7 - THERE WILL BE 𝑆𝑂𝑀𝐸𝐵𝑂𝐷𝑌'𝑆 BLOOD (p.2/2)

Pranzò insieme a Iris, che le vietò categoricamente di usare la mensa comune. Ma dovette trangugiare alla svelta gli squisiti involtini di manzo preparati da Joanna, perché un Asservito panciuto le interruppe: la sua giacca era pronta e la sarta dell'Accademia l'attendeva per la prova finale alla Boutique Mastri Sartori Tullé, nell'ala ovest.

L'Asservito l'accompagnò.

La Boutique era in una delle stradine che davano sulla piazza centrale dell'istituto. Aveva un elegante portone di betulla che faceva a pugni con la pesante porta di ferro della vicina Calmeria, luogo a esclusivo uso Domen, per sedare i possibili eccessi di rabbia dei quali molti soffrivano.

L'asservito la guidò attraverso l'atelier tra manichini, specchi e matricole intente a tiranneggiare sui suoi colleghi muniti di metro, stoffe e spilli. Poi la lasciò davanti quello che disse essere l'ufficio della sarta.

La porta si spalancò subito, quasi qualcuno sapesse che fosse appena arrivata. Sue capì il perché. Sussultò spaventata quando si ritrovò faccia a faccia con una snella e flessuosa Wizja. Aveva tutti i tratti classici dell'Abilità: inquietanti occhi gialli, privi di palpebre, i lineamenti tanto duri e netti da sembrare cesellati con lo scalpello, la pelle scura quanto l'ossidiana screziata da venature dorate e il capo calvo.

«Susanne Cornelia Bertrán?» le chiese la donna con voce sibilante e squillante. Indossava dei fuseaux d'un fucsia accecante, che si abbinavano con larga maglia dalle spalle cadenti e il turbante in testa.

Sue ebbe appena il tempo d'annuire che la Wizja prese a stringerle la mano con foga. «Sono Mrs. Tullé Ágostdóttir, responsabile della Boutique. Diamoci del tu, ti va? È più comodo. E lui è Ec...Ecrù!» Urlò al suo Perpetuo, che svolazzava a pochi passi da lei, attorniato da ritagli di stoffa che volteggiavano come le palline di un giocoliere. «Quante volte ti ho detto di non giocare con gli scampoli!»

«Mi è stato detto che la mia giacca è pronta» s'intromise Sue, avanzando lenta al seguito della sarta. L'ufficio era strapieno di manichini, abiti confezionati, un grande specchio e progetti su fogli in perfetto ordine su una scrivania d'ebano. A quest'ultima, con sua sorpresa, era seduto Areth. I capelli biondi erano arruffati come la sera prima. La salutò con un cenno della mano guantata e lei ricambiò.

«Assolutamente» sibilò acuta Tullé. «Prontissima, mia cara Venere-in fiore!»

«Come?» Sue fu perplessa.

«Oh, perdonami», le sorrise, «ma una Zivel Flora con delle fossette di Venere. Non posso chiamarti altrimenti, ti spiace?»

Sue lanciò un'occhiata al ragazzo, che guadava per aria. Fu certa che avesse sentito, il contrario era impossibile. E la imbarazzò. Trovò indelicato sbandierare una particolarità del suo corpo ai quattro venti. Schiarì la voce, ma parlò sommessa: «Come lo sai?»

«L'ho visto, cara, ieri mattina. Misure di fianchi, spalle, tutto! O non avrei potuto confezionarti la giacca. Un'Abilità come la mia consente d'ottimizzare i tempi e ...» S'interruppe quando notò il viso rosso di Sue. Gli occhi sembrarono dondolare tra i due ragazzi e si porto una mano, dalle unghie dorate come quelle di ogni Wizja, alla bocca. «Per Hemera, cara! Sono stata indiscreta? Non dovevo dirlo? Che figura!»

«Se volete, passo dopo» disse Areth.

Sue scosse il capo. Le sembrava scortese mandarlo via. «Tranquillo.»

In sorriso dolcissimo, la sarta fu dello stesso avviso. «Abbi pazienza caro! Una prova veloce per la Venere-in-fiore e poi finisco di sistemarti la tuta per l'Ingresso del Debutto e le altre giacche strappate. Anche se dovrai spiegarmi come fai a romperle in continuazione!»

