22 - SINCE YOU 𝐴𝑅𝑅𝐼𝑉𝐸𝐷

Furono l'intenso odore di pino e una brutta scossa a svegliare Sue. Stropicciandosi gli occhi, pensò che fosse stato tutto un brutto sogno, ma quando vide i sedili scuri dell'auto e Josh seduto accanto a lei, l'illusione sfumò. La convocazione della Convergenza era arrivata davvero e loro erano saltati in auto all'istante. Avevano passato ore, in silenzio, entrambi concentrati sul proprio dolore sino alle prime ore di buio. Lei doveva essersi assopita, complici le notti in bianco.

«Dove siamo?» chiese a voce impastata.

«Nella frazione Domen» rispose Josh. Il viso era una maschera tesa. «Dovremmo arrivare allo Snodo entro sera.»

«Quanto ho dormito?»

«Forse quattro ore.»

«Tu?», domandò. «Hai riposato?»

Rimase in silenzio. Fissava il finestrino scuro. «Dormo poco di mio.»

«E come ti senti?»

Era una domanda stupida. Stava come lei, che neppure avrebbe saputo cosa rispondere. Dolore, sofferenza o tristezza non erano abbastanza. Quel che provava era più simile al...

«Vuoto», sussurrò Josh, «mi sento vuoto.»

Sue ebbe una fitta al cuore. Fece scivolare la mano in quella del ragazzo. Provò quella consueta ondata di quiete che le trasmetteva e, quando lui la strinse, si disse che forse potevano essere l'uno l'ancora dell'altro in quel mare di vuoto.

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I calcoli di Josh si rivelarono esatti: giunsero alla Snodo prima che il sole tramontasse. Sue osservò la città, ma non trovò l'allegria che aveva conosciuto da piccola in compagnia di Michela o le luci Krafti tra i palazzi in costruzione dell'Immersione. L'atmosfera era pesante, i viali erano cupi, non un'anima, che fosse Privilegiata o Asservita gironzolava per le vie, le finestre erano serrate, alcuni dei balconi erano distrutti. C'era sangue: guazzi scarlatti e viscidi tingevano ancora la piazza bianca. E c'erano corpi, troppi, nascosti sotto pensanti teli, in fila. Li fissava con occhi lucidi e rabbrividiva: si chiedeva chi fossero, quale fosse la loro vita e perché fosse stata spezzata in quel modo. Come quella di sua sorella...

Ricordava la Reggia più grande e più rossa di quanto fosse in realtà. Se non fosse stato per Han, non sarebbe mai tornata lì...

Furono accolti da un uomo dal collo taurino che disse di chiamarsi Carl, l'espressione non era dissimile dalla loro. Dopo averli avvisati che i membri della Convergenza li avrebbero raggiunti a breve, li guidò per corridoi che Sue trovò familiari. Attraversarono il punto in cui Lucio aveva baciato Galia, dove aveva sentito la sua volontà sciogliersi davanti a quella della donna e, d'istinto, si domandò cosa fosse successo a Lucio.

Scacciò il pensiero quando Carl si fermò davanti a una stanza bianca e fredda. Sapeva d'asettico. C'era un medico, allampanato e con una folta barba grigia, che se ne stava sconsolato accanto a un letto, coperto da un telo. Al di sotto, la figura s'intravedeva. Si rivolse a Josh: «Lord Lars, entrate pure.»

Lo fece e il medico scoprì il viso pallido di Andrew Dominic Lars.

Gli occhi di Sue rimasero per tutto il tempo fissi sulla schiena di Josh mentre il cuore le si stringeva con ferocia. Le lacrime le pizzicarono gli occhi; crollarono sulle guance. Andrew, l'uomo gentile che le si era presentato con tanto entusiasmo, era morto.

Sopraggiunse una voce alle sue spalle. «Grazie, Carl, da qui ci penso io» diceva.

Sue si voltò, e mal celò l'inquietudine che l'assalì: «Lord Le Morphis.»

«Susanne», il Wizja ebbe sulle labbra il fantasma di un sorriso, «sei cresciuta.»

«Dov'è mia sorella?» tagliò corto, pulendosi il viso. «Perché non è qui?»

«Così ha voluto il principe» disse e Sue non seppe che pensare. Cosa c'entrava con sua sorella?

Lord Le Morphis ordinò a Carl di rimanere con Josh e di indicargli le stanze dove avrebbero dormito quella notte, poi, la invitò a seguirlo fino a una camera accogliente, colorata e calda.

