24 - IN THE 𝐻𝐸𝐴𝑇 OF THE 𝑁𝐼𝐺𝐻𝑇 (p.1/2)

Per la prima volta da quando aveva iniziato l'Accademia, Sue dormì un sonno profondo e si svegliò rigenerata. Si sentì una persona nuova, diversa, viva. Guardandosi allo specchio, ancor prima che Robin la vestiste con un raffinato abito da giorno e le ravvivasse il viso come la permanenza alla Reggia richiedeva, le parve che la pelle fosse più luminosa, gli occhi grandi e brillanti, le guance piene e colorite. La colazione fu la migliore che avesse mai assaggiato: il bergamotto del tè era squisito, le paste fragranti, la frutta succosa. Anche l'aria sapeva d'un odore dolcissimo.

«È certa di non voler scendere coi suoi colleghi?» le chiese l'Asservita.

«Sono i colleghi di mia sorella» rispose. E non le importava perché Josh non era con i membri della Convergenza. Lo vedeva dalla finestra. Era all'ingresso della Reggia Rossa che aspettava, in tutta la sua perfezione: dagli abiti seriosi del lutto alla postura impeccabile. Avrebbe voluto essere lì con lui, al suo fianco, mano nella mano. Ma sapeva che sarebbe stata inopportuna e il perché arrivò a bordo di un'auto scura che gli si fermò davanti. Smontò una donna minuta, florida, dai lunghi capelli scuri raccolti, bardata da una lunga mantella color porpora. La prima cosa che fece fu abbracciare e baciare il ragazzo con un calore che le agitò l'invidia in petto.

«Lady Lars è sempre così bella» sospirò Robin sognante.

Sue era troppo lontana per accertarsi delle parole dell'Asservita, ma non si sentì di contraddirla. Dopotutto, Josh da qualcuno doveva aver preso. «Viene qui spesso?»

«No, ma i Lars hanno diverse proprietà nello Snodo. Ha una tale eleganza, Lady, come vostra sorella.»

Allora non è un buon segno, pensò.

Giocherellando con la catenina al collo, s'alzò e adocchiò la colazione. «Finisci pure tu qui. Vorrei andare a vedere come sta.»

«Ma, Lady, non mi è permesso. È vostra» ribatté Robin.

«Te lo permetto io.» Abbozzò un sorriso, che la donna ricambiò a stento con espressione perplessa, e s'avviò.

L'accolse il medico, fuori dalla stanza. Il viso, tirato, non la rassicurò, così come le parole che seguirono. Le condizioni di Hannaline non erano migliorate. Durante la notte aveva perso molto sangue, le lesioni faticavano a rimarginarsi. Han, addormentata nel letto, indossava ancora un pallore cadaverico e respirava a stento. L'unica modifica che colse sin dalla soglia era un nuovo vaso di porcellana, con una nuova e magnifica camelia.

«L'ha portata il principe poco fa» disse la voce di Remus. Era accanto al letto con aria insondabile e Sue, quando incrociò il suo sguardo giallastro, fece del suo meglio per nascondere l'inquietudine che le gettava addosso. «Credo che le riservi un pensiero speciale.»

«Quanto il tuo?» mormorò mentre s'avvicinava alla sorella.

Le labbra definite e nette di Remus ebbero un sussulto amaro. «So qual è il mio posto nella vita di Hannaline, Susanne. E sono consapevole del mio aspetto. Amare un Wizja non è per tutti.»

Sue non ribatté. Non avrebbe saputo come, se non con inutili frasi di circostanza. «Ti ringrazio d'essere rimasto qui stanotte» disse infine.

«Non devi.»

«E Bruce?»

«Non ha messo piede in questa stanza. È andato via» dichiarò ferreo e Sue sospirò sollevata. «Ma ciò che hai detto ieri... A cosa ti riferivi?»

Non lo nascose. «Credo che sia tutta opera di Bruce, che lui abbia architettato quest'aggressione, così come quella ai danni di Lord Raptis.»

«Hai delle prove?»

Tentennò. Sì, le aveva: aveva sentito, aveva visto. Lei, e solo lei, in un modo che non avrebbe saputo spiegare. E non sapeva neppure il perché delle azioni di Bruce. «È una sensazione» balbettò. «Ma era un evento pubblico. Non ci sono delle...»

«Registrazioni?» l'anticipò Remus. «Te le faro avere. Ora, vi lascio sole»

Lei sorrise. Lo guardò alzarsi e dirigersi all'uscita solo dopo aver stretto la mano inerte di Han.