Areth ricambiò con un sorriso sbieco, ma non disse nulla.

Tullé, invece, si rivolse di nuovo a Sue mentre recuperava un sacco portabiti bianco. «Non hai idea di quanto sia elettrizzante vestire di nuovo una Bertrán!»

Lei sospirò e rispose al pari di un automa. «Sì, mia sorella è fantastica e Mr. Bruce Lilar è un ottimo partito delle Casate No..»

«Ma che vuoi che me ne importi di loro o del loro matrimonio! Oh no! Ho lavorato una sola volta con Lady Hannaline», l'interruppe severa, il viso corrucciato. Aprì la zip del portabiti ed estrasse una giacca identica a quella di Iris, ma viola quanto quella di Josh. «L'esperienza peggiore della mia vita! Scontrosa, indisponente, un pezzo di ghiaccio! Se fosse stato per me, le mie creazioni le avrebbe viste solo da chilom...» Sì porto una seconda volta la mano alle labbra, mortificata. «Accidenti, cara, sono stata brutalmente sincera. Mai che la mia bocca taccia! Ti ho offesa?»

Dalla scrivania si levò un borbottio di Areth: «Figurati, parla sempre a sproposito».

Sue adocchiò Areth. Le sembrò un gran maleducato, ma la sarta non parve dar peso al commento, così ignorò. «No. A chi ti riferivi?»

«A tua madre!» trillò Tullé, aiutandola a indossare la giacca. «Oh, Victoria Lucilla Bertrán, che eleganza! Aveva un gusto!»

«La conoscevi?» meravigliò. Guardò la Wizja. Non avrebbe saputo dire quanti anni avesse; l'aspetto donatale dall'Abilità nascondeva l'età alla perfezione.

«Abbastanza da sentirne la mancanza. Una ragazza così dolce, semplice.» La voce della sarta s'incupì e gli occhi ebbero un luccichio lacrimoso. «È un vero peccato che sia scomparsa tanto presto. Malattia degli Zivel Flora, dico bene?»

«Sì. La peronospora.»

L'aveva scoperto da sola, quando era stata in grado di leggere i giornali che la sorella era abituata a conservare. Ogni volta che ripensava alle foto di sua madre trasfigurata dalla malattia, sentiva che sarebbe potuta scoppiare a piangere. Ma si costringeva a non farlo: Hannaline odiava sentirla piagnucolare.

«Com'era?» chiese.

«Incantevole, cara» mormorò Tullé, flebile e mesta. Si tamponò una lacrima sulla guancia e l'affiancò. Per un breve istante, rimase muta a osservarla nello specchio. Alla fine, le lisciò la giacca e sorrise. «Il viola ti dona quanto donava a lei.»

«Grazie» ricambiò Sue. Guardando il suo riflesso, si chiese se mai sarebbe assomigliata davvero a sua madre. Avrebbe mai avuto la sua eleganza? Il suo gusto? Sarebbe mai stata incantevole quanto lei?

«Bene» riprese con rinnovata allegria la sarta. «Mi ci è voluta tutta la notte per realizzare questa giacca, sai? Un ottimo modo per impiegare il tempo in più di noi Wizja, ma le mie dita gridano!»

Dalla scrivania sopraggiunse un nuovo borbottio maligno: «Deve sempre vantarsi della sua fatica. E non ne fa una giusta.»

Sconcertata, Sue si voltò verso Areth, che aveva la bocca incurvata in un sorriso colpevole. E per la seconda volta ignorò perché Tullé sembrò non calcolarlo. Si concentrò sulla sarta che iniziò a spiegarle con fervente entusiasmo le modifiche che aveva apportato al modello per far risaltare al meglio la sua figura, come la vita più marcata o le spalline ben sostenute. Tentò di guardare nella direzione di Areth, ma non riuscì. Continuava a sparare commenti maligni, a volte rideva alle sue stesse parole. E lì Sue non poteva far a meno che sbirciare. Era strano: a tratti era indignato, in altri le guardava e sorrideva, in altri ancora si portava le mani sul viso come fosse esausto o esasperato. La sera prima le era parso un bravo ragazzo un po' troppo frettoloso: ora le sembrava solo pazzo. E non capiva come potesse dire tante cattiverie su Tullé. Quando lo sentì affermare che la sarta avesse l'intelligenza di un pesce rosso, non si trattenne più.

