27 - THE 𝑃𝑅𝐼𝑁𝐶𝐸'S 𝑊𝐻𝐼𝑇𝐸 LADY
La Reggia Rossa era ancora avvolta nel sonno quando Gini, silenziosa, composta e bardata dalla sua veste bianca, entrò nelle stanze private del principe con la scatola in pelle azzurra tra le mani. Lui la aspettava, seduto alla scrivania del suo studio con le spalle alla finestra, come ogni mattina che riusciva a ricordare. Ma in questa l'aveva chiamata fin troppo presto. Infatti, lo trovò con indosso gli abiti da notte, il viso di chi si era sveglio da poco e la chioma bionda pettinata con le dita. Lo studio, illuminato da luci Krafti e antico quanto la Reggia, profumava di legni pregiati e fiori freschi. Lei l'aveva sempre amato; le infondeva calma e calore.
Il principe sollevò lo sguardo appena udì il flebile cigolio della porta. «Grazie, Gini. Mi spiace averti disturbato a quest'ora.»
Lei gli poggiò la scatola azzurra di fronte. «Perché l'avete voluta adesso?» chiese, osservandolo aprire la scatola ed estrarre un foglio alla volta. «Di solito, iniziate a occuparvi dei documenti della Convergenza quantomeno dopo l'alba.»
«Voglio liberarmi delle scartoffie prima che partano» disse, armatosi della sua penna, d'oro.
«Partiranno?» La voce assunse una vena acida. «Credevo... che avrebbero atteso lo svolgersi del Giudizio qui.»
Il principe emise una risata lieve e Gini vide gli occhi rossi posarsi su di lei. La guardarono per qualche istante, poi tornarono sui documenti. «Non fare quell'espressione dispiaciuta. Non lo sei.»
Gini sapeva che non l'aveva vista davvero, grazie al suo velo. Era un lascito del passato. Il principe le aveva detto che non era necessario e che, se avesse voluto, avrebbe potuto abbandonare quella tradizione. Ma aveva deciso di seguire le orme di chi aveva preceduta, di chi aveva intrapreso il suo stesso ruolo. Non per la sua devozione al Principato, benché fosse forte, ma perché le era utile: lei, sotto di esso, vedeva con estrema chiarezza; invece, dall'esterno, nessuno poteva anche solo scorgere quell'orrore che era il suo viso.
Ma non si stupì della sua perspicacia. La conosceva fin troppo, non aveva bisogno di sbirciare il suo volto per esser certo del suo stato d'animo.
«È per il vostro bene. Quanto è successo dimostra che di quelle persone non c'è da fidarsi. È legittimo che non le voglia in casa nos...» Ammutolì. Si morse le labbra, vergognosa. «Vostra.»
«Puoi dirlo, Gini, non mi arrabbio» affermò.
Scosse il capo, con fermezza. «Mi arrogherei un privilegio non mio.»
«Lo è. Sei con me da molti anni. È legittimo che tu veda questo posto come casa tua.»
Il principe lo disse senza smettere di leggere il documento sotto gli occhi e con tono calmo, come se fosse un'affermazione scontata, una conseguenza naturale del tempo che avevano trascorso assieme. Le si strinse il cuore. Aveva atteso così a lungo per sentire quelle parole che aveva iniziato a credere che le sue fossero solo vane illusioni e che il principe non la vedesse come lei.
Non rispose. Lanciò un'occhiata al suo incarnato rosato, alle ciocche bionde e morbide, alle ciglia scure che adombravano i suoi occhi. Poi andò alla finestra, alle spalle del principe, e guardò oltre, pensosa. L'ingresso della Reggia era deserto mentre la piazza, dove si era svolta la Commemorazione, e i palazzi circostanti stavano tornando al loro consueto aspetto. Lo Snodo sarebbe stato presto di nuovo la città impeccabile che amava.
«Perché vi interessa tanto la Convergenza?» chiese poi.
«È mio dovere farlo» rispose «Se non mi importasse del mio stesso governo, Hemera andrebbe a rotoli.»
«Vi siete sempre curato della comunicazione tra voi e loro. Non intendo questo.»
«E cosa?»
«Che non ve ne siete mai curato in questo modo. In questi anni, vi siete fatto vedere in giro a stento, partecipato a cerimonie pubbliche solo sotto la mia insistenza e negato tutto ciò che esulasse da un pranzo quando necessario.» Proseguì a denti stretti, malgrado non volesse. Fu più forte di lei. «E ora infrangete secoli di tradizioni per loro, li ospitate qui, corrette come un bimbo dal pranzo con quella...»