«Remus.» Lo fermò. Fu più forte di lei. «Forse non vorrai sentirlo, ma grazie per esserle amico. Vorrei... che amasse te.»

Lui restò muto. Le poggiò una mano sulla spalla, le riservò una stretta gentile, e se ne andò.

Sue prese il suo posto e con la coda dell'occhio vide qualcosa muoversi accanto al collo di Han. Sorrise. Era Inquy, appallottolato e delle dimensioni d'una noce. Doveva essere lì dalla sera prima; non ci aveva fatto caso tra un pensiero e l'altro. Non lo disturbò. Rimase immobile per un tempo che non avrebbe saputo definire, a sorvegliare la sorella e a rimuginare su quello che sarebbe potuto succedere da quel momento in avanti. Si era buttata in tanti di quei rischi solo per capire a cosa andasse incontro Han e ora stava crollando tutto.

Come promesso da Remus, le portarono le registrazioni delle telecamere Krafti della Commemorazione, assieme al televisore. Se Bruce o un altro di quei ragazzi fosse stato coinvolto, l'avrebbe trovato. Le fece partire e le immagini furono quelle che spesso aveva visto standosene chiusa in casa, quelle a cui ogni cittadino di Hemera assisteva: la folla assiepata davanti alla Reggia rossa, il palco allestito perché il portavoce della Convergenza potesse parlare, le decorazioni floreali che abbellivano le strade e i palazzi. Vide Han. Lanciava occhiatacce alle telecamere, a chiunque non fosse al suo posto, con la sua solita espressione algida. Gli asserviti o li ignorava o li bistrattava. Più guardava le registrazioni, più si chiedeva come Michela potesse difenderla ogni volta. E vide lo zio di Josh. Sorrideva, sempre; li occhi scuri brillavano di una dolcezza rara con chiunque parlasse. Osservò un primo piano, mentre parlava con uno degli asserviti: era raggiante. E a Sue il cuore si strinse. Le sembrò ingiusto che una persona tanto gentile fosse dovuta morire. E per cosa? Per colpa di Bruce. Non concepiva cosa potesse volere: perché attaccare la Convergenza? Cosa avevano di tanto prezioso quelle otto persone da mettere a rischio la persona che diceva di amare? Si voltò verso Hannaline, che respirava flebile dalle labbra livide, mentre la registrazione si scuriva e iniziava a trasformarsi in un insieme di urla indefinite. Non le avrebbe mai creduto su Bruce. O su Xavier. Come le dico che tutte le sue convinzioni sono fasulle?

D'un tratto, trascolorò. Le coperte bianche che coprivano Hannaline avevano iniziato tingersi di rosso all'altezza dell'addome. Il viso divenne in fretta cadaverico.

«Han!»

Si precipitò a chiamare il medico, ma quando lui entrò, lei non poté. L'uomo non volle e forse, nel profondo, nemmeno lei. S'accasciò a terra, occhi prossimi al pianto. Desiderava stare accanto a sua sorella, ma non voleva vederla morire. Non per colpa di Bruce e dei Ballari.

I Ballari. L'occhiataccia di Areth nell'antisala la colpì all'improvviso. Scattò in piedi, raccolse la gonna dell'abito tra le mani e corse per i corridoi rossi a perdifiato finché, in lontananza, da una porta, non sbucò la figura bianca che affiancava il principe.

Stava andando via a passo svelto.

La seguì.

«Jalin!» Urlò il primo nome che le venne in mente. Non le interessava se fosse il suo o meno, le bastava che l'ascoltasse. «Jalin!»

Questa si bloccò e si voltò. Ma, anche quando Sue l'ebbe raggiunta, fu muta.

«Il principe. Ora. Devo parlarci» farfugliò affannata. I veli spessi si scossero assieme al capo che celavano. Così insistette. «Ne va della vita di mia sorella.»

L'altra, per un istante che a Sue parve infinito, non si mosse. Poi tornò nella stanza dalla quale era uscita e uando quando ricomparve, non fu sola. Al suo fianco, in un completo bianco quando la neve, ci fu il principe Valentine. Gli occhi rossi si posarono su di lei all'istante e dovettero vedere quanto fosse impresentabile, coi capelli sconvolti per la corsa, il viso e gli occhi arrossati dalla tristezza, l'abito spiegazzato.