Si voltò, lo guardò dritto negli occhi e...

«Areth, caro, vieni. Cosa ne pensi?» disse la sarta prima che Sue potesse partire e tirare al ragazzo un sonoro schiaffo.

Areth le raggiunse cheto, come se nulla fosse successo, avvolto in un forte profumo di pulito «Le sta molto bene» asserì, guardandola da capo a piedi attraverso lo specchio. Poi, con una faccia di bronzo che interdì Sue, rivolse a Tullé un largo sorriso. «Sei magistrale.»

«Oh! Arrossisco! Sei sempre troppo gentile» gioì la donna in fucsia. Gli rifilò un buffetto sulla guancia, poi si allontanò per recuperare il metro.

«Sì, gentile» sottolineò acida Sue. Era pazzo, non c'era dubbio. «Troppo.»

«Qualcosa non va?» bisbigliò spaesato Areth.

«Tu cosa credi?» sibilò e quando spostò gli occhi dardeggianti sulla Wizja, lui scolorì. «Ti sento, sai? Ma che hai nel cervello?»

Areth non poté replicare perché Ecrù si agitò e Tullé s'impose all'improvviso: «Oh, quella donna! Non c'è pace!»

I due ragazzi capirono solo un secondo dopo, quando bussarono alla porta. La sarta agì in tutta fretta: si armò con gli strumenti del mestiere, aprì e, all'Asservito che si presentò, dichiarò: «So già quel che devo sapere. L'ho visto! Andiamo dalla rettrice». Ai due ragazzi assicurò: «Vado, cucio e torno in un vostro batter d'occhio!» Poi, scortata dal Perpetuo, uscì.

Appena furono soli, Sue udì la voce di Areth sfiorarle l'orecchio in un sussurro gelato:

«Quella giacca ti fa due fianchi enormi!»

Rossa quanto un pomodoro, Sue si voltò. Areth, impallidito all'eccesso, sollevò al petto e balbettò. «N-no, aspe...»

Non finì la frase che Sue gli tirò un potente schiaffo in pieno viso. «C-come ti permetti?!» sbottò indignata. «D-dovresti vergognarti!»

«Non sono stato io» obbiettò lui con una mano sulla guancia arrossata.

«E chi dovrebbe essere allora?»

D'un tratto, una risatina stridula riempì la stanza. «Io!»

Sue sbiancò. Quasi saltò sul posto. «Chi è?» Si guardò attorno; erano soli. Eppure, non l'aveva immaginato. Qualcuno parlottava alla sua destra, dall'alto.

«Te l'avevo detto!» strepitò la voce, ora a sinistra. «E tu che blateravi: "Non è vero che ti risponde"!» Imitava alla perfezione la voce del ragazzo. «Che dici ora, eh?»

Tediato, Areth si rivolse al vuoto, massaggiandosi la guancia. «Che ti avevo vietato di importunarla.»

«Antipatico!»

«Con... chi parli?» tentennò Sue.

A risponderle non fu Areth, bensì fu un abito, color canarino e dalla gonna pomposa. Si sfilò da solo da uno dei manichini accostati alla parete in movimento fluido, svolazzò per aria e le protese una manica attillata sotto al naso. «Toad!» proclamò entusiasta la vocetta.

«Non toccare le cose di Tullé», rimproverò Areth, agguantando l'abito fluttuante per la vita, «piccolo rompiscatole. Quante volte ti ho detto di non dirle certe cose?»

«Era uno scherzo!»

«Insultare non è uno scherzo!»

Piagnucolante, Toad lamentò: «Noioso! Voi Necromant non giocate mai!»

Sue sbigottì. Necromant?

Mentre i due proseguivano il frenetico battibecco, ripensò alla frase della rettrice, una volta abbandonata la via delle statue: «Sono certa che Mr. Mead potrà saziare ogni sua curiosità», aveva detto. L'aveva associata a un'uscita di circostanza. Ma com'è possibile che sia in Accademia? Agli Iskra Necromant non era permesso lasciare la Cerchia Secondaria.

Il fracasso di una ceramica rotta la riscosse: uno dei vasi di Tullé era appena volato dritto contro il muro.

«Voglio che mi veda!» gridava garrulo Toad.