E il fiato le si mozzò in gola. Stesa nel letto, c'era sua sorella, emaciata, pallida, coi lunghissimi capelli sciolti, un taglio suturato sull'intera guancia sinistra e le labbra livide. Ma respirava: il petto s'alzava e s'abbassava a un ritmo pericolosamente lento.

Sue la raggiunse e ricacciò le lacrime negli occhi irritati. Han detestava sentirla piangere; i singhiozzi la infastidivano. Se l'avesse vista, le avrebbe dato della stupida. Le sfiorò la mano, le dita erano ghiacciate. «È v...»

«Instabile» dichiarò Remus, serio. Tacque. Poi riprese. «Altrimenti non saresti stata convocata. Le ferite sono profonde. Il medico non sa se supererà la notte.»

Sue si girò e lo guardò nei grandi occhi gialli che l'avevano sempre inquietata. Non s'era mosso dalla soglia e fissava Han teso quanto una corta di violino. «Ma tu potresti.»

«Se mi concentrassi... potrei.»

«Allora fallo.»

«No.»

«Perché no?»

«Perché preferisco sperare» si precipitò a dire.

La colpì dritta nello stomaco. Nel tono c'era una vena di dolore profondo che sarebbe potuto andare a braccetto con il suo. Non vuole la certezza della sua morte. E atterrì. Rivolse lo sguardo sul viso pallido della sorella. Vuol dire anche che la probabilità che non sopravviva, è alta...

Deglutì. Avrebbe voluto stringerle la mano, ma non riuscì. Han sarebbe stata contraria. Si scostò. «Perché il principe ha voluto che stesse qui?»

«Per il giardino» rivelò Remus. «Pensava che le sarebbe piaciuto.»

Sue notò in quel momento la grande finestra: si vedeva l'immensa distesa di camelie rosa. Una di queste, in un vaso di meravigliosa porcellana, impreziosiva anche il comodino accanto al letto. Era bellissima, dai petali tanto luminosi e setosi che da sola eclissò l'enorme bouquet di fiorellini violacei che apparve dalla porta del bagno...

Sue sentì Bruce prima che potesse vederlo. «Susy, sei arrivata in fretta.»

«Che ci fai tu qui?» ringhiò a denti stretti quando lui spostò il mazzo di fiori dal viso. L'ira le montò in petto. Era lo stesso Bruce che aveva ciondolato per casa sua quell'estate: sguardo annoiato, passi indolenti, l'orribile maglioncino sulle spalle. Il sorriso era una mezza linea storta che Sue odiava.

«Che vorresti dire?» chiese lui, confuso. Mentre posava il vaso di vetro sul comodino accanto, urtò quello di porcellana, che cadde e si ruppe in mille pezzi. «Accidenti.»

«Tu non dovresti esserci»

Bruce si chinò per raccogliere cocci e camelia. Gettò tutto nella spazzatura. «Susy», il tono ebbe un che di viscido, le rivoltò lo stomaco, «non dire sciocchezze»

Remus le s'affiancò. «Qualcosa non va?»

«Che domande. Guardala. È sconvolta» affermò Bruce, accigliato.

«Non lo sono» mentì Sue. Lo era. Se non fosse stato per il fidanzato della sorella, sarebbe corsa fuori, a piangere rannicchiata contro il muro. Si rivolse a Remus, senza staccare gli occhi da quelli azzurri di Bruce. «Quest'uomo non deve avvicinarsi a Han.»

«Mr. Lilar, lasci la stanza» ordinò Remus, lapidario. «Su desiderio di Lady Bertrán.»

A quell'appellativo, un brivido gelido la scosse. Per la prima volta, avvertì il peso di quelle quattro lettere. Se sua sorella fosse morta, lei sarebbe stata la nuova e unica Lady Bertrán. L'ultima della Casata.

«No», allibi Bruce, a fronte aggrottata. «È una ragazzina, Remus.»

«È una Casata di Sangue. La sua voce vale esattamente quanto quella di Hannaline. Se vuole che tu te ne vada, tu esegui.»

«Dopo quanto è successo? Non essere ridicolo.» Con la mano accarezzò la tempia di Hannaline in un tocco dolce e affettuoso che nauseò Sue. E ciò che soggiunse con un'aria addolorata in viso, fu la famigerata goccia: «Tua sorella vorrà svegliarsi con accanto qualcuno che la ami, Susy».

