una giornata impegnativa.»
Lui assentì molle. Rimuginò e poi disse: «Ma io lo so, mamma.»
«Cosa?»
Eamonstrinse il pupazzo al petto così forte che gli parve di fondere il suo cuore,palpitante, con quello inerte di semplice stoffa rossa. «Da grande, mamma, nonsarò come Gracie. Ti prometto che mai e poi mai tradirò la fiducia delleprotto.»
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