5 - THE 𝑅𝐸𝐶𝑇𝑂𝑅'𝑆 SPEECH (p.1/2)

Nell'alloggio 113, Josh, mentre s'abbottonava i gemelli ai polsini davanti allo specchio del salotto, si domandava se quella sera sarebbe stata la solita perdita di tempo. Il discorso della rettrice era ogni anno la stessa solfa, barbosa e moralista. Lo annoiava a morte. Ma, a differenza degli anni scorsi, c'era una novità: Susanne. Gli aveva trasmesso una sensazione strana, un qualcosa che non riusciva a definire o a togliersi dalla testa. Continuava a pensarci. Forse, era solo sospetto, dato che nessun erede alla Convergenza era mai sparito tre interi anni per riapparire come se nulla fosse.

«Josh!»

Udì. Si voltò appena, quanto bastava perché potesse vedere il suo compagno di stanza: correva da una parte all'altra del salotto, con la testa bionda che s'agitava come quella di uno struzzo. Era almeno mezz'ora che continuava, per tutti i tre piani dell'alloggio.

«Allora, l'hai vista?» gli chiese.

«No», lo liquidò con un'occhiata pietosa.

Doveva essersi perso l'attimo in cui gli aveva detto a cosa si riferisse, ma non gli importava. Nemmeno gli importava di lui, in verità. Non aveva mai voluto un compagno di stanza. Gli era capitato tra capo e collo a metà del primo anno. Miss Von Weizsäcker l'aveva implorato di ospitarlo per un paio di giorni, assicurandogli che si trattasse di una sistemazione temporanea, e, grazie al barlume di bontà che di tanto in tanto gli si accollava come un parassita, Josh aveva accettato. Poi, i giorni erano diventati settimane, mesi, anni.

Chiamò il suo Asservito, DH5583, un uomo sulla trentina, in divisa scura e dall'aspetto scialbo, a eccezione delle orecchie a sventola.

«Desiderate che vi aiuti a chiudere i gemelli, Lord?» gli domandò deferente, le labbra mezze arricciate.

«Mai, lo sai» rispose Josh.

Amava i gemelli da polso, di qualunque foggia o materiale. Da quando sua madre gli aveva regalato il primo paio, di madreperla, oro massiccio e zaffiri, a due anni, ne acquistava una coppia al mese e li custodiva con estrema gelosia. Quella sera aveva scelti di sobri: circolari, d'onice e circondati da un brillantissimo pavé di diamanti.

«E sai che non amo che si tocchino le mie cose» continuò. Attraverso lo specchio, vide il suo coinquilino trafficare nella sua libreria colma di fragili prime edizioni e quasi rovesciare la sua preziosa lucerna di ceramica, antica di due secoli. Sentì i nervi a fior di pelle. «Quindi, allontana quell'essere patetico da ciò che è mio, ora»

«Subito, Lord» rispose DH5583, ligio, e andò.

Mentre si sistemava a dovere la cravatta e dava l'ultimo tocco alla chioma scura, Josh li sentì discutere.

«Mr. Mead, posso aiutarvi?» fece l'Asservito.

«Non c'è bisogno» ribatté il biodo.

«Vi prego, ditemi ciò che cercate. Me ne occuperò personalmente.»

«Che ore sono?» gli chiese.

«Un quarto alle otto, signore.»

«Un quarto?» fece eco. «Alle otto.»

«Sì.»

«Il discorso? Quand'è?»

«Tra quaranta minuti.»

«Quaranta? Solo?» E chiamò ancora, in allarme. «Josh.»

Josh l'adocchiò il ragazzo nello specchio per la seconda volta, con sufficienza. Gli faceva ribrezzo, dal viso pallido quanto la cera alla camicia e la cravatta sempre sfatte, come se fosse incapace di tenersi in ordine. Era l'Iskra più infimo tra tutti i Privilegiati delle Casate Nobili. Ora, se ne stava a quattro zampe, come un goffo animale, mentre controllava sotto a uno dei suoi bei divani di pelle rossa. Che essere patetico, pensò. «Cosa?»

«Sul serio, sai dov'è quella lettera?» insistette. «È importante.»

Josh indossò la giacca viola degli Zivel e si voltò. «Oh, quella. L'ho fatta consegnare.»

Mead sbiancò. «Scusa come?»