«Che la ami?» ripeté rossa di rabbia e occhi dardeggianti. «Uno scarafaggio potrebbe amarla più di te!» urlò. «Sei un bugiardo! Un essere abominevole che non dovrebbe toccarla con un dito!» Si protese verso Bruce col sincero desiderio di graffiargli il viso e fargli patire un pizzico del dolore che stava provando lei, ma fu afferrata per la vita da braccia forti.

«Basta, Susanne.» La voce di Josh le lambì le orecchie.

Scalciò e si dibatté. «Lasciami!»

«Vieni via.»

«No! È un assassino!» gridò fuori sé, le unghie artigliavano la giacca viola del ragazzo. E inveì fremente d'odio contro Bruce, immoto: «Tu e quelli che ti porti dietro! Siete assassini!»

E mentre Josh la trascinava fuori dalla stanza e Remus la guardava spaesato, trasalì. Vide gli angoli della bocca di Bruce sollevarsi in un sorrisetto divertito, che sparì appena il Wizja si voltò su di lui.

«È stato lui!» Il grido di Sue si propagò nel corridoio di marmi rossi. «Quella gente è morta a causa tua!» Continuò a riversagli addosso il suo odio, a costo di ferirsi la gola perché voleva che Bruce sentisse, che chiunque sentisse.

Josh la liberò, la voltò verso di sé e le chiuse il viso tra le mani. «Susanne!» Lei si paralizzò: forse fu per il tono che usò, per l'improvviso tepore sulle guance che le trasmise o per il lieve rossore che ebbe negli occhi. «Basta.» le mormorò.

Sue aprì la bocca per parlare, ma la voce le morì in gola. Non sapeva cosa dire, a lui come a se stessa. Cosa sarebbe stato giusto dire? Deglutì. E, solo allora, a occhi brucianti, si lasciò vincere dai singhiozzi. Uno dietro l'altro, la fecero tremare come una foglia, le gambe le cedettero. Josh la sorresse e la strinse contro il petto, sussurrandole dolci rassicurazioni.

Mentre gli inondava la giacca dell'Accademia d lacrime, Sue diede della meschina. Era lì a farsi consolare da lui, che doveva star vivendo un dolore ben più grande del suo. Sua sorella aveva ancora una speranza, lo zio di Josh no. Eppure, era come un fiume in piena.

Quando si calmò, provò solo stanchezza.

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Prima di una cena che Sue avrebbe preferito evitare, diedero loro il tempo per rinfrescarsi. Raggiunta la sua camera, un piano sopra a quella di Josh, Sue finì in una vasca da bagno di rame lucido alla velocità della luce. Robin, la domestica sulla quarantina dalla riccissima chioma corvina che le era stata assegnata, la preparò con minuziosa attenzione: strofinò con vigore, cancellò con creme e oli finché ogni rossore della pelle, le nascose le occhiaie scure col trucco, le sistemò le unghie e le acconciò i capelli. Poi le chiuse il torace nel consueto corsetto e le infilò un meraviglioso abito di seta verde Bertrán. Ma appena s'apprestò chiuderle al collo una bellissima collana d'oro e smeraldi, Sue la fermò.

«Voglio la mia.»

La domestica guardò la catenina datale da Josh, inorridita. «Ma è d'argento!»

«Quindi?»

«Vostra sorella vestiva sempre l'oro.»

Il pensiero di Han le inumidì gli occhi, ma s'indispettì. «Mia sorella veste l'oro» corresse asciutta. «E non sono lei. Usa la mia, per piacere.»

Anche se borbottante, osservò Robin eseguire. Il lieve brivido freddo della rosa d'argento le solleticò la pelle lasciata spoglia dallo scollo. Si meravigliò di quanto velocemente si fosse abituata a indossarla.

Calzò tacchi non troppo alti e si guardò allo specchio. Quasi non si riconobbe. L'immagine della ragazzina dell'Accademia insonne aveva lasciato il posto a quella di una radiosa giovane donna: il trucco le donava qualche anno in più e intensificava lo sguardo, la pelle rosea era luminosa, i capelli raccolti da un lato esaltavano la fine curva del collo. E l'abito, liscio, semplice e dalle sofisticate maniche lunghe, slanciava la figura sottile. S'irrigidì e deglutì, a disagio. Questa sono io... o quella che devo essere?

Una bussata le impedì di rispondersi e forse ne fu grata. Robin aprì e fece capolino Josh. Indossava un completo che non si discostava troppo dall'uniforme Zivel dell'Accademia, ma che tendeva al purpureo. I polsini della camicia parevano brillare di luce propria.