«Lasciala in pace!» ribadiva l'altro.

Un manichino sulla destra si ritrovò catapultato a sinistra. «Voglio che mi veda!»

«No!»

E così proseguirono. Uno pretendeva e l'altro negava. Come se fosse invaso da una forza sferzante, l'ufficio di Tulle divenne il palcoscenico di un caos senza precedenti: le stoffe si srotolarono dai loro supporti, gli spilli e gli agi s'agglomerarono in vortici che sollevarono le sedie e i fogli sulla scrivania, le molte forbici saettarono per aria, conficcandosi nella parete.

Sue cacciò un grido quando la lama di una di queste le sfiorò il viso. Rabbrividì. «Fallo!»

«Ti assicuro che non è pericoloso» tentò di rassicurarla Areth con un mezzo sorriso mentre cocci di vasi rotti dai profili affilati sfrecciavano per la stanza. «Di solito è più...»

«N-non mi importa! F-fallo smettere!» berciò in preda al panico. Avrebbe voluto dirlo col tono che usava sempre sua sorella, lapidario, ma fu più simile a una supplica. Un metro da sarta non le frustò le gambe solo grazie al braccio del ragazzo che la spostò con prontezza.

«Non... tirarmi un altro schiaffo» si tutelò Areth. E, malgrado fosse in evidente disagio, assecondò la richiesta: le prese il viso e le fece chiudere gli occhi. Già turbata dal caos, dalla vicinanza e dal calore dei guanti sulla pelle, Sue si paralizzò nel momento in cui avverti le labbra del ragazzo posarsi sulle sue palpebre. Fu una pressione leggera e morbida, di pochi istanti, pervasa da pizzicore ghiacciato.

E i rumori si quietarono.

Nel buio, la voce di Areth era un sussurro: «Aprì gli occhi, ma non strofinarli prima di un paio d'ore»

«Perché?»

«Fidati: non vuoi saperlo.»

Timorosa, Sue non domandò oltre. Poi li dischiuse. Vide Areth: era teso, con un labbro imprigionato nei denti e le iridi azzurre traboccanti nervosismo. Si voltò e fu a tu per tu con il fantomatico Toad.

Avvolto da una luminescenza verdognola che rendeva la sua intera figura un insieme traslucido, Toad era un bambino con una grande testa tonda quanto un pallone posizionata su un corpicino esile alla stregua d'un giunco; gli occhi - privi di pupilla, enormi e oltremodo lucidi – erano fissi su di lei; il naso, striminzito, si muoveva a destra e sinistra in un cipiglio furbetto; la bocca era larga come quella di un rospo; le orecchie, dal padiglione ampio, tenevano a malapena a freno i ciuffi di una zazzera riccioluta. Non doveva avere più di dieci anni ed era abbigliato come un elegante paggetto d'altri tempi.

Bastò che Sue battesse le ciglia perché Toad compisse un salto sino al soffitto ed esultasse a mezz'aria: «Mi vede!»

Curiosa, lei si avvicinò d'un passo ad Areth. «Cos'è? Un fantasma?»

Ma lui non rispose.

Fu Toad a farlo, d'un colpo alle sue spalle. Finse d'appoggiarsi a quella sinistra con fare irridente e canticchiò: «Non vuole dirlo perché:" I Necromant devono restare muti muti! I lori affari da sempre son taciuti!" o come dicono. Noiosi!» Poi, portandosi due dita agli angoli della larga bocca, lo beffeggiò in una clamorosa linguaccia: «Tutte stupidaggini quelle! Te lo dico io il perché: ha paura!»

Areth obbiettò a viso porporino. «Non ho... paura.». Era chiaro che non volesse parlarne, ma, con un'aria di sfida diretta al ragazzino, si sforzò: «È un Elementino, un'entità che si presenta al posto di un'anima durante un'evocazione.»

«Perché?» domandò Sue. Il ragazzo fu muto. Tentò altro. «L'hai evocato tu?»

«Lui? Evocare me?» ridacchiò impettito il bambino e si sistemò la giacchetta da cerimonia alla stregua d'un affarista. «Figuriamoci! Sono uno importante io!» vantò.

Ma Areth corresse. «C'era già... Per mia sfortuna.»

«Ma quale sfortuna!» si levò di sottofondo la vocetta querula dell'altro. E ripresero a bisticciare con due fratelli litigiosi.