Il principe chiuse la scatola azzurra in un colpo secco e lei s'azzittì con un groppo in gola. «Anche se ti sono concessi limiti molto ampi, quasi quanto quelli della mia pazienza, non superarli, Gini.»
Per un lungo momento, lei fu muta e fissò l'ingresso della Reggia. Non seppe spostare lo sguardo su di lui perché scoprirlo irritato nei suoi confronti, l'avrebbe ferita più di una pugnalata. Tuttavia, la stilettava arrivò lo stesso, dritta al petto, quando intravide Hannaline Bertrán oltrepassare i cancelli, accompagnata dal nuovo membro della Convergenza.
«Avete un interesse per lei, non è vero?» Lo mormorò così flebile che il suo velo neppure ondeggiò e il tempo che lui impiegò per risponderle le fece quasi credere d'averlo solo pensato.
«Lei chi?»
«Lo sapete bene.»
Lo udì alzarsi dalla sedia. «Ti turberebbe?»
«Sì.»
«Perché?» La voce del principe era al suo fianco, vicina. Lui lo era.
Gini si voltò di scatto, stizzita. «Non è degna di voi!»
«E chi lo sarebbe?» le fece. Poi protese le mani verso di lei, le sollevò il velo e, con un filo di voce dolcissima, aggiunse, occhi negli occhi: «Tu?»
Gini deglutì. Osservando la piccola immagine del suo viso in quel mare rosso che era lo sguardo del principe, si chiese cosa pensasse lui, come la vedesse. Bella o atroce? Una confidente, una semplice consigliera del Principato, un'amica o... non osava sperare in qualcosa di più, malgrado gli anni. Sarebbe stata una stupida. Eppure...
Strinse le labbra, ma non seppe trattenersi dal domandare: «Vi fidate più di quella che di me?».
«Ha un nome, Gini. Usalo.»
«Vi fidate più di Hannaline Bertrán che di me?» ripeté.
«Forse dovrei.» Le sfiorò il mento con le dita e una scossa le attraversò il corpo. «Dato che, ieri sera alla Galleria degli Specchi, mi hai mentito.»
Il sangue le defluì dalle guance. «No, mai» si precipitò con tono supplichevole.
«Davvero?»
No. Era un'altra bugia, la seconda in anni e anni di lavoro. La prima l'aveva detta per quei due ragazzi per quella che era certa fosse una sciocchezza.
«Non mi credete?»
«Rimarrei deluso nello scoprire il contrario, molto più di una porta dimenticata aperta. E tu non mi hai mai deluso, Gini.» Gli occhi rossi scavarono nei suoi con un'intensità che la paralizzò. «Sei certa di avermi detto la verità?»
Gini annuì e la sua terza bugia la pronunciò a gola arida. «Sì.»
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Al suo risveglio, Sue si sentì viva, energica e raggiante tanto quanto la mattina precedente... finché vide che Josh non era nel letto al suo fianco e che, davanti a sé, quando si tirò a sedere, Michela rassettava con fare esperto la sua divisa dell'Accademia. Inevitabilmente. Sua sorella era in piedi ed aveva ripreso a svolgere le sue mansioni. Lei non serviva più ed era il momento che tornasse ai libri e alle lezioni. Da un lato era felice: non vedeva l'ora di dire ad Areth quello che era successo e, soprattutto, del quadro. Ma dall'altro lo detestava e le gonfiava il cuore di tristezza. Significava che avrebbe dovuto salutare Michela, per la seconda volta, e Josh. Per chissà quanto tempo.
Consumò la colazione – leggera, per non partire con un macigno sullo stomaco– in camera. Non la esaltava l'idea di scendere e trovarsi muso a muso con Bruce. L'avrebbe fatto volentieri, se avesse avuto le prove per accusarlo formalmente e cacciarlo in maniera definitiva dalla sua vita e, soprattutto, da quella di sua sorella.
Michela la aiutò a domare i capelli in subbuglio e a indossare la divisa dell'Accademia. Per quella mezz'ora che impiegò, Sue rivisse la sua quotidianità, che le sembrava distante anni luce.