La squadrò da capo a piedi. «Accidenti.» S'accostò a lei, la prese per mano e le fece compiere una piccola piroetta. La gonna ondeggiò morbida. «Bertrán, sei...»

Il cuore di Sue fremette. «S-sono?»

«Una lumaca.» Sorrise. «Ce ne vuole per impiegare più tempo di me.» Le offrì il braccio. «Andiamo?»

Sue accettò e s'avviarono.

La cena fu servita nella stessa sala da pranzo in cui lei e Areth avevano condiviso la colazione col principe Xavier, il tempo non aveva mutato lo sfarzo o l'imponente lampadario di cristallo. Bruce non si presentò e ne fu felice.

Si unirono membri della Convergenza, già nella stanza a conversare in piedi e aspettare l'arrivo di tutti i commensali. E malgrado ognuno vestisse il colore della propria Casata, Sue li confuse. Riconobbe Remus, in giallo; Anteo, il padre di Iris, che saluto entrambi con foga, in azzurro, e Portia Haines, l'unica donna, in un abito blu tanto largo che sembrava reggersi da solo. Tutti gli altri li mischiò assieme all'agitazione che le indeboliva lo stomaco. Continuò a balbettare, gesticolò troppo e persino l'unica domanda che azzardò fu superflua.

«Come sapete che è stato un attacco Necromant?» tartagliò mentre Portia le consegnava il secondo bicchiere di vino prima di cena.

«Ovvio! Tanta oscurità e morte può essere creata solo da dei Necromant.» ringhiò un uomo asciutto dalla barba bionda. Poi grugni, iroso: «Fosse per me sarebbero già scomparsi da Hemera, fino all'ultimo.»

«Fortunatamente, Cyrus, non decidi solo tu» s'intromise Remus e l'altro sputacchiò parole poco garbate. E a Sue rispose: «Sappiamo poco della loro Abilità, ma un evento simile non è mai accaduto se non nei racconti sull'origine degli Abbott.»

«Intendete il Mito delle tombe e delle rose?» commentò scettico Josh, che sin dall'arrivo sembrava nel suo habitat naturale: che si parlasse d'economia, sanità o dell'ultima festa d'estate, sapeva quando sorridere, cosa rispondere, come muoversi o dosare la voce. Sue lo invidiò, ma fu felice di non essere sola. «La notte che dicono essere durata una settimana?»

Remus annuì. «Limitato allo Snodo, per qualche ora. Sono i Ballari che non...»

S'arrestò al rumore porta della sala che s'apriva. Sue si girò. E impallidì. Vide Xavier e i suoi occhi rosso sangue entrare con accanto Jalin, ricoperta di veli bianchi. D'istinto, arretro d'un passo. Solo quando l'ebbe di fronte, mentre porgeva le sue condoglianze a Josh, realizzò che si trattava del figlio, Valentine, e che la figura a pochi passi da lui non poteva essere Jalin. Lo studiò. I lineamenti arcigni del padre erano smussati, più dolci, la carnagione più colorita risaltava grazie al completo bianco, il portamento era più rilassato. Se non fosse stato per il colore degli occhi, non avrebbe mai creduto che potessero essere imparentati.

Al rumoroso schiarimento di voce di Portia, si riebbe. Era stata così presa dal cogliere le differenze tra l'Immersione e il presente che aveva scordato la riverenza e non s'era accorta della mano del principe protesa verso di lei.

Subito rimediò, paonazza di vergogna. «Altezza...»

«Spero non si dispiaccia se, dopo stasera, preferirei rivederla tra qualche anno» disse pacato il principe.

«Pensate che mia sorella si rimetterà?»

Temporeggiò. Poi le sorrise. «Penso che sia una donna molto forte.»

Si sederono e cenarono. I piatti, antipasti leggeri, carni arrostite e dolci alla frutta, furono deliziosi; dopo ansie e giornate frenetiche, Sue li gustò a pieno. Lasciò la conversazione ai membri della Convergenza e non le dispiacque. Alcuni dei temi che saltarono fuori non li aveva mai sentiti nominare e molti non erano di suo interesse. Quando Anteo cercava di coinvolgerla, si limitava ad annuire e sorridere o a sperare che Josh rispondesse per lei. Il tutto si concluse quando la figura in bianco bisbigliò all'orecchio del principe, che reagì come se avesse appena ricordato qualcosa e, cordiale, si congedò.

Sue fu felice di potersi ritirare, ma prima fece visita alla sorella. Remus andò con lei; le disse di non preoccuparsi e che avrebbe vegliato lui su Han quella notte.