«Non dovevo?  Sono desolato.» Sorrise sottile e lo squadrò, occhi scuri divertiti. «E resta pure a strisciare, ti si addice.» Scoccò un'occhiata a DH5583, perché si curasse delle sue cose e uscì. Non aveva tempo da sprecare con quel patetico di Mead, quando aveva ben altro per la testa.

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«Bello, vero?» sorrise Iris. Indossava un accollato abito turchino plissettato, con una lunga gonna tutta ruches, che, assieme alla chioma corvina raccolta, la faceva sembrare una perfetta bambolina. «Ce lo invidiano persino nello Snodo, ma non c'è d'aspettarsi altro da una costruzione patrocinata da Lady Delfina Lars»

Sue, al suo fianco, tampinava la gonna di chiffon del suo, di vestito: rigorosamente viola come per ogni altro Zivel, morbido e dall'arioso scollo a "v".  Avrebbe voluto evitare visto che JC – ovvero Joanna Cesar come aveva scoperto con una domanda che aveva fatto comparire i lacrimoni negli occhi dell'Asservita – aveva passato una buona mezz'ora per renderlo perfetto, senza una piega.  Ma era agitata. Non sapeva dove guardare e come mettersi a suo agio. Era nella piazza centrale dell'Accademia e c'erano troppi studenti. Tutti abbigliati da abiti variopinti, ciarlano davanti al Teatro Accademico: il Teatro Delfina. Era alto, di marmo lattescente con un tripudio di decori fiammeggianti a contrasto. La cupola di vetro, sulla sommità, proiettava giochi di luci verso le stelle.

«Delfina Lars?» fece eco Sue. Si distrasse dall'angoscia e pensò a Josh. «È la madre di Josh?» Hannaline le aveva accennato di Lady Lars, l'aveva sempre lodata.

«Sì», rispose Iris.  Con un cenno del mento le indicò il blasone a ridosso dell'ingresso: la pantera d'argento rampante e incatenata su smalto porpora, stemma della Casata di Sangue Lars. «I Lars amano fare le cose in grande.»

Entrarono.

Il foyer era un lussuoso concentrato di mastodontici lampadari di cristallo, colonne alabastrine, intagli dalle incrostazioni dorate, vetri mosaicati e pareti alte velate da tendami violacei. La pantera argentata dei Lars era ovunque. Come gli studenti. Una fiumana di Iskra che terrorizzarono Sue. Come poteva lei starsene lì in mezzo? Cosa c'entrava con quelle persone?

Infastidì i bei boccoli creati ad arte da JC. «Credevo fossimo... meno.»

«Penso ci siano almeno settecento studenti. Ma non farti impressionare, sono le matricole e quelli del secondo anno. Fidati: dal Primo Dominio in poi falciano molte vittime» disse Iris. La prese sottobraccio, con in viso un gran sorriso. «Vieni, ho così tante persone da presentarti!» E s'addentrò frizzantina nella folla.

Per Sue non era lo stesso. Odiava essere circondata da Privilegiati che, se solo avessero saputo, l'avrebbero trattata peggio di un Asservito. Si sentiva inferiore, giudicata. Mentre Iris le presentava Lauren, un'esuberante Zivel Aeris del loro anno con lunghi bruni e grossi occhiali, avvertiva i visi puntati su di lei, gli sguardi brucianti sulla pelle. Deglutiva a vuoto ogni tre per due. Aveva la sensazione che tutti sapessero della sua inabilità e che inorridissero, che le scavassero una profonda fossa d'umiliazione. L'ansia le scalpitava in petto. Si torturava le mani, si sentiva soffocare. Era in grado solo di sfoggiare un sorriso di plastica con chiunque conoscesse Lo indossò anche quando la placcò la dirigente, Miss-Von-Isterica, in un frusciante abito di taffetà rosso dei Domen. Le domandò ancora dell'invito per il matrimonio di Hannaline con Bruce Lilar. La salvò il professor Cooper: gli bastarono poche parole e un paio di sorrisi perché l'anziana dirigente lo guardava con occhi sognanti e guance flosce color pomodoro.