Sue trattenne un riso e si intromise solo dopo un altro paio di battute: «Perché posso sentirlo?»

«Perché è un rompiscatole («Lo sarai tu! Mi senti perché lo voglio io!» diceva Toad, prima piccato e poi tronfio). Non dargli retta. Fidati. Sa essere davvero assillante. Non ti piacerebbe averci a che fare.»

Toad batté un piede per aria con un versetto lagnoso e additò il biondo. «Non è vero! Volevo solo conoscerti, ma lui è antipatico!»

«Non posso presentarti l'intera Accademia» contestò Areth, estenuato.

L'Elementino gli si parò di fronte, a muso a muso, accigliato e con la bocca tutta storta a destra. «Solo lei! Ma non lo fai!»

«È qui da un giorno, Toad!»

«Appunto! È tantissimo!»

«Sono ventiquattro ore, cresci.»

«No! Cresci tu!»

«Cosa sarà mai per te un giorno in più?»

«È questione di... di... quella cosa lì!» si impicciò Toad.

«Principio?» sovvenne l'altro.

«Esatto! Principio! Q-qualunque cosa sia!»

«Non iniziare con i piagnistei. Sei un bambino solo d'aspetto ormai.» ribeccò severo Areth. Per ripicca, l'Elementino gli afferrò la manica della giacca grigiastra e strattonò con tanta forza che Areth barcollò in avanti. «Toad! No! Tullé questa l'ha appena ricucita! Finiscila! Non puoi sempre fare così quando ti si dice di no!»

«Volevi conoscermi?» attirò l'attenzione Sue. «Perché?»

Toad abbandonò la manica a visetto tondo raggiante. «Maya non fa altro che parlare di te! Ero curioso! E visto che lui - Areth, mentre rassettava la giacca, levò gli occhi al cielo- non si spicciava, ieri ho fatto da me» dichiarò vanesio. Subito dopo, però, si corrucciò e aggiunse: «Ma poi quel tizio nasone è entrato e non mi hai più dato retta. Uffa!»

A Sue saltò in mente una sola persona. «Intendi Mr. Cooper?» Il ragazzetto assentì. Strabuzzò gli occhi, esterrefatta. «Quindi, eri tu? L-la statuetta? Eri tu che parlavi?»

«Certo! Da quando in qua i soprammobili parlano? Andiamo, ti pare normale? È follia» E consigliò. «Se dovesse capitarti da morta, non usare oggetti d'ottone, fanno la voce brutta! Così cupa!»

«Lo terrò a mente» farfugliò Sue. «E il quadro? Eri sempre tu?»

«Quale quadro?»

«Nella Stanza dell'Ancella. Era accanto...» Non continuò; il ragazzino aveva portato la bocca tutta a sinistra e inarcato un sottile sopracciglio in un cipiglio spaesato. Tralasciò. Era evidente che non avesse idea di cosa gli stesse parlando. «È un piacere conoscerti, Toad» gli sorrise. «Vorrei stringerti la mano, ma...»

«Ah! Ci penso io!» annunciò, ridanciano.

Balzò in fondo alla stanza, caricò le gambette con una rincorsa teatrale, e, in un salto, si tuffò alla stregua di un nuotatore provetto nel petto di un contrariato Areth. Vi scomparve all'interno. Sotto gli occhi increduli di Sue, il corpo del Necromant funzionò sotto la volontà di Toad: il braccio si tese, le strinse la mano e dalle labbra uscì la vocina stridula del bambino. «Il piacere è mio!» sogghignò. «Visto? Sono bravo?»

Sue frenò un riso con una mano alle labbra. «Molto.»

«Vuoi dargli un altro schiaffo? Dai!» si chinò in avanti, porgendo la guancia illesa. «Se lo merita.»

La risata le scappò. «Perché?»

«Perché con me è sempre cattivo!» Il viso del ragazzo si contorse in una buffa smorfia da bimbo e, da come si mosse, sembrò retrocedere di almeno dieci anni. «Mai che mi faccia fare qualcosa di bello! Mi manipola! Per questo qui, dovrei star fermo come un...come una ...insomma... come qualcosa che sta fermo!»

