26 - MR. 𝑀𝐸𝐴𝐷 GOES TO...
Alle prime luci dell'alba, l'urlo stridulo di Toad svegliò Areth di soprassalto. Per poco non rotolò giù dal letto. «Ma che ti salta in testa?»
L'Elementino era al suo fianco, sulla sponda, che lo guardava coi grossi occhioni lucidi e la bocca larga contorta dalla paura. «C-ci s-ono i...» Balbettava.
Areth si tirò a sedere quasi a peso morto. Aveva dormito a malapena due ore, tra pensieri, incubi e lo stesso Toad, che aveva passato la notte a giocare. S' alzò e solo grazie ai tre anni d'esperienza evitò di pestare i tappi delle penne sparsi come mine sul pavimento. «I cosa?»
Toad gli svolazzò davanti alla faccia e strillò: «I Ladri!».
«Qui ci siamo solo noi due.» Si passò le mani sul viso assonnato. «Purtroppo.»
«Ci sono!» ribadì il bimbo in un piagnucolio. Con le manine verdognole, gli stritolò la vecchia maglia bucherellata che fungeva da pigiama. «Credimi!»
«Toad non...» Un frastuono dal piano di sotto gli tolse le parole di bocca.
«Visto?» esclamò tutto tremolante.
Areth sollevò gli occhi al soffitto. «Non sono ladri. Magari lo fossero.»
Sospirò, infilò i guanti e scese. Non si sorprese quando vide Chandra, col suo Catalizzatore al braccio, e Simon, entrambi vestiti di nero. Erano nel mezzo del soggiorno, ridotto a un insieme caotico di mobili svuotati, libri disseminati e ninnoli e cianfrusaglie ammucchiati. La giornata, si disse, iniziava bene.
«Che state facendo?»
Chandra si girò e gli sorrise. «'Giorno, fratellino. Ti abbiamo svegliato?»
L'Elementino gli s'aggrappò al braccio, spaurito. «È tua sorella?»
«Per così dire» rispose Areth, senza sapere con precisione a chi volesse rivolgersi, se a Toad o a Chandra. «Che ci fate qui?»
«Simon voleva un caffè.» Il ragazzo, che continuava a frugare in giro con le braccia gonfie di muscoli, emise una versaccio che sapeva d'ironia, un misto tra una risata e un mugugno. «E io volevo fare un po' di compere. Guarda!» Chandra scacciò la lucida chioma corvina sulle spalle, scoprendo le orecchie, dove brillavano due sfarzosi tondi di zaffiri. «Luccicano in un modo! Simon li ha trovati nella camera del Lord.» Lo Zivel fece un secondo grugnito, ora d'assenso, senza guardarli. «Ce ne sono a decine!»
Areth allibì. «Sei peggio di una gazza ladra, Cha.»
«Non è colpa mia se lascia gli orecchini in bella vista.»
«Sono dei gemelli da polso. Si usano per le camicie» corresse lui. «Puoi rimetterli a posto? Vorrei evitare che a Josh venga la malsana idea di finire ciò che ha iniziato sul mio collo.»
Chandra emise una risatina nasale. «Scordatelo, fratellino. Questi gingilli da noi non ci sono. Varranno una fortuna e ti ricordo che abbiamo il primo piano da rifare.»
Con Toad appresso, Areth camminò nel caos. Trovò la lucerna che aveva preso in prestito per aiutare Sue; si frantumò in mille pezzi appena provò a raccoglierla. Bloccò un'imprecazione tra le labbra. «Non credo che sia un pretesto valido, sai?»
«Perché?»
«Non è roba tua.»
«Quindi?»
«È ruba...» Si bloccò all'occhiata eloquente della sorella. Negli anni aveva rubato troppo anche lui per poterle fare la morale. «Lasciamo perdere.»
«Perché dovreste rifare il primo piano?» s'intromise Simon. Il disgusto, già ben impresso sul suo viso, raddoppiò quando lo guardò. Doveva avere un aspetto orribile, dai capelli sparati agli occhi pesti sul volto sciupato dall'insonnia.