Fu quando Iris si perse a parlare con un ragazzo dai capelli a spazzola di cui non afferrò il nome che Sue svicolò e uscì dal teatro a passo svelto. Aveva bisogno d'aria fresca. C'era troppo gente, una folla che non sapeva gestire. Le lacrime le punsero gli occhi, così come il vento freddo della sera. Era inadeguata, e sapeva per colpa di chi: sua sorella. Se non l'avesse rinchiusa, tenuta lontana da simili eventi per anni, forse non avrebbe avuto il fato mozzato dall'ansia. È colpa sua. Tremò. Solo sua.

«Lo spettacolo è tanto brutto, Lady Bertrán?»

Sopraggiunse una voce armoniosa alla sua destra.

«Miss» corresse di getto.

«Mi sono già espresso in merito.»

Sollevando lo sguardo, si stupì. «Josh.»

Il giovane Lord era a pochi passi da lei, in giacca viola. Il suo viso era luminoso, con un sorriso smagliante sulle labbra perfette. Alle ombre della sera, gli occhi affilati sembravano due pozzi senza fine, neri quanto il carbone.

«Di solito, il discorso della Rettrice non fa questo effetto» disse. «Qualche sbadiglio, magari.»

Sue si strinse nelle braccia. «Non è ancora iniziato.»

«E che fai qui? Oltre che prendere un accidenti» puntualizzò Josh. Ancor prima che lei potesse rispondere, si tolse la giacca e gliela mise sulle spalle. I polsini della sua camicia luccicarono alla stregua di stelle. «Sia mai che la mia collega si raffreddi. Se venisse a saperlo mio zio, non me lo perdonerebbe.»

Lei sorrise d'imbarazzo. «Intransigente?»

Emise una risatina leggera, melodiosa. «Quando vuole. E poi il viola ti dona, Bertrán.»

Sue arrossì e si avvolse nella giacca; il profumo di Josh, dolce, le cullò i sensi. «Avevi ragione. Non sono avvezza... alla mondanità.»

«Soffocante?»

«E giudicante.»

Il suo sguardo fu comprensivo. «Dopo un po' s'impara.»

Una risata amara sfuggì dalle labbra di Sue. «Credo che per me sia tardi.» Si tolse dalle spalle e porse a Josh la giacca, che lui rindossò. «È meglio che torni al mio alloggio.»

Per un attimo, lui non parlo, quasi cercasse le parole adatte. Poi disse: «Non è tardi, ma sperare che il mondo non ti giudichi è utopia. La realtà è che non puoi cambiare la sua crudeltà, puoi solo decidere se concedergli potere su di te. E affrontarlo.»

«Come?»

«A schiena dritta, un sorriso e con una dose d'ostentata sfacciataggine.»

Il sopracciglio di Sue s'inarcò. «Come la tua?»

«Sono la dimostrazione che si diventa bravi» rispose con un sorriso beffardo tanto bello che catturò Sue come una stupida. Impiegò qualche istante per accorgersi che Josh la fissava, porgendole il braccio. «Allora? Cosa decidi, Lady?»

Si riebbe rossa di vergogna, ma accettò e rientrò nel teatro assieme a Josh. Nel foyer i chiacchiericci non s'erano attenuati. E l'agitazione di Sue tornò prepotente. Si accorse appena quando il ragazzo le rivolse di nuovo parola. «Come?»

«Sei pensierosa.»

«E' solo...»

«Troppo?» chiese e lei assentì. «Concentrati su altro» consigliò.

Sue lo fece. Osservò distrattamente i presenti e ne adocchiò fugace le chiome acconciate; alcune erano tanto astruse da rasentare l'assurdo. Spostò l'attenzione altrove. Apprezzò i bei marmi e annusò il sentore agrumato che le solleticava le narici; non la quietò.

Cambiò ancora, verso destra.

La rapì la figura abbigliante dello stesso Josh. Il gremito foyer sfumò ed esisté solo lui. Iniziò a notare quanto fosse alto, la superava di quattro spanne abbondanti; quanto fosse robusto il suo braccio; quanto fosse liscia la sua pelle. E il viso? Sul ponte del naso e sulle guance era velato da una spruzzata lentiggini. Gli conferivano un aria quasi bambinesca a dispetto dei tratti marcati, e le piacque. E gli occhi? Rimase inebetita quando, intensi e cupi, si poggiarono nei suoi. Scoprì che quel mare di nero, era in realtà un castano oltremodo scuro e profondo. E il suo sorriso? Meraviglioso, con minuscole fossette, era apparso all'improvviso alla stregua d'un incantesimo. Era bianchissimo, perfetto, era...