«Gini mi ha detto che ci sono problemi con sua sorella» esordì. Nella voce c'era apprensione. «È peggiorata?»

«Ha bisogno di un Necromant» asserì. «Loro possono guarirla.»

Il principe corrugò la fronte. «Non so dove l'abbia sentito, ma i Necromant tendono fare l'esatto opposto.»

«Non l'ho sentito» ribatté decisa Sue. «C'è un Necromant nella vostra Accademia, A...»

«So chi è» l'anticipò. «Dove vuole arrivare?»

«Durante la prova per il Proclama, sono stata ferita da un Ballare e lui mi ha curata.»

«Ne è certa?»

«So quel che ho vissuto» replicò stizzita. Corresse il tono appena vide l'espressione sorpresa del principe. Arrossì, vergognosa. «Ne sono certa. Credetemi.» La voce era supplichevole, gli occhi umidi. «Non voglio che mia sorella muoia.»

«Jeremiah Abbott è ancora allo Snodo?» chiese il principe a Gini, che subito annuì. «Chiamalo.» Poi guardò Sue, negli occhi rossi una fermezza nuova, granitica. «Mi sto fidando di lei. Spero sia conscia di ciò che sta proponendo.»

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«Non credevo che venissi da sola» disse Josh mentre riempiva il bicchiere per la madre con le due dita di Ledeno che desiderava dopo ogni viaggio in auto. Era abituato a farlo sin da piccolo e anche nella stanza che gli avevano dato alla Reggia, dovette rispettare le tradizioni. «Dove sono Ian e Isabelle?»

«Alla residenza di piazza Marchese. Arriveranno» rispose la madre. Appena l'Asservito alle sue spalle l'ebbe aiutata a svestirsi della mantella, rivelando un tubino d'un viola scuro elegante quanto austero, lo mandò fuori dalla stanza. Si era portata dietro una scatola che Josh aveva faticato a non notare per quanto era ingombrante. L'aveva fatta posare sul letto. «Tua sorella è sconvolta. Ha pianto tutta la notte e tuo padre le è stato accanto fino al mattino. Se non fosse stato per lui, non credo si sarebbe mai calmata.»

Josh le porse il bicchiere, che lei accettò, con un sorrisetto di scherno. «Qualcosa di utile deve pur farla quell'uomo.»

«È tuo padre. Un ottimo padre, abbi rispetto» ribeccò severa e l'ammonì quando lo sentì bofonchiare acido contro le Casate Nobili. «Non impuntarti tanto, senza di lui non ci saresti tu.»

Josh ebbe un moto di disgusto. «Quindi, ci sarà anche lui al funerale?»

«No, per il Principato, che idea» squittì dalle labbra a cuore. Buttò giù del Ledeno. «Per quanto lo ami, sarà una cerimonia pubblica di una Casata di sangue e una Casata Nobile resta, beh, inferiore. Sarebbe un'oscenità e non ho intenzione di ridicolizzare il nostro nome. Anche il marito di tua zia non ci sarà.»

«Finalmente una cosa sensata» commentò schietto. E le scoccò un'occhiata in tralice, perplesso «Allora, perché sei sola? Di solito, per te l'emotività non è un motivo valido per un'assenza.»

«Joshua», rimproverò piccata, «non ti ho mai insegnato a essere maligno. Con tua madre poi.»

«Vero, mi hai insegnato a osservare. E non sei una persona che si ferma per un pianto, neanche quello di Libby.»

«Volevo darti una cosa senza le lamentele di tuo fratello.» Delfina posò il bicchiere e condusse il figlio all'ampia scatola. Poi, con occhi brillanti, disse: «Aprila.»

Josh tolse il coperchio e fissò il contenuto senza un briciolo dall'allegria. Gli sembrò d'essere davanti al corpo esanime di suo zio una seconda volta. «Un'uniforme della Convergenza.»  Fu tagliente.

«Non una, la tua», corresse la madre, gioviale. Dispiegò la giacca. Era meravigliosa: la stoffa bluastra era spessa e morbida, gli alamari erano intrecciati con fili dorati e la nappa viola della sua Casata era della tonalità perfetta. «L'ha commissionata tuo zio circa un settimana fa.»

«Perché?»

«Non si sentiva tranquillo e voleva che tu fossi pronto.»

«Cosa che non sono.»

«Sciocchezze» obbiettò lei. «Non c'è erede alla Convergenza che sia abile, intelligente, colto o leale al Principato quanto te. Tesoro mio, sei fatto per questo.»