Areth temporeggiò. Non amava ripensare a quanto era accaduto al primo piano di casa loro. Vide Chandra, invece, raggiungere Simon in pochi passi flessuosi e girargli attorno sinuosa come una gatta. Quando l'artiglio d'osso del Catalizzatore gli sfiorò la pelle dell'addome, sotto agli abiti scuri, lui sbiancò.
«Cosa mi dai se te le dico, Simon?»
«Ritiro la domanda» sputò di getto lo Zivel. Fu percorso da un brivido che fece intirizzire lui e ridere Chandra e sparì in fretta e furia su per le scale con passo pesante, tacciando in un borbottio dietro l'altro la ragazza di pazzia.
«Non sei divertente» rimproverò Areth. «Gli fai paura.»
«Fa paura a me!»
La vocina di Toad, strettosi ancor di più al suo braccio, destò la curiosità di Chandra, che subito si mosse verso di lui a occhi attenti. «Ma come sei carino.» Poi sollevò lo sguardo sul fratello. «Perché non mi hai parlato di questo qui? Sai quante cose si possono fare con un Elementino.»
«Perché so come sei fatta e lui è un bambino.» Areth controllò il Riduttore scassato al polso e lo scoprì spento. Gli bastarono poche parole pronunciate a dovere per far sparire l'Elementino oltre la parete.
«È un morto» osservò Chandra, aspra. «E non mi pare che tu ti faccia scrupoli nel manipolarlo.»
«L'ho fatto per una buona ragione. Puoi scordartelo che lasci Toad alla tua mercé» Ignorò il profondo sbuffo della sorella. «Piuttosto, mi dici perché avete messo a soqquadro l'alloggio?»
Chandra tergiversò. Adocchiò diversi libri ancora nella libreria. Poi ne prese uno, lo sfogliò e infine se lo gettò alle spalle come se fosse carta straccia. «Bruce vuole più informazioni sul tuo amico, John.»
«Josh.»
«Quello.»
«Non è mio amico» corresse. Lei liquidò l'intervento con un cenno della mano. «Sentì, cerca pure quello che vuoi, ma fa' meno chiasso. Vorrei dormire.»
«Non puoi» dichiarò, appropriandosi di un altro libro, che fece la fine del precedente. «Devi aiutarmi.»
«Non mi interessano i trastulli di Bruce.»
«Nemmeno a me, ma ci torna utile. Lo sai.»
Areth scosse il capo. «Torna utile a te. Non sono qui per quello.»
«E allora? Io ho le braccia stanche e tu devi farti passare quel muso. È così lungo che sfonda il pavimento.» D'un tratto, ridusse gli occhi a due fessure. «Non dirmi che è ancora per la tua graziosa lucciola?»
Areth fece una smorfia, di fastidio e tristezza. Sì, lo era. Continuava a pensare a Iris, ai tre anni che avevano condiviso e a come l'avesse fatta soffrire. C'erano momenti in cui si ripeteva che non aveva colpa, che era stata Chandra a causarle tutto quel dolore. Ma duravano poco perché, come una maledizione, la sua mente ripescava l'immagine di Sue e gli ricordava cosa davvero avesse fatto male a Iris.
Ma io non ho interesse per lei, si diceva. Quello di Iris è un sospetto infondato. Vorrei solo vederla, parlarle... ma è normale. È mia amica. È giusto che lo voglia, no? Non c'è altro.
Qualcosa gli punzecchiò la guancia. Era il dito di Chandra che gli si era avvicinata, muso a muso. «È passato un giorno. Intero! Va' avanti.»
Accigliato, Areth la scacciò e si sedette sul divano di pelle rossa. «Pensa a Bruce.»
Lei sbuffò. «Sentimentale.»
«Apatica.»
Sorrise. «Grazie.»
«Non voleva essere un complimento, Cha» ridacchiò. «Sei una squinternata.»
Chandra rispose con una linguaccia che Areth vide a stento perché tutto si fece nero. Un'oscurità totale lo avvolse.