«Susanne?» la chiamò. La sua voce, calda e suadente, era un sussurro, come se avesse timore di svegliarla da un sogno. «Funziona?» 

Cosa? Il viso le s'incendiò di punto in bianco sino alle radici dei capelli. L'ho fissato, mi sono imbambolata? Stupida! «F-funziona. Grazie» incespicò vergognosa. Si schiarì la voce e sviò: «Tua madre ha un ottimo gusto. Il Teatro è meraviglioso.»

Josh rispose con una scrollata di spalle. Il suo viso perfetto perse il sorriso. «Avrei preferito che non lo facesse.»

«Perché?» si stupì Sue.

«L'ha costruito una quindicina d'anni fa per il mio futuro nella Convergenza, in modo che il seggio rimanga nel nostro ramo della famiglia e non in quello di mio zio.»

«Tuo zio non ha figli» ricordò lei. «Rimarrebbe comunque.»

«Solo se non dovesse averne prima che il seggio passi a me. In caso contrario, tornerebbe a suo figlio alla maggiore età» chiosò mentre Sue mascherava l'imbarazzo. Era la prima volta che sentiva certe minuzie. Perché Hannaline non gliene aveva mai parlato?

«In famiglie grandi come la mia», proseguì Josh greve, occhi neri sullo stemma della sua Casata impresso sul soffitto, «costruire questi posti dovrebbe garantire il favore delle altre Casate e, con la giusta Abilità, il seggio della Convergenza.»

«Che tu non vuoi.» Quella di Sue non fu una domanda. Era implicito nel tono e nello sguardo del ragazzo.

«Si nota molto?»

«Un po'.»

E la guardò. Un bagliore sorpreso gli baluginò negli occhi. Poi distolse lo sguardo e sorrise. «Di solito lo nascondo meglio.» Sembrò incredulo.

«Non mi è parso che lo nascondessi.»

«Forse è colpa tua.»

«Mia?» chiese confusa.

«Mi spingi a confessare cose che non dovrei.» La squadrò. «Hai questo potere, Lady Bertrán?»

«Forse sono solo amichevole» farfugliò frastornata.

«Amichevole.» Josh le carezzò col pollice la mano sul suo braccio. Un fremito la scosse. «Forse non sarà così male con un'amica al tavolo»

Sue arrossì. «Forse no.»

E lui le sorrise, mozzafiato. Il pensiero di non dover affrontare in solitudine l'ingresso nella Convergenza la rincuorava. Josh la rincuorava. Le trasmetteva una sensazione strana, bella, come una potente ondata di sicurezza di cui si sarebbe potuta ubriacare.

D'un colpo, fu strattonata via da Josh e si ritrovò al fianco di Iris. Aveva un cipiglio stizzito e le sopracciglia aggrottate. «Dov'eri finita? Ti ho cercata ovunque.»

«Avevo bisogno di una boccata d'aria» rispose.

«Con lui?» Scoccò un'occhiataccia a Josh, che ricambiò.

«Ciao, Abrahams.»

«Lars.»

«Non avevo idea che vi conosceste» disse lui. «Iris non mi ha mai parlato di te, Susanne. È strano, di solito non sta mai zitta.»

Lo sguardo celeste di Iris divenne fiammeggiante e Sue fu confusa.  A cena -dopo che aveva prudentemente nascosto la lettera dalla ceralacca rossa ricevuta e ordinato a Inquy di restare nella sua camera vuota, impersonale e dalle parete di un orrendo beige – era stata la stessa Iris a dirle che con Josh era in ottimi rapporti, con legami radicati tra le loro famiglie. Addirittura, si pensava che sua nonna, Lady Heather Abrahams e il prozio di Josh, Lord Golia Lars, avessero avuto una relazione illecita, a vent'anni. Eppure, le sembrò che avessero l'aria dei felini pronti ad azzuffarsi.

Altezzosa, Iris puntellò le mani ai fianchi. «Renditi utile, Lars. Sai dov'è Areth. Voglio presentarlo a Sue e rischia di fare tardi.»

«Magari è la volta buona che lo espellono» commentò mordace. Sue non comprese il perché, ebbe l'impressione che fosse sia divertito che irritato. Smise di pensarci appena il viso di Josh tornò su di lei. «Da quanto vi conoscete?» chiese.