«Voi mi avete cresciuto per esserlo» lamentò cupo Josh. «È diverso.»

«E sei perfetto.» Con una carezza amorevole sulla guancia, Delfina lo volse verso di sé. «Non sei felice?»

Josh temporeggiò. Dire di no sarebbe stata una bugia tanto quanto dire sì. «Non sono triste.»

«Indossala solo al funerale, per tuo zio» insistette, morbida.

L'ombra di un sorriso amaro gli si disegnò in viso. Sapeva che non si trattava solo del funerale. L'avrebbe visto l'intero Principato; quell'uniforme gli si sarebbe appiccicata addosso per i successivi trentasei anni. E lo sapeva anche sua madre.

«Era un'ipocrita che mi vedeva come un classista» replicò. Fu di proposito acido. «Dovrei compiacerlo ora che è stecchito?»

Delfina la guardò con l'amore negli occhi. «Era una brava persona che credeva in te, in ciò che puoi diventare. E che ti voleva molto bene.» Sorrise dolce. «Così come tu ne volevi a lui, a dispetto di quella tua linguaccia.» Lo fece abbassare per potergli scoccare un bacio sulla guancia. «Pensaci, tesoro mio. Ma non troppo. Lo sai, i Lars non hanno mai disatteso le aspettative del Principato.» E lo lasciò, aggiungendo che doveva informarsi su come stesse Isabelle.

Solo, Josh fissò la giacca della Convergenza, nauseato. Sua madre aveva ragione: la sua famiglia non aveva mai deluso il Principato. Anche suo zio, con quelle sue idee riprovevoli, si era sempre comportato come doveva, rinunciando a tutto ciò che voleva. E ora lo stavano chiedendo a lui, sei anni in anticipo.

Con un nodo allo stomaco, uscì.

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Jeremiah Abbott arrivò alla Reggia Rossa dopo venti minuti da quanto era stato fatto chiamare, scortato da quattro uomini nelle divise bluastre dell'esercito. Era un uomo sulla quarantina, con il viso ovale affetto da un naso che puntava dritto verso il basso. Camminava claudicante, appoggiandosi a un bastone da passeggio troppo basso che lo costringeva a un andatura ancor più scomposta, e il grigiore dei suoi abiti faceva il paio con l'incarnato esangue. Si guardava attorno con occhi febbrili, quasi non sapesse dove posarli. E anche la sua voce fu colpita da una grave agitazione quando si presentò al principe Valentine, che l'aveva atteso all'ingresso per tutto il tempo. Ma non era il solo: gli Asserviti della Reggia sembravano statue di sale, con sorrisi troppo larghi.

L'atmosfera era raggelante.

Sue osservava, distante, dalla prima soglia in grado di nasconderla. Gini, benché chiusa nel suo mutismo, le aveva imposto di restarne fuori. E la scena le sembrava surreale. Il principe aveva aperto le porte di casa sua a un Necromant, per Hannaline. Poteva davvero essere che tenesse così tanto a lei? Il pensiero fu soppiantato subito da un'altra urgenza. L'avrebbe guarita? Li vide discutere. Jeremiah sembrava balbettare; Valentine era quieto, ma a debita distanza e con le spalle tese. Non seppe dirsi quale fosse un buon segno e quale uno cattivo. Quando il principe sorrideva? Quando Jeremiah sbatteva il bastone a terra?

Fu tanto presa a rimuginare che non s'accorse dei passi alle sue spalle e della voce che sussurrò: «Che guardi?».

Sobbalzò e si voltò col cuore in gola. «Mi hai fatto prendere un colpo.»

Josh era a un passo da lei, impeccabile, e sorrideva. «Cos'ha d'interessante una stanza vuota?» domandò leggero, allegro.

«Non è...» Controllò. Aveva ragione. Jeremiah Abbott e il principe erano spariti. «Accidenti. Sono andati via.»

«Chi?»

Sue gli spiegò, quasi con noncuranza, ciò che era successo nelle ultime ore, e quando concluse, Josh la squadrò come se fosse pazza. «Susanne, quello non è un tuo amico. È un uomo di politica.»

«Quindi?» chiese spaesata.

«È gente che non fa le cose di cuore, ma di testa» disse con la voce carica della bontà che nasce solo davanti all'ingenuità. «Se credi che salverà tua sorella solo perché può, ti sbagli.»