«Divertente.» Cercò la sorella accanto a sé, sentì il suo respiro sul collo. «Leva sta' roba.»
«Il Richiamo della Prima Notte non è della roba. È un dono che pochi Necromant possono vantare. Maximilian, Scarlett e Cristine Abbott si vergognerebbero di te.» La voce di Chandra gli parve vicina, ma quando le tenebre si dissiparono, era già tornata alla libreria.
«E anche di te» osservò. «Solo perché la tua Abilità ti permette di usarlo, non vuol dire che tu debba farlo così alla leggera.»
La sorella mugugnò, lamentosa: «È l'unica cosa che posso fare in questo schifo di posto. Sembra d'essere senza Abilità. È un vero mortorio!».
Areth capiva come si sentiva. Il primo anno in Accademia l'aveva vissuto come se gli fossero state legate le mani. «Che ti aspettavi? Questo posto non è pensato perché quelli come noi ci mettano piede.»
Dalla libreria, Chandra imprecò in Izmala e gettò l'ennesimo libro nel mucchio.
Areth s'incuriosì al nome che pronunciò tra gli insulti. «Scusa, cosa c'entrerebbero gli Haines?»
«Dicono cose senza senso su di noi. O meglio, sui tre fratelli Abbott e noi.»
«Cioè?»
Chandra si fiondò sulle sue gambe. «Quando ero allo Snodo, prima della Commemorazione, ho fatto un salto dove alloggiava la Convergenza, in quella residenza che dà sulla piazza, per Bruce. E sono andata nella stanza di Moreau.»
Lui rise sotto i baffi. «Sotto invito, immagino.»
Lei rispose sfoderando il dito medio. «Dicevo, ho trovato quel sedere pesante di Portia che prendeva il tè con Ernest e la sua barba da caprone. Chissà se glielo hanno mai detto che sembra un...»
«Cha, arriva al punto.»
«Parlavano di una certa Gilia, Gania.»
Areth la guardò attento. «Galia?»
«Esatto. E del Giudizio.» Con l'artiglio d'osso giocherellò con uno dei buchi della maglia del fratello. «Portia ha iniziato un barbosissimo monologo su come, a suo dire, questa Galia non sarebbe morta col Giudizio, ma per colpa di un Necromant. E che quindi la sua famiglia è stata infangata ingiustamente, che noi siamo il male, che dovremmo sparire dal Principato, eccetera eccetera. Una lagna» cantilenò. E sospirò. «Immagino che per gente come loro sia più semplice condannare noi, piuttosto che ammettere di avere un traditore nel nido.»
Areth fu perplesso. In parte, Portia non sbagliava: Galia era stata incastrata. Però, l'aveva vista lui stesso morire al Giudizio. «Ha detto come sarebbe stata uccisa?»
«Forse. Non lo so» borbottò. «Portia iniziava a sembrarmi succulenta. Sono andata a mangiare.»
Areth impallidì. «Dimmi che gli hai rubato il pranzo e che non hai toccato nessun Asservito.»
«Certo, per chi mi hai preso?» Chandra si appoggiò alla sua spalla. «Ho approfittato del servizio in camera.»
«Davvero?»
«No», sorrise tagliente, «ma puoi far finta che abbia detto sì, se ti fa star meglio. Il punto è che Portia si è detta scandalizzata dalla presenza di uno di noi alla preziosa Accademia.»
«Forse perché, se ci fosse una come te, si ritroverebbe un parente nello stufato» mormorò assorto. Si chiedeva come Portia avesse legato Galia ai Necromant. Nessuno l'avrebbe fatto, forse nemmeno per scagionarsi da un'accusa di tradimento. Ricordò l'Immersione e il viso della donna che piangeva sangue. Era morta lì, non c'era ombra di dubbio. A meno che... Impallidì. La risposta gli balzò agli occhi come un'insegna al neon. Come aveva fatto a non pensarci prima?
«Fratellino...»
«Mmh?» Trasalì quando guardò Chandra. Lo stava trapassando da parte a parte con una delle sue occhiatacce taglienti.
«Hai qualcosa da ridire sul mio stufato, per caso?»