Josh l'aspettò fuori e quando uscì le chiese: «Come sta?»

«Nulla di nuovo» mormorò. Tentò di mascherare le paura di poter perdere la sorella l'indomani con un sorriso abbozzato. «Il funerale di tuo zio?»

«Domani sera» Affiancati, s'avviarono lungo il corridoio. «I miei arriveranno in mattinata.»

Sue si strinse nelle spalle. «Vorrei solo capire perché Bruce avrebbe dovuto causare tutto questo. So che vuole qualcosa dalla Convergenza, ma non...»

«Farli fuori a uno a uno?» commentò Josh e prima che Sue potesse chiedere se fosse stata indelicata, sorvolò. Invece, disse: «Ho parlato con lui, l'altro ieri. Al telefono».

«Davvero?» Sbigottì. «Che ti ha detto?»

«Che la Convergenza è brutta e cattiva e qualche altra roba strampalata da fanatico psichiatrico. Il punto è che non è un Necromant. E quell'animale di Cyrus ha ragione: solo uno di quelli può provocare un'oscurità simile in pieno giorno. Nella combriccola che hai visto ce n'era uno?»

Si sforzò. «Non che ricordi, ma non toglie che possa esserci.»

«È un'eventualità.»

Mentre svoltarono a destra, Sue azzardò: «Nella quale Areth non c'entra.»

S'aspettò un commento pungente, che non arrivò. Josh si era rabbuiato, all'improvviso. Di profilo, le ciglia creavano un'ombra scura sugli occhi. E per qualche momento, fu muto. Poi, disse: «Non volevo fargli del male, Susanne».

«Perché l'hai fatto?» Non ricevendo riposta, incalzò. «Sei geloso?»

Josh si bloccò in mezzo al corridoio e la guardò attonito. «Io? Geloso di Mead? Quel tizio è tanto accecato dalla sua ignoranza che non coglie quanto lui sia inutile. È ridicolo.»

«Beh...» Posò gli occhi su di lui per un istante, poi fissò il pavimento, e rossa in viso disse: «Iris, però, l'hai baciata.»

Ripresero a camminare. I passi riecheggiarono.

«Sì, l'ho fatto.»

«Perché?»

«Susanne», sospirò, «Iris è la migliore amica. Dobbiamo per forza discuterne?»

«Stavi per strangolare Areth senza ragione, Josh. Se c'entra Iris...»

«Voglio solo il suo bene», la interruppe secco. E sputò: «Che non è un Necromant aspirante terrorista di una Casata infima che le rovina la vita. Ma lei non c'entra».

«Allora perché l'hai aggredito?» Lui esitò, torvo. Così, gli strinse la mano, che ebbe un lieve tremore. «Josh...»

«Sono un paio di mesi che la mia Abilità non mi risponde come dovrebbe.» confessò sommesso. «L'ho sempre gestita alla perfezione, ma ora se mi agito, mi arrabbio, agisce da sola, fuori dal mio controllo. E fa male.»

«Male?» ripeté allarmata. L'idea che l'Abilità potesse ferire l'Iskra stesso non l'aveva mai sfiorata. «Quanto?»

«Immagina,» una smorfia gli storse la bocca, «d'avere metallo fuso, che ribolle, sottopelle. Negli ultimi giorni è aumentato.»

«Il Riduttore?»

«Non la blocca del tutto. E anche se lo facesse, non sarebbe piacevole. Te l'ho detto: noi siamo la nostra Abilità, inibirla è inibire noi stessi, quegli aggeggi sono trappole. Preferisco tenerla a bada da me.»

Imboccarono il corridoio a destra, dalle finestre si vedeva il giardino interno. Alle luci delle sera, le camelie assumevano una sfumatura bluastra.

«Come?» chiese Sue.

«Con il Ledeno...»

Lei s'accigliò, perplessa. «Sarebbe quella specie di liquore verdastro che ti bevi?»

Josh rise appena. «Sì. È fatto apposta per noi Ghisa. È naturalmente freddo e aiuta. Poi, uso la Myrciaria Ericea per calmarmi e attenuare il dolore, ma è uno stupefacente quindi...»

«Crea dipendenza.»

«Sì.»

«E ne hai bisogno?»

«Quasi costantemente.»

Mentre iniziavano a salire le scale, Sue fece due calcoli e ripensò all'odore di pino dell'auto. «Esageri, non hai fumato mentre dormivo. Saranno almeno dodici ore che ne fai a meno.»