Sue impallidì. Si diede della stupida. Come aveva fatto a non pensarci? Aveva agito d'impulso, pensando a sua sorella. Ma ora? Jeremiah era comunque un uomo a capo di un movimento che avanzava richieste. Se si fosse rifiutato di aiutare Han? Se avesse posto delle condizioni che il principe non era disposto ad accettare? Cosa ne sarebbe stato di sua sorella?

«E ora che faccio?»

«Puoi accompagnarmi fuori da qui.» Le prese la mano e solo quel contatto le provocò la stessa sensazione trascinante della sera prima. Le preoccupazioni sfumarono, persero ogni importanza, appena la pelle fremé sotto le dita di Josh. «Ho bisogno di una boccata d'aria e sono decisamente più interessante di una stanza vuota.»

L'indecisione di Sue si risolse in fretta. Ogni muscolo del corpo le gridava di andare e, si disse, non sarebbe potuta andare dalla sorella in ogni caso con Jeremiah lì. Gini e chissà chi altro glielo avrebbero impedito.

Uscirono. In una notte, lo Snodo aveva riacquistato parte della sua vitalità. Le auto erano tornate sulle strade, alcuni dei negozi avevano riaperto, gli impiegati degli uffici amministrativi del Bureaux saettavano verso le loro scrivanie. Dell'attacco rimaneva poco: qualche Asservito che raccoglieva macerie lungo il vialone di Porta Marchese, ben distanti dalle creazioni spazzine e diafane degli Zivel Acqua, i Mangiamosche Boccalarga, e Privilegiati impegnati a ricostruire ciò che era andato distrutto. Attraversando la candida piazza principale, Sue vide Zivel Aeris svolazzare da un balcone all'altro che per valutare i danni, Domen trasportare agilmente i materiali, Krafti che illustravano i piani di lavoro con proiezioni turchine.

Il sole era pallido e spirava un vento autunnale, fresco e frizzante. Ma Sue non avvertì il freddo. Mano nella mano con Josh, tutto le appariva perfetto. L'ascoltava ammaliata mentre le raccontava ciò che si era persa nei tre anni in cui non si era più recata nel centro di Hemera: i negozi, le attività, le iniziative delle altre Casate di Sangue. Non lo interrompeva, perché adorava il suono della sua voce. A volte era lui a bloccarsi. Soffermava a guardarla, con occhi che non avrebbe saputo definire, le sorrideva e riprendeva. Erano i momenti del discorso che Sue preferiva.

Intervenne solo quando lo udì nominare Jeremiah Abbott. «Cosa sai di lui?» chiese.

«È l'unico legittimato a stare nello Snodo, sai, per lasciare le vie di comunicazione aperte.» Gli uscì quasi fosse un barzelletta. Poi tornò serio. «Ed è l'ultimo che abbia un legame coi primi Abbott. Dicono che sia una specie di pacifista, ma ne dubito. Quelli come lui non lo sono mai e credo che nessuno avrebbe fatto quello che fatto tu.»

Sue abbassò lo sguardo sulla pietra bianchissima sotto i piedi. Pensò a Han. «So che può aiutarla, come Areth ha fatto con me nell'Ingresso.» Sentì il ragazzo al suo fianco sibilare qualcosa su quanto tempo avesse perso a causa degli accessi all'Antisala chiusi e gli domandò curiosa: «Tu dov'eri?»

«Metaforicamente, qui» ripose. «Il Guardiacaccia traccia la mia linea rossa quasi sempre nel posto dello Snodo a cui sono più legato.»

«Quale?» chiese. «Una qualche proprietà dell'enorme famiglia Lars?»

Divertito, Josh fece di no. «Vuoi vedere? È vicino.»

Sue annuì, precipitosa. Mai si sarebbe lasciata scappare l'opportunità di conoscerlo meglio e, a mani unite, s'avviarono, diretti verso il viale che dava sull'ingresso Est dello Snodo, Porta Sagese. Nel frattempo, chiese; «Non è barare sapere dove di trova l'uscita?»

«L'Accademia non rischia la vita degli eredi al seggio. Sarebbe da imbecilli» disse, asciutto. «Sono agevolato. Come lo dovresti essere tu.»

Sue s'allarmò. «Perché hai detto che dovrei esserlo?»

L'espressione di Josh s'incupì. Al suo fianco, lei poté scorgere quanto contrasse la mascella e quanto gli sollevò il petto il grave sospiro che emise. Negli occhi ebbe un bagliore d'incertezza che le ricordo quello di due giorni prima, lungo la via dei busti. Sembrò che non volesse risponderle, ma alla fine confessò: «Il Guardiacaccia mi disse che non potevi uscire».