Areth farfugliò. «Ecco...»
«Perché ti piace», sibilò, velenosa e sdegnata, «dico bene?»
Tese le labbra in un sorriso nervoso. Non aveva mai inghiottito un solo boccone della cucina di Chandra. Mai. Conosceva la sorella troppo bene per fidarsi del piatto che gli metteva sotto il naso. Scostò da sé la ragazza e si tirò in piedi. «Devo andare. E grazie per la dritta.»
«Andare dove?» La sua stizza divenne confusione. «Quale dritta?
Ma Areth non rispose. Aveva già altro per la testa. «Se dovessi avere fame, c'è della frutta. Non toccare DH. Ti voglio bene.» Le scoccò un bacio sulla tempia e si precipitò fuori dall'alloggio come una scheggia, ignorando i tentativi di fermarlo della sorella.
Fuori dai dormitori, fu assalito dalla brezza pungente dell'autunno in arrivo e dall'immagine dell'Accademia semideserta. Tra le vie e i cortili, vide solo dei Mangiamosche-Boccalarga, quali in forma di cani dai musi enormi o lumaconi diafani, che iniziavano a dissolversi nel terreno dopo la nottata di pulizia, Asserviti già affaccendati e un paio di professori mattinieri.
Si mosse con circospezione, malgrado sapesse che era non necessario. Uno come lui, un Necromant, era un'ombra. Nessuno lo notava e chi lo faceva, di solito per puro errore, preferiva dimenticarsene.
Anche per questo, giunse in tutta tranquillità ai busti nel giardino del Teatro Delfina. In particolare, davanti a quello di Marcus. Il marmo bianco accentuava l'aspetto austero e inclemente. Esitò. Non saltava di gioia nel legarsi una seconda volta a quell'uomo. Era irruento, a tratti caotico con le sue stesse emozioni ed era stata una sfida tenerlo a bada nella prima Immersione. Ma sarebbe stata una questione di pochi minuti: il tempo di trovare Clara e parlarle.
Inspirò a fondo.
Gli bastò sfiorare il marmo con la mano guantata per essere risucchiato dall'ormai famigliare sensazione trascinante dell'Immersione.
Il nero l'avvolse e, per un lungo attimo, non ci fu alcun rumore. Poi un forte tramestio gli scoppiò nelle orecchie. Un urlo. Due. Qualcuno cercava di parlare a Marcus. Tutto tremò.
Nel buio, udì due voci bisticcianti diventare sempre più chiare.
«Veloce», incalzava severa la prima, «vai a prendere dell'acqua.»
Uno scossone.
«Perché io?» ribolliva la seconda. «È colpa della tua stupida lezione se sta così. Vacci tu.»
Un'altra scossa.
«Muoviti, Aine!»
Lì, sentì uno sbuffo, dei passi, una porta che s'apriva per richiudersi in un tonfo.
Quando Areth fu capace di aprire gli occhi di Marcus, si ritrovò davanti i grandi occhi verdi di una ragazza esile e minuta. Indossava un lungo abito verde scuro di crepé, accollato sino a sfiorare il mento, e la chioma nera quanto il carbone era raccolta in un severo intreccio sulla nuca.
«Per Hemera, grazie.» La voce era un miscuglio d'angoscia e sollievo. «Ti senti bene?»
Sopraffatto e a bocca intorpidita, Areth fu muto. Si guardò attorno. Era a terra, steso accanto a una sedia ribaltata. Il suo arrivo doveva aver provocato in qualche modo la caduta di Marcus. Si alzò a fatica, quasi il corpo gli pesasse quanto un macigno, e la ragazza lo aiutò finché non poté reggersi a una fastosa scrivania di betulla. Si trovava in uno studio arioso, con un camino acceso sul fondo. Le pareti erano ricoperte da carta da parati damascate e il pavimento di marmo lucido rifletteva la luce del tramonto che filtrava dalle finestre.