E anche Inquy si conformò a quella piccola rievocazione: era irascibile; sbuffava irrequieto; la controllava ossessivo, con il capo senza volto fisso su di lei; le soffiava addosso un alito gelido a ogni suo ritardo. Persino il suo corpo, di foglie e muschi, si era inasprito, dando spazio a spunzoni lignei acuminati.
Fu all'ennesimo ringhio gracchiante, mentre Michela le stendeva con cura del trucco leggero sulle guance, che Sue, seduta davanti allo specchio, sbottò. «Si può sapere che ti prende?» Era corrucciata. «È da ieri sera che sei intrattabile».
Inquy le stormì aggressivo a un centimetro dal viso. L'aria fredda che scosse le foglie le fecero lacrimare gli occhi.
«Non fare "fruussh" a me!» rimproverò severa. «Non ho più sei anni, non funzionano. E credevo che avessimo instaurato un bel rapporto, noi due. Se c'è qualcosa che non va, invece d'ingurgitare tutti i Sali in bagno, dimmelo. Cioè», farfugliò, «fammelo capire. I tuoi versi non li so decifrare come mia sorella.»
Inquy chinò il capo con un sibilo indisposto e Sue intuì.
«È a causa sua? Che ti ha fatto?»
L'emanazione si rimpicciolì per essere alla sua altezza, divise le foglie sul suo viso in un taglio irregolare fino a formare una larga bocca e imitò un potente urlo. Poi, con un dito erbaceo, si indicò, mimò un grande "no" davanti a sé e infine puntò lei.
«Ti ha sgridato perché non eri da me ma da lei?»
Inquy annuì.
Sue sbuffò, occhi al soffitto. «Ma certo. È la solita. Che le importa se qualcuno è in pensiero è per lei. Le interessa solo che tu faccia il tuo lavoro da carceriere.» A quell'ultima parola, una nuova alitata gelida le intirizzì la pelle. Aggrottò le sopracciglia. «Ehi, non prendertela con me. È ciò che lei vuole che tu faccia. Sei troppo...»
Prima ancora che potesse finire, Inquy, indispettito, stormì rumoroso, si rimpicciolì ancora e ancora e scomparve dalla sua vista in un battito di ciglia.
«Suscettibile!» Incrociò le braccia al petto. «E dire che le Emanazioni non dovrebbero essere così...»
«Umane?» concluse per lei Michela, al suo fianco, con ancora il pennello del trucco tra le dita.
«Sì.»
«È merito di vostra sorella» disse con sicurezza. «Ve lo dissi già una volta: Lady Bertrán è molto abile. Una semplice Emanazione, se creata da lei, è più umana di quanto si possa pensare.»
«Possiamo non parlare di lei? Credo di averne abbastanza» disse indignata, a labbra arricciate. Come poteva non esserlo? Era lì da giorni, preoccupata per la sua vita, per la quale aveva corso a destra e a manca, scomodando persino il principe... e Hannaline le aveva già fatto sapere che quella mattina non avrebbe avuto tempo per salutarla. È incredibile che io sia riuscita a stare nella stessa stanza con lei solo quando era incosciente!
Si concentrò su Michela, o l'irritazione le avrebbe inacidito lo stomaco. «Non puoi venire con me? Ti presenterei Joanna. È un po' goffa, ma simpatica.»
La donna terminò il suo lavoro, ravvivandole il colorito delle guance. «Mi spiace, Miss. Mi aspetta...»
«Mia sorella, sì.» Sospirò. Imprigionò un labbro tra i denti e le riaffiorò l'immagine di Bruce davanti agli occhi, come un foriero di sventura. Era arrabbiata, certo, ma aveva la sensazione che Hannaline si fosse cacciata in guai più grandi dei suoi. «Prenditi cura di lei.»
Michela sorrise dolce. «Come sempre, Miss.»
Si strinsero in un ultimo forte abbraccio, poi il momento di ripartire per l'Accademia arrivò assieme a un bussata alla porta.
Michela andò ad aprire e il viso di Sue si illuminò con un riso ampio da orecchio a orecchio quando vide fare capolino Josh, bellissimo, nell'uniforme perfetta della Convergenza.
Sorrideva. «Buongiorno.»
Sue corse da lui quasi per inerzia, come se le gambe avessero deciso di muoversi per conto proprio, con una gioia che la sorprese. Si sentì al pari di una bimba vestita a studentessa che raggiungeva un ragazzo troppo grande e surreale perché fosse lì per lei.