Josh si fermò e le mani unite portarono Sue a fare lo stesso, qualche gradino più in alto. Sollevò lo sguardo su di lei, gli angoli delle labbra incurvati da un accenno d'imbarazzo. «Non prendermi per pazzo, ma credo sia merito tuo.»

Sue arrossì. «Mio?»

«È come se mi facessi lo stesso effetto dell'Ericea.»

«Che intendi?»

Salì un gradino. Le prese le mani nelle sue, senza distogliere gli occhi dai suoi. «È strano, ma da quando ti ho incontrata ho una sensazione di benessere standoti accanto. Era lieve e non le ho dato importanza, ero più interessato a capire cosa nascondessi. Però è cresciuta. Giorno dopo giorno, è stato impossibile ignorarla. Neanche sono certo d'aver fatto espellere Areth solo per Iris perché, quando ho saputo che eri con lui...»

Le dita s'intrecciassero da sole, con una naturalezza, e Sue fu scossa da un fremito.

«Tutto con te si placa, Susanne» continuò Josh a voce bassa. «Sento tranquillità, sicurezza, come se...»

«Fossi al posto giusto» si sentì dire Sue. Lo realizzò in quel momento. Sin da quando era arrivata, per quanti dubbi avesse avuto, la quiete e la sicurezza che le trasmetteva Josh sembrava riapparire sempre.

Josh salì un nuovo gradino e il cuore di Sue le galoppo in petto; le fu tanto vicino che non distinse i contorni del suo volto. «Invece, quando non ci sei, è diventato insopportabile. Quasi non ragiono. Ho il bisogno di cercarti, di parlati, di sapere se», le lasciò una mano per sfiorarle la rosa al collo, pelle tiepida «sei al sicuro. Ho il costante desiderio d'averti di nuovo vicino, di sentire la tua voce, di toccarti, di...»

Non finì. Sue non gli diede il tempo. Gli prese il viso tra mani e premette le labbra sulle sue. Agì d'istinto, quasi non s'accorse d'essere stata lei. Un attimo prima lo guardava negli occhi e quello dopo aveva azzerato la distanza tra loro. Non era mai stata lei a baciare e uno dei due baci della sua vita non era stato suo, ma di Galia. Quello invece sì, ed era intenso, e desiderato; fino a quel momento, neanche aveva concepito quanto. E non pensò. Avvertì quel senso di quiete e sicurezza trasformarsi in appartenenza; il cuore battere a mille; la mano di Josh nei capelli che le disfaceva l'acconciatura, l'altra sulla schiena l'attirava a sé, contro il suo petto, con tanta forza che avrebbero potuto fondersi. E quasi lo percepì il fuoco che le fiaccava le ginocchia...

Josh s'allontanò e la guardò con occhi scuri e intense come pozze. «È meglio», disse come una battaglia gli imperversasse in corpo, «se torni in camera da sola.»

«Perché?» mormorò appena. Le sembrò che il respiro l'avesse abbandonata mentre sentiva le labbra pulsarle e il cuore volere di più.

«Mi conosco abbastanza bene» bisbigliò e le scoccò un bacio sulla fronte. «Buonanotte.» Discese le scale, ma fece pochi passi e si voltò. La fissò per un breve istante e sorrise. «Non l'ho detto prima, ma stasera sei bellissima.»

E se ne andò.

Sue lo seguì con lo sguardo, immobile sui gradini. Si rese conto in quel momento di cosa avesse fatto, di cosa avesse desiderato, e avvampò d'imbarazzo. Pian piano che la lucidità vinceva sull'emozione, si chiese perché l'avesse baciato. Lo voleva, ma non era da lei. Sapeva che dentro di sé non aveva quel genere di coraggio. Eppure, dovette lottare contro se stessa per riprendere a salire le scale, per non corrergli dietro e dirgli di baciarla ancora.

In camera, Robin l'aiutò a prepararsi per la notte. La congedò presto e sprofondò nel letto morbido. La sua mente volava a Josh, da sola. Ripensava e riviveva quel bacio sotto le palpebre chiuse. E percepiva ciò che le aveva detto. La sua assenza aveva di colpo assunto un sapore d'insopportabile, la distanza tra loro sembrava qualcosa di fisico che doveva essere smantellato. Si rigirò nel letto per ore, costringendosi a non cedere al desiderio di scendere da Josh e stringerlo. S'addormentò quando ebbe la meglio la stanchezza del viaggio.

Col sorriso.

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