La ragazza dai grandi occhi verdi rientrò nella sua visuale e si rese conto che aveva ripreso a parlargli. «Stai bene?» chiese ancora. Gli stringeva una mano, dita sottili e delicate serrate tra le sue, con un'apprensione che gli colpì il cuore. O forse quello di Marcus. Quando non le rispose, lo scosse appena per una spalla. «Papà, ti prego.»
Papà? La fissò, stupito. È la figlia di Marcus?
«Stai bene?»
Areth non articolò parola, ancora frastornato. Annuì, subito seguito da una voce alla sua destra che trillò: «Morissa, lascia respirare papà! Non vedi che lo soffochi?».
Areth si voltò... e ora fu il suo cuore ad avere un tuffo. La gola inaridì di colpo e fu incredulo. Al suo fianco, a porgergli un bicchiere d'acqua con un sorriso stupendo che gli scavò nel petto, c'era Sue, in un grazioso abito da giorno bianco come la neve, tutto pizzi e merletti. Gli sembrò meravigliosa, pari a una visione. Impiegò un lungo attimo per realizzare che non poteva trattarsi della Susanne che conosceva. Eppure... Era il suo ritratto, erano identiche. Aveva il suo stesso sguardo, scuro e dolce, il suo stesso sorriso. Provò, ma non seppe toglierle gli occhi di dosso. Afferrò il bicchiere senza guardare.
La ragazza sfoggiò per lui un sorriso ancora più luminoso che gli diede alla testa. Si riscosse quando la vide rivolgersi alla sorella con un broncio da bimba per dirle: «Certo che proprio non sai come si tratta un uomo, Morissa. Scommetto che quello là sta molto meglio ora che è morto... piuttosto che in casa con te».
Il tono fu così altezzoso e arrogante che colpì Areth più forte di una cinquina in pieno viso. Oltre all'aspetto, quella ragazza non condivideva alcunché con la sua Susanne.
Mia, ma cosa vado a pensare. Si concentrò. Era lì solo per parlare con Clara.
Morissa avvampò di furia. «Aine!»
«Non fare quella faccia. È vero. Lo sappiamo tutti.»
«Non hai dei ricami da finire? Vacci.» L'altra le rispose con una linguaccia. «Noi stiamo lavorando.»
«Lavorando» la scimmiottò Aine con fare civettuolo. «Come se fossi brava quanto papà.» Si stringe al braccio del padre. «Non vedi che si affatica con te? Guarda cos'è successo!»
«Sto bene, Aine. Fa come dice tua sorella.» farfugliò Areth. Un po' perché sentiva la bocca ancora intorpidita, come se Marcus non parlasse da anni; dall'altra perché ogni volta che guardava Aine, vedeva Sue. Averla vicino lo metteva a disagio, lo deconcentrava.
«Non devi difenderla» brontolò lei, mielosa. «Sei svenuto, papà. Non posso lasciarti solo con lei! Non lo vedi! Finirà con l'ucciderti!»
Morissa soffiò un sospiro pesante quanto tediato. «Cosa mi tocca sentire.»
«Va' pure, Aine» ribadì Areth, dissimulando una sicurezza che non aveva. Non sapeva come sarebbe dovuto intervenire un padre o come avrebbe reagito Marcus. Gli importava solo allontanare la copia di Sue da sé.
Solo allora la ragazza indietreggiò. «Come vuoi, papà.»
«E per Hemera, cambiati» soggiunse Morissa con un'occhiataccia all'abito tutto un pizzo. «Non sei all'ennesima merenda dei Lars, porti il lutto.»
«Perché dovrei? Il morto era tuo marito, non il mio. Non mi vestirò come un cadavere per un motivo tanto futile. Chiedilo a Cameron» squittì a mento alto. Poi scoccò un bacio sulla guancia del padre con un piccolo saltello e infilò la porta in uno sbuffo della gonna voluminosa.
Areth la seguì con lo sguardo, domandandosi se Cameron fosse loro fratello, e quando si voltò, scoprì quello smeraldino di Morissa su di sé. Aveva un'aria delusa e stanca.