«Finiscila, Toad!»
Nel rimprovero, la voce di Areth tornò normale. E parve di nuovo padrone di sé stesso: si condusse una mano al petto, l'allontanò in uno strappo e nel pugno serrato ebbe l'Elementino, dal broncio infantile e le braccia conserte strette al corpicino; lo sorreggeva per l'elegante colletto della giacca da paggetto. «Quante volte te l'ho ripetuto. Queste cose non si fanno». Pestifero, il bimbo lo scimmiottò e aggiunse un'irriverente pernacchia. «Va da Maya.»

«Ma io voglio...»

«Fila!»

Come se fosse stato l'ordine fastidioso di un genitore, Toad si divincolò alla pari di un figlio indisponente, si liberò e, in una nuova linguaccia, obbedì recalcitrante. Corse sulle gambette dalle ginocchia ossute verso il muro e strepitò in un urletto stridulo: «Antipatico!»

«Toad!» riprese Areth.

Ma era già sparito.

Così sospirò, si passò una mano sul viso e si rivolse a Sue, costernato. «Perdonalo. Ti garantisco che Tullé non ha sentito una sola di quelle parole. E la giacca ti sta bene, sul serio»

«Grazie» disse lei. «Anzi, per...»

«Lo schiaffo?» concluse lui. Sue assentì di conseguenza. La guancia del ragazzo era un unico segno rosso. «Hai una bella forza.»

«Mi spiace.»

Areth scrollò le spalle «Non potevi saperlo. Toad ascolta pressocché solo Maya.»

«Chi sarebbe?» domandò curiosa Sue.

«Una studentessa del Primo Dominio.»

«Ed è come te?»

Areth negò. «Sono l'unico Necromant in Accademia.» Sue non poté far a meno di chiedersi perché o come studiasse in un'Accademia che non aveva mai voluto Iskra come lui, ma non lo disse. Il ragazzo continuò. «Toad è socievole, parla a un sacco di persone, ma nessuno gli risponde. Sai, si spaventano. Maya, invece, lo fa. Ho sperato di dissuaderla, rifiutandomi di farle vedere Toad, ma non ha funzionato. Anche se non può vederlo, ma hanno comunque stretto amicizia.» E sospirò. «Però, non ti consiglio di seguire il suo esempio: di rado un Iskra non-Necromant comprende. Finisce che...»

«Per gli altri diventi un pazzo che parla nel vuoto?» finì ora Sue e lui annuì. «Per Maya è così?»

«Purtroppo.» Assottigliò le labbra amaro. Poi la guardò. «Tu stai bene? Ieri...»

Imbarazzata, Sue lo anticipò. «Iris mi ha detto ciò che è successo. Ti ringrazio. Credevo che l'Immersione fosse andata bene.»

Si sorrisero. Calò il silenzio, poi Areth riprese: «Posso... farti una domanda?»

Lei assentì.

«Mentre dormivi, hai detto una cosa strana.»

Tergiversò. «Cosa?»

«Hai parlato di un uomo morto» riferì Areth, serio. «Chi?»

Impallidita, Sue deglutì a palato arido. Quando glielo aveva detto? Perché? Non lo ricordava. Ebbe timore. Si torturò le mani dietro la schiena: cosa avrebbe dovuto rispondere? Si? No? Forse? Ma che razza di risposta sarebbe stata forse?

Per fortuna fu lo stesso Areth a risolverle l'impiccio, giacché si preoccupò di aggiungere: «Lo chiedo perché molti inesperti restano bloccati durante l'Immersione. Volevo assicurarmi che non fosse così. Se succedesse durante l'Ingresso del Debutto sarebbe...»

Sue colse l'occasione al volo e sviò. «Il cosa?»

«L'Ingresso del Debutto, la prova del Proclama» Areth lesse l'orologio alla parete. «Tra mezz'ora.»

«Cosa sarebbe?»

La porta che si spalancò su una Tullé di ritorno di gran carriera gli impedì di risponderle.

«Scusate, cari!» squillò la sarta. «La Rettrice ha un seder... No, che faccio, questo non posso dirlo, È..» E si bloccò, i grandi occhi gialli sbigottiti sul disastro di Toad. «Per tutti gli spilli, che è successo al mio ufficio?»

Sue e Areth si scambiarono un'occhiata e furono attraversati dal medesimo pensiero: spiegarlo non sarebbe stato così semplice.

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