Il sangue le gelò nelle vene. «Cosa?»

«Ho pensato che Mrs. Dowell avesse sbagliato a creare l'Ingresso e quindi anche le disposizioni per quell'essere. E dei Ballari. Era la tua prima volta nell'Ingresso, non avrebbero dovuto comunque attaccarti o ferirti. Avrebbero dovuto fermarsi» continuò amaro. «Ma con quella lettera e il busto rimosso, credo che si tratti di tutto fuorché uno sbaglio.»

Sue non seppe cosa dire. Ammutolì. L'ipotesi che qualcosa si stesse muovendo in Accademia le sembrava sempre più una certezza. Ma le sfuggiva il perché. Forse, si disse, doveva solo aspettare di tornare in Accademia, così con Areth sarebbe potuta andare a vedere cosa nascondeva quel pezzo di marmo.

Se torno...

Scacciò il pensiero. «Ora come ora, voglio solo che Han stia bene» mormorò. Quando sollevò lo sguardo, scoprì quello di Josh su di lei. Aveva un luccichio strano. S'imbarazzò. «Cosa c'è?»

«Nulla» liquidò lui. Guardò altrove.

«A volte è complicato capire se ciò che dici è ciò che pensi, ma questa è una bugia» perseverò Sue. «A cosa pensavi?»

Josh schiarì la voce e rispose solo dopo che ebbero imboccato una via stretta stretta, adombrata dagli edifici stessi. «A te. E a me. A quanto siamo diversi nel modo di pensare, di vivere.»

«Ed è un male?»

«Sei della stessa pasta di mio zio. Dovrei odiarti.» A quelle parole il cuore le balzò in gola. L'idea che Josh potesse odiarla la spaventò e non seppe spiegarsi perché. «Ma, quando sono con te, è come se non fossi me stesso.»

«E questo lo è?»

«Cosa?»

«Un male.»

Un sorriso gli sfiorò le labbra e gli addolcì gli occhi. «Per alcuni no.» Si fermò e indicò alla sua sinistra. «Arrivati. Mia madre portava me e i miei fratelli sempre qui da piccoli per i regali.»

Sue lo imitò. Si trovò davanti a un negozio chiuso con la targa nera che recitava: "Oreficeria Beryl Bee, dal 157". Era tanto stretto che sembrava stritolato da quelli accanto. «Vi regalava gioielli?»

Annuì. «Mia sorella Isabelle ha un debole per le collane di rubini. E mio fratello Ian ha coì tanti cammei e bracciali che potrebbe farci una mostra d'antiquariato. In confronto, sono davvero molto sobrio» disse. «È la migliore oreficeria che ci sia.»

«Non sembra» commentò Sue. Dalla vetrina, l'interno sembrava oltremodo trascurato. Scorse i pavimenti di legno rigato, il mobilio datato, le lampade annerite. «Come potrebbe essere la migliore?»

«Perché ti concentri sulla cosa sbagliata.» Josh le indicò i gioelli esposti. «Importa quel che ti offre.»

Sue li osservò. Erano magnifici, opere d'arte di mani esperte, e in linea con ciò che molti abitanti dello Snodo indossavano: dai vistosi collier di diamanti e gli accecanti bracciali pieni di zaffiri, alle enormi spille d'oro massiccio e gli orecchini d'argento purissimo. Costavano un occhio della testa. Per questo si stupì, quando tra tutti i gioelli, adocchiò un anello. Era piatto, semplice, forse d'oro bianco con l'incisione di un animale. Non vide bene quale, forse per la scarsa illuminazione o perché l'incisione sembrava fatta da un principiante; poteva essere un gatto come un coniglio. Ne lesse il prezzo, impallidì. Era proibitivo persino per una Casata di Sangue.

«Ti piacciono le cose costose» disse a Josh.

«Mi piace ciò che è bello» la contraddisse.

Sue si drizzò e lo analizzò. Pensò, e con un sorriso affermò: «Questo è vero. Lo pensi».

Lui rise morbido. «Era facile da indovinare. Credo di dimostrarlo spesso.»

«Allora falla più difficile» lo sfidò, baldanzosa.

Sue s'aspettò che ci riflettesse. Ma non fu così. La risposta arrivò di getto. La guardò, occhi scuri intesi, e sommesso disse: «Non so perché io mi sia innamorato di te.»

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