«Cresce con la lingua più velenosa di quella di una vipera e il rispetto per il prossimo di un ingrato, ma mai che tu le dica qualcosa» fece a denti stretti. «Esistono solo le sue moine, giusto? Ora ti imbamboli pure.»
Imbarazzato, Areth sperò che Marcus non arrossisse. Come poteva spiegarle che non era colpa di Marcus, ma sua, se si era bloccato a fissare Aine?
Non fece in tempo ad aprir bocca Morissa proseguì a bruciapelo. «Continueremo le lezioni domattina.» La voce le s'incrinò, occhi mesti fissi sui fogli che raccattò dalla scrivania. «Se starai meglio o se riterrai la mia istruzione per la Convergenza interessante quanto una smorfiosa.» E con ciò, si defilò a passo svelto.
Areth sentì Marcus scalpitargli in petto, forse per inseguire la figlia. Ma non glielo permise. Avrebbero avuto modo per risolvere le scaramucce familiari, lui doveva parlare con Clara.
Si mise in moto. Cercò di non perdersi in quella che gli parve una villa fin troppo grande e di rimanere focalizzato, gli saltò alla mente ancora Sue: si chiese come si trovasse a vivere quasi da sola in un posto simile.
Infilò alla rinfusa gli abiti adatti al viaggio, fece preparare la carrozza Krafti al primo Asservito che incrociò e non si curò di chi tentò di fermarlo, come la moglie di Marcus, Hellen. Era una donna bellissima, dai tratti morbidi resi ancor più dolci dalle gravidanze, gli occhi scuri come quelli di Aine e la chioma corvina di Morissa.
«Ci vorranno dei giorni per arrivare da Clara» cercò di dissuaderlo. «E le ragazze mi hanno detto che sei svenuto poco fa.»
Ma non la ascoltò. Qualche giorno lì equivalevano a pochi minuti in Accademia. Aveva tempo. Così, appena tutto fu pronto, partì.
Dormì poco, per timore che l'Immersione potesse interrompersi, e perché quando chiudeva gli occhi ripensava a Susanne, senza ragione. Diede la colpa all'inaspettata somiglianza di Aine e al posto.
L'abilitazione di Clara, come anticipato da Hellen, apparve al concludersi del secondo giorno di viaggio. Se l'era immaginata vasta, tale e quale a quella dei Bertrán, e più che adatta a una famiglia di otto persone. Invece, la scoprì modesta, intima. Aveva un piccolo patio, mura non troppo alte tinte di un vivace azzurrino e un tetto spiovente. A colpo d'occhio, non l'avrebbe mai scelta come possibile abitazione di un membro della Convergenza.
Quando s'apprestò alla porta, si dischiuse ancor prima che potesse bussare su un sorriso composto e uno sguardo giallastro e guercio.
«Areth.» Clara si strinse nella mantella che l'avvolgeva. Il pancione era sparito. «Bentornato.»
«Come l'ha capito che non ero Marcus?» chiese sorpreso. «L'ha visto?»
«No». Lo squadrò da capo a piedi e indugiò sulla giaccia indossata alla meglio. «Dal disordine.»
Risero e Clara lo abbracciò forte. «È bello rivederti.»
«Anche per me» disse lui. «La trovo in forma.»
Lei si spostò e si carezzò il ventre piatto. «Non credere. Il difficile inizia dopo il parto.» Lo invitò a entrare con un cenno del capo calvo. «Andavo dai miei ragazzi, giocano sul retro. Mi accompagni?»
Areth accettò e la seguì. L'interno dell'abitazione non tradiva l'esterno: era umile, calda, decorata con ritratti di famiglia. Passando per la sala, accogliente e illuminata da luci soffuse, Areth ne vide uno gigantesco di tutti e otto. Sette -Clara, il marito, un uomo smilzo e slanciato, e i cinque figli adottivi – erano Wizja. L'ottavo, il più piccolo, sfoggiava occhioni azzurri e una zazzera riccia sulla testa. Si chiese se Clara, prima della sua Abilità, gli somigliasse.
Ma le domandò: «Come stanno andando le cose?»
«Dopo il Giudizio?»
Lui annuì.