«Fin da piccole» balbettò.

«Immagino siate molto legate, allora.»

«Sì, noi...»

«Non sono affari tuoi, Lars» anticipò l'amica.

Josh la ignorò. «Allora perché non avete iniziato l'Accademia assieme?» domandò ancora, e Sue raggelò. «È curioso.»

«Finiscila» gli sibilò Iris.

Le labbra del ragazzo furono sfiorate da un sorriso sottile. «È una domanda innocente.»

Era vero, era una domanda innocente a cui Sue non voleva e non poteva rispondere. E non dovette farlo.

Una voce arrocchita da un'aggressiva raucedine la chiamò e li interruppe. Sue si voltò e vide che un Asservito con la pelle incartapecorita le si era affiancato silenzioso. Aveva il viso pari al muso di un topolino. Si profuse in un inchino profondo dal quale ebbe difficoltà a raddrizzarsi; Sue ne ebbe a non aiutarlo.

«La Rettrice Moukarbel desidera incontrarvi» dichiarò. «Vi prego di seguirmi.»

Sue colse la palla al balzo e si allontanò con un saluto goffo sia dai due ragazzi che dalla domanda scomoda, temendo, però, ciò che la rettrice potesse volere da lei.

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Appena l'amica fu inghiottita dalla folla al seguito del vecchio asservito, Iris si voltò corrucciata verso Josh e mugghiò in un mormorio indignato: «Maledetto di un Lars, che ti salta in testa!». L'afferrò per la manica della giacca e iniziò a trascinarlo dove la calca scemava. «Cosa diavolo stai facendo con Sue?»

«Ciò che dovresti fare tu, Abrahams» soffiò mentre la spostava per evitare lo scontro con la giunonica docente di preveggenza Wizja, Mrs. Alonzo. Scambiarono con questa un sorriso indossato ad arte e lui continuò: «La vendetta richiede che la vittima agisca».

In un dimenio, Iris si scansò e sbalordì. «Razza di metallo arrugginito! Lo stai facendo apposta!»

«Accidenti, sei una volpe» sorrise irridente.

«Ti ho già detto che è tutto risolto» lo rimbeccò severa Iris.

Gli occhi scuri di Josh rotearono verso il soffitto. «Sì, ricordo la chiamata di prima. Tutto quel buonismo mi ha dato la nausea.»

«Era la verità, non buonismo.» S'accigliò. «È la mia migliore amica. Mi ha chiesto scusa.»

«Ma che dolce», ironizzò lui, «a quando il pat-pat sulla testolina?»

Indispettita, Iris gli rifilò una decisa pacca sulla giacca viola. Sapeva che lo infastidiva se qualcuno gli rovinava l'impeccabile ordine dei vestiti. «Non usare il tuo cinico sarcasmo con me!»

Josh le si fece vicino. «Devo. La tua amica è una bugiarda.»

«Non la conosci» contestò lei.

«Ci ho parlato.»

«Per dieci minuti?»

«Venti», puntualizzò, «forse ventuno.»

Iris emise un risatina pungente. «Esilarante.»

«Sai che sono bravo a valutare le persone» disse Josh, saccente.

«Ma fammi il piacere.» Stizzita, serrò le braccia al petto. «Tu credi di esserlo.»

«Credo? Chi aveva ragione su Mildred? Su Mr. Cooper? Tuo padre? Fammi pensare; io, io, ancora io» asserì superbo, tono beffardo. «Chi avrà ragione su Susanne?» insinuò.

«Lo sai che troppi io danno alla testa?» ribatté Iris in un sorrisetto mordace. «Perché non ti fai dare una controllata? Offro io.»

«Spiritosa.» Poi ghignò perfido. «Offrila al tuo fidanzatino patetico, tanto pauroso.»

Iris gli si accostò a un palmo dal naso, gli diede una seconda pacca e gli scoccò un'occhiata che mal celava la furia nel petto. «Non chiamarlo così.»

«Perché no?»

«Perché non lo è.»

«Cosa?» Sfoderò un sorriso bellissimo quanto irritante, sfacciato. «Patetico o pauroso?»

Iris lo ignorò, irritata. Tra i due non era mai scorso buon sangue. Fece per tornare nel mezzo del foyer, ma Josh la fermò, ghermendole il polso.