Trovò subito le sue mani e un'ondata di felicità la pervase. «Non... dovresti essere con mia sorella?» chiese appena Michela, con l'occhio di chi sa e non approva, li lasciò soli.
Lui annuì. «Ma non potevo non salutarti. Per cinque minuti, può attendere.»
«Te li farà scontare, credimi.»
Josh fece spallucce. «Al momento, non mi importa di lei, ma di te» disse a voce bassa. Giocò con le sue dita. «Dormito bene?»
«Meravigliosamente» sorrise Sue. Poi tirò le labbra in una linea sottile. «È adesso che non mi piace.»
«Ci vedremo presto» la rincuorò.
«Come lo sai?»
«Dovrò passare in Accademia a recuperare le mie cose prima andare alla Residenza Balthasar.»
Fu speranzosa. «Allora vieni con me.»
Ma lui scosse il capo. «La Convergenza ha i suoi ritmi e le sue procedure. Non posso lasciare la Reggia da solo, purtroppo.»
Sue si morse l'interno della guancia, mesta. «Capisco.»
«E c'è un altro motivo per cui so che ci rivedremo presto» soggiunse lui.
«Quale?»
Josh le lasciò le mani per poterle accarezzarle il viso e attirarla a sé. «Non ho alcuna voglia di stare lontano da te.»
Sue gli credette per un semplice motivo: ogni singola parte di sé urlava quelle identiche parole. Poggiò la fronte al suo petto. «Starai bene?»
«Troverò il modo.»
Alzò gli occhi nei suoi. Quasi ci si perse. «Ma se dovesse ricapitarti ciò che è accaduto ieri sera? O se Bruce...» Solo il suo nome le dava l'urticaria. «Quell'uomo ha già cercato di avere contatti con te.»
Josh rispose sfoderando uno dei suoi sorrisi. «Susanne, se c'è una cosa che so fare davvero bene è pensare a me stesso.» La voce, d'un tratto, s'incupì. «Piuttosto, sta attenta tu. Guardati da Mr. Cooper. È in combutta con Bruce e ricorda che qualcuno ha voluto farti passare un brutto quarto d'ora nell'Ingresso del Debutto.»
«Credi sia stato lui?»
«Non è da escludere.»
«Perché?» Era confusa. Il professor Cooper le era sempre sembrato una brava persona, cordiale. La prima sera l'aveva persino saltava dal Miss-Von-Isterica ei suoi assalti per l'invito del matrimonio di Han. «Cosa può volere da me e da te?»
E si disse che le domande non si fermavano a quelle. Erano troppe. Cosa significava quel quadro dipinto da quel tale, Eamon? Cosa c'entrava con loro? Perché lo vedevano solo loro due? Aveva una qualche correlazione con ciò che Dante aveva deciso di cancellare? Sentiva di abbandonare la Reggia con più interrogativi di quando era arrivata.
«Lo scopriremo. Ma fino ad allora tu stacci alla larga. Promesso?»
Ora fu lei ad assentire. «Promesso.»
«E se avrai bisogno di me», afferrò la catenina al suo collo, «io ti troverò. Ovunque tu sia.»
Sue sorrise. «Ci conto.»
Josh abbassò il viso sul suo e la baciò. La mente di Sue si svuotò e, per quel momento che desiderò non finire mai, il mondo scomparve. Fu consapevole solo delle mani di lui, una sulla nuca con le dita tra i suoi capelli e una sulla schiena che la tirava a sé, del calore delle sue labbra e del fuoco che le incendiva il petto. Si separò da lui controvoglia al soffio gelido di Inquy, apparso al suo fianco in un crepito di foglie e rami. Parve fissarla attraverso le piccole zone d'ombra dei muschi.
«Sì, ora andiamo» sibilò, contrariata, all'Emanazione. «Rompiscatole.»
Josh rise lieve, fece scivolare la mano nella sua e l'accompagnò all'ingresso, dove dovette riassumere un comportamento consono tra due Casate di Sangue: la lasciò e s'allontanò di un paio di passi. Sue sentì, per quanto le sembrasse surreale, che già quella piccola distanza le provocava un dolore fisico e intenso.
Ad attenderla ci fu Remus, che portò con sé i saluti dell'intera Convergenza con il suo solito atteggiamento quieto. Gli disse ciò che aveva detto a Michela: di prendersi cura di sua sorella. Il Wizja le rispose con un semplice cenno del capo e lei gli sorrise. Sapere Remus accanto a Han la rassicurò: non aveva le prove per accusare Bruce, ma aveva allertato lui dei suoi sospetti e ciò bastava. Si fidava.