«Il principato ha avuto il suo colpevole e gli animi si sono calmati» rispose Clara mentre apriva la porta che dava al giardino sul retro. Si sollevarono risa e schiamazzi allegri. «Così come ipotizzava Dante.»
«E lo Schieramento dei Novecento?»
Il tono s'indurì. «Credo che tu possa intuirlo.»
Sì, poteva. La storia aveva fatto il suo corso: avevano condiviso il destino di Galia. Gli riaffiorarono alla mente le parole di Sue, con rammarico. «E nessuno si è opposto.»
Uscirono. Il giardino combatteva le ombre della sera grazie alle svolazzanti luci Krafti. I figli di Clara erano lì, tutti assieme e, malgrado fosse evidente che avessero superato la ventina, correvano, ridevano e giocavano come bambini. Spandevano gioia e i loro sorrisi avevano quel bagliore che solo il calore di una famiglia unita sapeva accendere.
Areth si soffermò sul marito, chiuso in una redingote color canarino, che sorreggeva tra le braccia l'unico figlio naturale di Clara. «Quanti anni ha?»
«Cinque.» La donna sospirò e soggiunse: «Cinque anni di pace proprio perché nessuno si è opposto.»
Areth s'incupì. «È contenta di una pace costruita su una strage?»
«No, ma sono contenta che i miei figli possano avere ciò che io non ho avuto: un clima in cui crescere spensierati, dopo tanto sangue.»
«Solo perché non si vede, non vuol dire che non sia» disse aspro. Ripensò alla Cerchia Secondaria e, per un istante, gli si serrò la gola. «La gente ancora soffre.»
«Se sei qui per cercarne altro, di sangue, Areth, hai bussato alla porta sbagliata» replicò secca. «Ne ho avuto a sufficienza. E ora come ora, il mio unico desiderio è occuparmi dei miei figli. Vederli crescere.»
Areth tacque per un lungo istante. Guardò il bambino. «Che nome ha scelto, alla fine?»
Clara ritrovò il sorriso. «Gideon.»
Areth sentì la sorpresa montargli in petto. Ma lo tenne per sé. «È un bel nome.»
«Grazie.» Lo accompagnò a sedersi su una panchina poco distante. «Ma ora, dimmi: perché sei qui?»
«Desideravo ringraziarla» mormorò. Si torturò le mani. «Sono stato uno stupido. Ho capito solo ora su quanto avesse ragione riguardo il salvare Galia. Io... » Ancora faticava a crederci, ma, gli era evidente, non c'erano altre spiegazioni. «Non pensavo che un Wizja potesse vedere tanto avanti.»
«Forse sono solo stata fortunata.» Rivolse lo sguardo ai figli. D'istinto, sorrise. «Spesso le visioni le subiamo, non le cerchiamo. E il tuo è stato un caso... fuori dall' ordinario.»
«Avrei dovuto pensarci molto prima. A lei, a Galia, a me, a mia sorella, chissà chi altro.» Tacque e deglutì. «Le devo molto più di quanto potessi immaginare, Clara.»
«Non dirlo.» Posò le mani dalle unghie dorate sulle sue. La voce era calma e riconoscente. «Ciò che mi hai insegnato, ha rivoluzionato il mio mondo e quello della mia gente. Sei l'ultimo che mi debba qualcosa, Areth.»
«La prego, non mi dica di no.»
«Se proprio vuoi ripagarmi», disse morbida, «nulla mi renderebbe più orgogliosa che avere la tua amicizia.»
«L'ha già» fu sincero. Il vento della sera gli arrossò il viso. «Anche se, in secoli diversi sarà difficile. Per me è passato qualche giorno, per lei cinque anni.»
Clara si concesse un momento di silenzio. Poi lo guardò, gli occhi affettuosi, quelli amorevoli di una madre. «Ho imparato da qualcuno che l'anima valica il tempo.» Sorrise. «Perché non dovrebbe valere lo stesso per l'amicizia?»
Areth ricambiò e rinsaldò la presa sulla sua mano. «Grazie, Clara.»
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