«Quella ragazza ti sta mentendo, e anche male» rincarò. «Aprì gli occhi, Abrahams.»

«Non so di cosa tu stia parlando» sviò Iris. 

«Non fare la finta tonta, non ti riesce. Quando ci provi assomigli a un mastino» disse sprezzante e lei storse il naso. S'accorse solo allora d'essersi pronunciata a denti stretti, strettissimi.

«Sue non mi mente e tu devi lasciarla stare» gli sibilo. Con uno strattone si liberò dalla sua presa e fu sulla via per il centro del foyer. «Sai che non sono una persona vendicativa»

Lui la seguì, il suo riso divertito le colpì le spalle. «Al primo anno hai riempito di mordente le scarpe di Emily Bauman perché ti aveva rubato il posto a pranzo, e non saresti vendicativa?»

Iris si bloccò. «A differenza di quella sciacquetta, di Sue mi fido.»

«Ti fidi? Sul serio?» Josh era stupefatto.

«Sì», sentenziò esasperata. «È sempre stata la mia migliore amica e sincera. So che lo è» ribadì. Era convinta al mille per mille. «Io la conosco, tu no. Quindi, non vedo perché non dovrei crederle solo per lustrarti l'ego» fece inviperita. Aggrottò la fronte. «Lasciala stare, chiaro? Non è il tuo punching-ball, Josh. Se sei annoiato, trova altro da fare, pensa a te stesso.» Concluse in un tono forse troppo acido, perché Josh l'accusò. Ma non si pentì: lui non aveva alcun diritto di mettere bocca su Sue. Sorreggendo la gonna turchina, si defilò alla ricerca di Areth.

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Quella sera, la camminata di Areth Mead era particolare: con le dita frementi, l'occhio guardingo, la schiena leggermente ricurva e un dondolio accorto della testa a ogni nuovo corridoio da imboccare. Non era la sua, ma era la più utile per accingersi prudente all'alloggio 159.

In tre anni, mai avrebbe pensato che si sarebbe ritrovato a quel punto. Era nella...

Merda! Imprecò dinnanzi alla porta. E' tardi! Sta già cambiando!

Le stanze dell'Aveyard Clare Accademy erano particolari, soprattutto le loro porte: queste mutavano, si riscrivevano a seconda di chi occupava la camera; Areth rimirava la sua ogni mattina e rabbrividiva. La civetta, che da anni era appollaiata sulla porta 159, era stata inghiottita da una nebulosa grigiastra.

Ora come entro? si chiese. Perché doveva entrare.

Ma attraversare una porta in fase di mutazione era pericoloso, lo sapeva. I pochi fortunati che avevano tentato si erano ritrovati o senza un braccio, principalmente il sinistro, o senza una gamba, di solito la destra. Gli altri non erano stati fortunati. Scartò l'opzione.

Avrebbe dovuto attendere la fine del processo, perché l'unica altra opzione che conosceva non gli piaceva affatto.

Rimuginò. Se non lo faccio, sprecherei tempo e sarei spacciato. Poi chi lo sente Jer... Avrebbe innescato degli eventi a catena che non sarebbe stato in grado di fermare.

«Mr. Mead.»

Trasalì. Si girò.

Era DH5583, allarmato e affannato. «Vi ho trovato. Avete confuso i vostri guanti.» Tra le mani, stringeva dei guanti di nappa nera. «Vi ho portato quelli nuovi.»

Non è possibile. Mai li avrebbe scambiati. Quelli vecchi erano bucati e l'attenzione che poneva sui suoi guanti era maniacale... Si guardò le mani e il suo viso impallidì alle tonalità del gesso. L'Asservito aveva ragione: indossava quelli bianchicci nei quali, campeggiava un foro dai lembi sfilacciati sull'indice destro. Lo terrorizzò. Come aveva fatto a non notarlo? Come aveva potuto confondersi? Entrò in uno stato d'apnea. Svelto, li sostituì. Ed espirò.

Era stato uno schiocco. Era uscito dal suo alloggio senza notare quanto fossero rotti. Scacciò l'orribile pensiero che lo assalì. Ringraziò DH5583, composto e deferente, e, impossibilitato a far altro, si avviò verso il Teatro Delfina consapevole che l'unica possibilità per entrare in quella stanza e recuperare quella lettera sarebbe passata per Josh.

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