Lanciò un'ultima occhiata a Josh. Volle imprimersi nelle mente i suoi occhi, il suo sorriso. Poi uscì, con una stretta al cuore, scortata da Inquy.
Ma, prima ancora di focalizzarsi sull'auto che l'avrebbe ricondotta in Accademia, il suo sguardo si bloccò sulla figura davanti alla portiera. Bianca come la neve, Gini sembrava aspettarla e, quando la raggiunse con la confusione sul volto, dovette dirle: «La ringrazio per l'altra sera. Non volevamo fare nulla di male».
E la donna in bianco fece l'unica cosa che Sue non immaginava. Le parlò, con voce ovattata.
«Come sai il nome di Jalin?» chiese a bruciapelo.
Sorpresa, Sue fissò laddove dovevano essere i suoi occhi, nel bianco. «Cosa?»
«Jalin» disse granitica Gini. E, lenta, ripeté: «Come sai quel nome?».
Sue deglutì e tacque. Per qualche ragione, ebbe timore ad aprir bocca. Forse fu per il tono della donna, che suggeriva una buona dose d'ira. Se non avesse dovuto saperlo? Se non avesse dovuto conoscerla? Dopotutto, il nome di Dante non era il solo che era sparito dai libri di storia. Prima dell'Immersione, non aveva mai sentito il nome di Jalin.
«Perché me lo chiede?» arrischiò.
Gini la ignorò, la voce affilata come una lama. «Ho mentito al nostro principe per voi due. Quindi vorrei una risposta. Come sai quel nome?»
«Tramite l'Imm...» si corresse. «Nei busti dell'Accademia.»
Gini non aggiunse altro. Le aprì la portiera e la invitò a salire.
Frastornata, Sue seppe montare in auto, seguita da Inquy. Poi, chiusa la portiera, partì.
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Appena la macchina della giovane Bertrán svanì oltre i cancelli, Gini rientrò a passo spedito nella Reggia e si diresse senza indugio di nuovo nelle studio del Principe, che era ancora lì, con la sua scatola azzurra e i suoi documenti sotto il naso e la penna d'oro tra le lunga dita fini. Come ore prima, sollevò gli occhi rossi su di lei appena spalancò la porta.
«Avevate ragione» gli disse d'un fiato. Non lo fece parlare. Aveva il cuore pesante come il piombo. «Vi ho mentito. Sia ieri sera, alla Galleria, che qui.»
S'aspettò che il volto del principe si velasse di qualcosa che non era sicura di poter sopportare: cupa delusione, per causa sua. Ma non accadde. Fu avvolto da un'inattesa quiete: non sembrò stupito o arrabbiato, non le scoccò occhiate di rimprovero. Ma Gini non tardò a capire: la delusione del principe non era inesistente, al contrario, c'era gia stata, quella mattina, dopo che aveva detto quel "sì". E lei era stata tanto sciocca da pensare che lui avesse creduto alle sue bugie.
«Perché l'avresti fatto?» le chiese.
«Quando quella ragazza, Susanne Bertrán, vi cercava ha detto una cosa che mi ha confusa.» balbettò. «E temevo che se non vi avessi mentito sulla porta della Galleria, l'avreste allontanata dalla Reggia prima che potessi avere la possibilità di parlarle.»
«L'hai avuta?»
«Poco fa.»
«E cosa avrebbe detto?»
Gini si avvicinò alla scrivania a passo lento, torturandosi le mani guantate di bianco. La veste frusciò nel silenzio. Non era certa che al principe sarebbe piaciuta la risposta. «Mi ha chiamata in un modo strano, Altezza, con un nome che non credevo qualcuno conoscesse.»
I suoi occhi la fissavano spaesati. «Ovvero?»
Tentennò, ma, alla fine, lo disse a voce bassa. Fu poco più di un sussurro, come se stesse confessando un segreto indicibile.
L'attimo dopo, la penna d'oro crollò a terra.
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Piccolo spazio "autore"
Lo scrivo anche qui per mi legge,
ma non segue il profilo.
È mia intenzione cercare di pubblicare
un capitolo a settimana,
tra il venerdì e, come in questo caso,
la domenica.
Mi dileguo, ci si sente nei commenti!
Xoxo, Morgan 💚
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